Contrariamente alla tradizione che voleva le Mazda sportive equipaggiate con un motore rotativo, la Miata è spinta da un classico quattro cilindri a ciclo Otto. Le motivazioni di questa scelta, che può apparire poco comprensibile, sono di carattere sia tecnico che economico.
In primo luogo il Wankel 13B già in produzione che veniva montato sulle RX-7 non era adatto ad un'auto piccola e soprattutto leggera come doveva essere la LWS del progetto P729: la sua adozione avrebbe comportato un aggravio di peso e un aumento di dimensioni, in contrasto con gli obiettivi tecnici e commerciali dell'auto.
Anche un'unità più piccola (10A), di cui si era ipotizzata la realizzazione, risultava difficile da stivare nel vano motore senza sacrificarne l'altezza che si voleva contenere il più possibile.
In secondo luogo, il motore a pistoni rotanti presenta delle caratteristiche che lo rendono più adatto ad una possente GT piuttosto che ad un'agile spider a cui si voleva conferire un comportamento nervoso: la curva di coppia piatta e regolare tipica del Wankel garantisce grandi doti di progressione, ma non il comportamento "rabbioso" che si andava cercando.
Si optò quindi per un quattro cilindri in linea.
Una delle componenti della Miata non espressamente progettate ex novo fu proprio il propulsore di 1.6 litri, derivato dall'unità che equipaggiava la versione sportiva della 323. Questo motore era perfetto per la berlina, ma fu necessario un grande lavoro di sviluppo e messa a punto per ottenere il cuore adatto alla nuova piccola spider.
I requisiti richiesti erano una buona dose di potenza e, soprattutto, un'erogazione sportiva, unite a leggerezza ed affidabilità.
Furono mantenute le dimensioni fondamentali (alesaggio 78 mm e corsa 83,6 mm, per una cilindrata di 1597 cc), ma si dovette adattarlo affinchè potesse essere montato longitudinalmente (e non trasversalmente come sulla 323) e si lavorò per alleggerirlo il più possibile: collettori di scarico in acciaio inossidabile (più leggeri del 30% e più resistenti) e accessori più piccoli (ad esempio la ventola del radiatore, accorgimento reso possibile dal fatto che il motore posto longitudinalmente e dotato di una nuova coppa dell'olio in alluminio necessitava di minore raffreddamento rispetto alla collocazione trasversale della 323).
L'unico alleggerimento trascurato fu quello relativo al basamento di ghisa: sicuramente l'alluminio avrebbe garantito un peso minore, ma l'aggravio di costi avrebbe avuto una ripercussione inaccettabile sul prezzo finale, cioè sull'altro parametro che si voleva assolutamente contenere insieme alla massa.


Il propulsore sfrutta una distribuzione con doppio albero a camme in testa (con comando tramite cinghia dentata) e quattro valvole per cilindro, azionate tramite punterie idrauliche. L'accensione, controllata elettronicamente, è affidata ad una sola candela per cilindro, posta nel centro della camera di scoppio a tetto. Un problema che si dovette affrontare fu la collocazione del distributore d'accensione: normalmente esso è calettato ad un'estremità dell'albero a camme (come sull'unità originale della 323), ma questa soluzione avrebbe costretto a montare il motore in posizione più avanzata, penalizzando la distribuzione dei pesi. Si decise allora di adottare un sensore di posizione angolare dell'albero a gomiti, di ridotte dimensioni, lasciando alla centralina il compito di gestire gli impulsi di accensione e le due bobine. Questa soluzione è indubbiamente più costosa, ma permise una ideale ripartizione delle masse.
L'albero motore, in ghisa sferoidale, è dotato di otto contrappesi e poggia su cinque supporti di banco; ad esso è collegato un volano più leggero rispetto al motore della 323: questi accorgimenti consentono al propulsore di sopportare regimi elevati, fino a 7250 giri/min, soglia di intervento del limitatore.


Il passo successivo fu la messa a punto vera e propria: il punto fondamentale non era la potenza, ma il modo in cui questa doveva essere resa disponibile al pilota.
L'erogazione doveva essere il più possibile simile alla concezione classica di sportività: un motore tranquillo ai bassi regimi ma pronto a sfoderare grande grinta salendo di giri.
Significative sono le parole di Norman Garrett, ingegnere della MANA impegnato nella progettazione della P729: "Ciò che davvero dà la sensazione di velocità in un'auto è il continuo crescere dell'accelerazione. Con un Wankel la curva di coppia è piatta e l'accelerazione costante. Una RX-7 è rapidissima nello scatto, ma non sembra così veloce perchè fornisce un'accelerazione costante, come sugli aerei. Fui irremovibile nel pretendere che, comunque fosse stato messo a punto il motore, l'andamento della curva di coppia risultasse tale da garantire un'accelerazione crescente all'aumentare del numero di giri, fino ad elevati regimi di rotazione".


Per ottenere le caratteristiche desiderate fu incrementato il rapporto di compressione fino a 9,4:1; vennero adottate valvole di grande diametro (31 mm per l'aspirazione e 26,2 mm per lo scarico, angolate fra loro di 50°) e profili delle camme adatti ad avere ampi angoli di incrocio e alzate notevoli (7,8 mm). Una ricetta classica per favorire gli alti regimi di rotazione. Per non sfavorire troppo l'erogazione ai medi e bassi regimi furono comunque realizzate due camere di risonanza nel condotto di aspirazione per sfruttare al meglio l'effetto ram proprio ai medi regimi, garantendo un'andamento della curva di coppia più omogeneo.
L'alimentazione venne affidata ad un impianto di iniezione elettronica multipoint L-Jetronic, sebbene fosse stata ipotizzata anche l'adozione di classici carburatori. Le norme antinquinamento vigenti in Giappone e negli USA e la maggiore affidabilità del sistema ad iniezione prevalsero però sulla tradizione e sul fascino della soluzione a carburatori. Proprio in ossequio a queste norme venne anche adottato un catalizzatore a tre vie allo scarico, con sonda lambda.
Alla fine si ottennero 115 CV (85 kW) a 6500 giri/min e 13,8 kgm (135 Nm) a 5500 giri/min. Il valore non particolarmente elevato della potenza massima pare che sia stato volutamente contenuto per rientrare in classi di assicurazione economiche negli USA. Il riferimento era rappresentato dalla Honda CRX, che evolvendosi era passata in classi superiori rendendosi poco accessibile a quella che doveva essere la propria clientela d'elezione; in Mazda si cercò così di dotare l'auto di un motore relativamente poco potente in origine, ma che fosse facilmente potenziabile per coloro che ne avessero avuto il desiderio. Si potrebbe azzardare un paragone con le Giulia GTA prodotte dall'Alfa Romeo negli anni '60, che in configurazione stradale disponevano di soli 115 CV, ma il cui propulsore era stato pensato per essere facilmente elaborabile.


In un modello che fondava il proprio appeal sui richiami alle classiche sportscar degli anni '60 non potè essere trascurato il lato estetico anche sotto al cofano; molta cura fu posta nel conferire al motore un bell'aspetto. Significativa a questo proposito è la finitura della testata in alluminio, trattata superficialmente in modo da sembrare un pezzo ricavato da fusione in terra. Tutto nella migliore tradizione italiana ed inglese.
Singolare, durante la progettazione, fu anche l'attenzione dedicata all'impianto di scarico, costruito interamente in acciaio inossidabile, con collettori di lunghezza il più possibile uguale e accuratamente "accordato". Anche in questo caso entrarono in gioco la passione e la meticolosità di Toshihiko Hirai: consapevole dell'importanza del timbro sonoro dello scarico in un'auto sportiva, come le più belle auto europee insegnavano, egli realizzò un nastro con le registrazioni del "sound" di oltre 100 motori di cui apprezzava particolarmente il suono, che ascoltava ripetutamente nel tragitto casa-ufficio. Dopo un'accurata cernita la scelta cadde su un rombo pieno e corposo, si dice ispirato a quello della BMW M1.


Al motore (siglato B6-ZE) fu accoppiato un cambio derivato da quello installato sulle RX-7 aspirate (cambio tipo "M"). I rapporti furono accorciati per meglio adattarsi alle caratteristiche della P729 e venne particolarmente curato il feeling che la leva avrebbe dovuto dare al pilota.
Furono introdotti dei fermi di fine corsa in modo da che si potesse ottenere una sensazione di innesto precisa e definita (accompagnata da un "click" metallico): durante i colloqui tra la MANA e il Giappone venne preso come obiettivo un cambio che risultasse un ideale incrocio tra quello della Jaguar E-type (per la precisione) e quello della BMW serie 7 (per la scorrevolezza, raggiunta dopo un periodo di rodaggio).
L'imperativo era quello di avere comunque rapporti molto corti per favorire la reattività della macchina, uniti anche ad una corsa della leva il più ridotta possibile; il motto da seguire era "shift by wrist" = "cambiata di polso" e alla fine si ottenne effettivamente una corsa minima: 45 mm.
Il cambio è collegato al motore mediante una frizione monodisco a secco con comando idraulico, e trasmette il moto alle ruote posteriori (con rapporto al ponte pari a 4,3:1) mediante un differenziale che poteva essere, come optional, autobloccante a lamelle. Sia la campana del gruppo frizione-cambio sia quella del differenziale sono di alluminio.
Lo sterzo è a cremagliera (3,3 giri del volante per la sterzata completa), e come optional era disponibile il servocomando (2,8 giri).


Una delle peculiarità meccaniche della Miata è sicuramente il Power Plant Frame (PPF), una struttura rigida di collegamento tra cambio e differenziale. E' costituita da una trave di alluminio (di spessore 6 mm) con sezione ad U che avvolge l'albero di trasmissione, con lo scopo di rendere monolitico il sistema cambio - albero - differenziale. Questo accorgimento, patrimonio di alcune tra la più famose granturismo, consente di minimizzare vibrazioni e seghettamenti e di fornire una maggiore rapidità di risposta della vettura durante accelerazioni o frenate violente. La forma e le dimensioni del PPF furono studiate mediante l'analisi ad elementi finiti ed ottimizzate con l'ausilio di computer: il peso finale fu così contenuto in soli 4,9 kg.
Un altro pregio di questo sistema costruttivo è la limitazione dei punti di ancoraggio alla scocca dell'intera trasmissione: nella Miata tali punti sono solo quattro. Tale caratteristica è sicuramente un vantaggio rispetto all'avere punti di fissaggio diversi per ogni singolo componente della trasmissione.
Più in dettaglio, il PPF è montato con quattro attacchi ai due sottotelai ausiliari che reggono i ponti anteriore e posteriore; questi ultimi sono poi fissati alla scocca in punti adeguatamente rinforzati.


Ovviamente la parte più difficile ed importante nel progetto di una automobile di questo genere, che deve avere nel comportamento stradale la propria dote migliore, riguarda la scelta del sistema di sospensioni: qui non si scese a compromessi, studiando e realizzando componenti completamente nuovi.
Il compito di collegare al suolo la vettura è così demandato a gruppi con schema a ruote indipendenti, con doppi triangoli sovrapposti, molle elicoidali e barre stabilizzatrici anteriormente e posteriomente. Questa scelta venne fatta per assicurare alla vettura un comportamento stradale di prim'ordine, superiore a quello che si sarebbe ottenuto sfruttando un più convenzionale schema McPherson.
Sicuramente è questo uno dei punti di forza dell'auto, forse quello che più di ogni altro ha contribuito a decretarne il successo e che consente ancora oggi alla Miata di stare al passo, quando non davanti, di vetture di ben più recente realizzazione.
Degno di nota è il sistema di ancoraggio della ruota posteriore, realizzato mediante tre boccole che presentano resistenze differenziate: in questo modo si riesce a garantire una modifica dinamica della convergenza ed un leggerissimo effetto sterzante che aiuta nella percorrenza delle curve, quando la ruota è caricata trasversalmente.
Tutto l'assetto è facilmente regolabile, potendo modificare convergenza, campanatura e caster con semplici interventi.


L'impianto frenante, servoassistito, prevede un sistema a quattro dischi: gli anteriori, autoventilanti, con un diametro di 236 mm ed uno spessore di 18 mm; i posteriori con diametro di 231 mm e spessore di 9 mm. Il freno di stazionamento è di tipo meccanico ed agisce sulle ruote posteriori.


Le ruote definite in sede di progetto prevedono cerchi in lega leggera da 14" con canale da 5,5" di tipo JJ, com'è tipico delle auto giapponesi. L'offset è di 45 mm e rappresenta un parametro particolarmente delicato per consentire alle sospensioni di poter lavorare al meglio; l'interasse tra i fori è di 100 mm. Su questi cerchi sono previste coperture 185/60 R14 82H:la Mazda interpello' diversi costruttori di pneumatici dando come riferimento le prestazioni stradali delle Bridgestone RE86 ma esigendo, rispetto a queste ultime, un peso piu' ridotto e la possibilita' di avere il meglio delle prestazioni ad una pressione di gonfiaggio piuttosto bassa (1,8 bar), per ottenere un maggiore comfort.
In pratica vennero create delle gomme (Bridgestone SF-325) ad hoc per la MX-5 che pesavano 7,5 kg l'una contro gli 8,15 kg delle RE86.
In caso di emergenza la dotazione prevede una ruota di scorta di dimensioni ridotte 115/70D14, gonfiata a 4,2 bar.



Per maggiori dettagli, ecco la scheda tecnica ed un'immagine del layout meccanico (riferito ad una versione del 1995 con motore da 1.8 litri).

 


 

Le principali caratteristiche tecniche della Miata: i dati, le soluzioni scelte, i motivi