Capitolo 1
(Qualche anticipazione sulla "cosa"


1.1) Ipotesi pluralistica e realtà dualistica.

Il termine "pluralismo" ha subito una sorta di monopolizzazione da parte della politica e della sociologia, al punto che è diventato difficile proporlo in altro contesto senza rischiare qualche equivoco. Tuttavia, per il discorso che si intende qui sviluppare, nessun sostantivo è più adatto a designare l'atteggiamento mentale di chi voglia guardare alla realtà non in modo superficiale e generico, ma con l'attenzione che merita "ogni" aspetto di essa che presenti caratteristiche proprie, irriferibili ad un'immaginaria "unità-totalità" che li comprenderebbe. La quale, in ogni caso, sarebbe sempre inadeguata a rendere esaustivamente la specificità reale degli elementi che la determinano. Con ciò non si intende censurare l'uso di termini che nell'economia del discorso sono estremamente utili, ma metter in guardia dal fatto che nel pensarli si faccia di loro delle entità "reali", dal momento che essi sono dei semplici "segni" linguistici che indicano un "insieme plurale" altrimenti non esprimibile
.
Per rendere più comprensibile il significato e il senso che qui si intende dare a "pluralismo della realtà" (nell'accezione "reale")forse, più di ogni definizione, può essere utile fare alcune banali considerazioni sul fraintendimento concettuale che avviene ogni giorno nel corrente ed usuale modo di esprimerci (e di pensare), col quale si tende sempre (per economia espositiva, ma con inevitabili ricadute concettuali) a "totalizzare" la pluralità in un'unità, al punto che l'insieme astratto "sostituisce" le parti reali a cui fa riferimento, riassumendone la realtà in un "significante" sostanzialmente equivoco. Ci serviremo, a titolo esemplificativo, di tre termini usuali che "totalizzano" la realtà plurale che indicano, nascondendola o almeno mettendola tra parentesi: quello di "natura", quello di "cielo"e quello di "corpo" (animale). Ad essi noi facciamo riferimento come unità significative in se stesse, mentre si tratta soltanto di termini linguistici, i quali indicano degli insiemi astratti e unitari di realtà concrete e distinte; una sorta di scatole effimere che nascondono ciò che contengono. Tali considerazioni sono desumibili anche da semplici manuali di scuola media e tuttavia esse si riferiscono ad una sorta di scientifiche "nozioni inattive", in quanto imparate ma immediatamente espunte dalla coscienza, che confermano come l'ovvietà scientifica, data in generale per acquisita, sia molto spesso del tutto assente nella maniera con cui comunemente pensiamo la realtà. Essi sono quei contenitori di cui noi solitamente consideriamo l'involucro, senza chiederci che cosa ci sia dentro: un facile "uno" inconsistente al posto di "molti" reali concreti. Oltre alle (legittime) esigenze discorsive una persistente tradizione metafisica ancora permeante la contemporaneità ci porta ad avere sempre sugli occhi un "monistico" paio di occhiali coi quali guardare una realtà pluralistica, perpetuandone così un sostanziale fraintendimento. La realtà è infatti costituita da un insieme frammentario di elementi disgiunti, che si connettono e si relazionano (anche con processi di retroazione) in un continuo processo evolutivo che li modifica singolarmente, senza mai condurli verso quella sorta di "sovrarealtà olistiche"(4) largamente interiorizzate, che funzionano ottimamente in poesia ma pessimamente in filosofia. La realtà globale non può infatti essere considerata un organismo (nel qual caso l'olismo sarebbe perfettamente giustificato), ma piuttosto un coacervo di entità indipendenti (ancorché interagenti) mai riducibili ad una totalità.

Il concetto di "natura"viene utilizzato per indicare ciò che sta all'interno del nostro pianeta, sulla sua superficie e nella parte di spazio che esso trascina nella sua rotazione (sinteticamente potremmo indicarli con endosfera, biosferaed atmosfera). Questi tre elementi della Terra possono interagire tra di loro, ma sono del tutto indipendenti e del tutto scoordinati (se non in un ipotetica mente divina). L'endosfera prosegue verosimilmente nel suo lento indurimento e nella sua stabilizzazione cominciata cinque miliardi di anni fa, la biosfera è quel sottilissimo e recente strato che la ricopre (frammentato in milioni di specie viventi rispondenti soltanto a un'irrazionale volontà di esistere "singolarmente" e irriferibili a una "globalità" della vita), la stratosfera è una miscela di gas e vapori il cui stato dipende esclusivamente dal sole, dalle gravità in gioco e dal moto della Terra. Ma all'interno del concetto di "natura" ci è anche dato cogliere un'ulteriore irreale unità astratta coprente una pluralità reale: il concetto di "forze della natura". L'espressione indica fenomeni del tutto o in parte sconnessi, come eruzioni vulcaniche e terremoti (relativi all'endosfera), uragani e cicloni (relativi all'atmosfera) e maree (dovute alla gravità lunare). Accade così che un maremoto e un uragano nel linguaggio corrente (e purtroppo anche nella forma mentis) siano considerati semplicemente due aspetti diversi della natura (che sarebbe inoltre la stessa degli esseri viventi e dei loro insiemi), mentre si tratta di realtà diverse e irrelazionabili. Definirli allora "aspetti" della natura alimenta l'equivoco di un'unità che nella realtà non esiste, mentre essi sono elementi autonomi di essa; elementi che non hanno nulla in comune e vanno pertanto tenuti "pluralisticamente" distinti qualora se ne vogliano cogliere eventuali rapporti ed interazioni "reali".

Un analogo tipo di distorsione psicologica si compie parlando del "cielo". Noi siamo soliti parlarne e pensarlo come l'unità di ciò che sta fuori della Terra e che si presenta come una specie di aereo e sconfinato soffitto dove si appuntano le stelle, mentre in realtà si tratta di un immenso vuoto contenente, in piccola parte e con grande discontinuità, una pluralità di entità diversissime (in minima parte visibili, in piccola parte rilevabili strumentalmente e in massima parte oscure) ognuna delle quali con una forma, una struttura, una costituzione e una fenomenologia talvolta assolutamente uniche. Già soltanto le stelle, i più noti e celebrati abitanti del cielo (costituenti soltanto una delle numerose categorie di corpi celesti) differiscono l'una dall'altra per composizione e luce (nonché singole o accoppiate tra loro o con altri corpi) (5). Ma pensare comunemente il cielo come il "posto" delle stelle ci fa dimenticare che esse non sono altro che elementi minimi di sistemi complessi come le galassie, le quali (costituite da aggregati di materia solida, liquida e gassosa) si presentano con forme e caratteristiche assai diverse (anch'esse singole o accoppiate) e che viaggiano a velocità enormi allontanandosi tra loro da diversi miliardi di anni. Il cielo risulta così essere uno strumento linguistico eccellente in campo estetico e metafisico, ma esiziale in filosofia. Più corretto sarebbe pensare il cielo soltanto come la faccia terrena dell'universo ed a questo riferirsi, ma con ciò non siamo del tutto al sicuro dal ricadere ancora una volta nell'equivoco, poiché esso stesso può ancora essere pensato come un unità complessa derivante da un unità semplice (il big bang originario). Pensare l'universo attuale in maniera monistica è un involontario assurdo gnoseologico, che conduce inconsapevolmente ad una visione della realtà distorta e sviante. È quindi in tal senso che qui si auspica un corretto approccio pluralistico a ciò che è plurale, evitando (almeno sul piano concettuale se non su quello discorsivo) di cadere in quella sorta di metafisica "trappola monistica", che ci rende spesso inconsapevoli del "ciò che è" perché consideriamo reale il "ciò che si dice".

Il termine "corpo" (anche "organismo") ci conduce al terzo esempio. Esso è un "sistema" vivente il cui prototipo è nato per caso e si è autoorganizzato con modificazioni e adattamenti per lo più casuali, i quali però hanno avuto l'eccezionalità di risultare "riusciti", dando così origine a processi "necessari" e ripetibili, mentre miliardi di altri sistemi simili sono "abortiti" (o "selezionati") e pertanto non sono più qui per permetterci di considerarli. Esso è un "sistema" vivente nato per caso e organizzantesi per modificazioni e adattamenti per lo più casuali, che hanno però avuto l'eccezionalità di risultare "riusciti", dando origine a processi "necessari" e ripetibili, mentre miliardi di altri sistemi simili sono "abortiti" (o "selezionati") e pertanto non sono più qui esistenti per consentirci di considerarli. Il corpo di un animale (sia quello dell'uomo o quello di un verme) è uno straordinario miracolo dell'evoluzione della materia, col quale le cellule "collaborano" per tenere insieme e mantenere in vita un organismo. La differenziazione di queste cellule avviene in base ad un programma fisso scritto nel genoma, essa aumenta con la complessità dell'organismo in formazione fino a costituire "una" comunità di miliardi di unità viventi funzionalmente connesse in organi e loro parti, ma tutte concorrenti alla vita di un "unitario" corpo vivente, definito ed individuabile. Essendo il corpo animale una perfetta macchina biologica a nascita "sprogrammata", la quale, se risulta averne i requisiti, si "auto-programma" per vivere e morire, costituisce un esempio di come sia la pluralità che è all'origine di tutto ciò che vive e non ciò che vive all'origine della pluralità che lo costituisce. La formazione auto-programmata avviene attraverso un assemblaggio per lo più "necessario" di unità viventi che si specializzano man mano che il corpo evolve in funzione di un "ruolo" specifico. Se il passaggio da materia morta a materia vivente (all'origine delle "macchine biologiche" attuali) è frutto del caso (6), come lo è probabilmente la nascita del prototipo di ogni specie, non sarà ozioso precisare che tutte le "parti" di macchine biologiche prodotte artificialmente con l'ingegneria genetica (e quindi vengono "programmate" a priori) vanno considerate nella loro specificità di entità viventi "volute" dall'uomo e non assimilate alla realtà "storica" delle macchine biologiche "naturali" che ha avuto origine nel tempo . Sembra legittimo ipotizzare che gli organismi viventi attuali siano dei sistemi olistici perfettamente coordinati, dove cellule originariamente anarchiche si siano organizzate attraverso un processo "collaborativo" che ha condotto all'esistenza e al funzionamento di un corpo vivente (7). Ed anche gli ecosistemi, nei quali specie diverse di organismi viventi convivono in integrazione o addirittura in simbiosi, sono il frutto "in equilibrio" di lunghi processi di conflitto, adattamento e selezione per noi inimmaginabili, che possono venire definiti veri "miracoli" pluralistici della convivenza e della collaborazione selettiva, a partire da esigenze che all'origine erano probabilmente totalmente indipendenti.

Potremmo facilmente giungere alla conclusione che in realtà tutto il nostro universo è uno straordinario sistema sprogrammato e casuale di realtà diverse in relativo equilibrio, dove da circa dodici miliardi di anni una varietà quasi infinita di corpi celesti nascono e interagiscono, muoiono e sopravvivono. All'interno di questo sistema (in un piccolo pianeta alla periferia di una delle innumerevoli galassie) da due miliardi di anni circa le prime cellule viventi hanno cominciato ad esistere, a sdoppiarsi, a svilupparsi e a coordinarsi fino a produrre organismi complessi come piante ed animali, tra i quali noi che siamo qui a parlarne.

A questo punto diventa importante fornire anticipatamente una coordinata essenziale per collocare il dualismo antropico reale(in seguito DAR) in una prospettiva propria, al riparo da equivoci che possano assimilarlo o peggio confonderlo coi vari "dualismi" storicamente noti, siano essi di carattere filosofico o di carattere religioso, che si basano su dualità del tipo materia/forma, esistenza/essenza, apparenza/realtà, ideale/reale, spirito/materia, spirito/natura, anima/corpo, bene/male, ecc. Il DAR infatti intende collocarsi non già nel campo dei principi o dei concetti astratti, ma in quello della realtà, sia pure con tutti i limiti e i difetti che può avere una tesi non scientifica e di carattere puramente intuitivo/induttivo. Nondiméno esso si basa anche su una rilettura della storia dell’uomo e del cosmo fondata sulle poche o tante acquisizioni scientifiche nei vari campi, le quali si debbono però coniugare con l’attenzione ad elementi antropologici relativi a quella possibilità dell’uomo di porsi, anche fuori da orizzonti rigorosamente scientifici, come soggetto conoscente e al tempo stesso come oggetto di conoscenza. Nell’opporsi alle mistificazioni metafisiche e dottrinarie tipiche delle ideologie religiose nella loro generalità, il DAR cerca anche di cogliere le eventuali intuizioni del reale che, quà e là, esse possono aver assorbito e fissato, utilizzandole come segnali fossili di una primitiva interpretazione del mondo e della vita.

Il DAR, che potremmo definire la sottospecie antropica di un più generale pluralismo cosmico, si pone in netta contrapposizione a tutti i monismi (8) (siano essi di carattere materialistico, idealistico o spiritualistico) quali false risposte a naturali, ma intellettualmente svianti, richieste psichiche (9) di "unità-omogeneità-uniformità" e di "determinazione-spiegazione", trasferite arbitrariamente in una lettura della realtà che mette "ideologicamente" tra parentesi, od espunge, ogni aspetto di essa non riducibile a quella presupposta unità-totalità. Io considero infatti il monismo, in tutte le sue varie forme, una sorta di totalitarismo concettuale, intollerante verso ogni elemento di estraneità ai dogmi che esso pone a priori quali fondamenti irrinunciabili.

L’ipotesi pluralistica del DAR riguarda un cosmo (uni-verso o pluri-verso?) (10) caratterizzato da termini di realtà non "chiusi" e limitati a ciò che le nostre capacità induttive/deduttive ci permettono di cogliere (privilegianti spesso una prospettiva puramente antropica) poiché esso si apre ad una realtà più complessa che vada oltre, dove l'uomo venga considerato non altro che l'espressione più evoluta, ma non necessariamente più alta e definitiva, tra le forme di organizzazione della materia. Quello che viene messo in discussione dal DAR (che per molti versi è una forma di materialismo"critico") è di concepire come "reale" soltanto ciò che è riducibile alla materia, sia in forma elementare che evoluta, escludendo ogni altra entità o fenomeno che non presenti questa caratteristica, oppure attribuendogli forzatamente la "riducibilità" in modo acritico e dogmatico. Ma esso si oppone ancor più nettamente a certe derive idealistico-spiritualistiche che alla nostra mente affidano ogni più arbitraria creazione o interpretazione concettuale del cosmo e della vita.

Il DAR, partendo quindi dall’ipotesi dell’esistenza di più ambiti (11) di realtà tra loro separati e irriducibili, li considera anche come dimensioni del reale collocati su piani diversi, dove l’appartenenza ad uno di essi rende normalmente estraneo tutto ciò che appartiene ad un altro ambito. Ciò ci permette, in linea di principio, di evitare il rischio di sopravvalutare le possibilità intellettuali umane e quindi di abbandonare la chiusura ideologica che vuole l’uomo "al centro dell’universo", a favore di un’apertura verso ciò che non è per noi conoscibile in senso stretto, ma di cui possiamo intuire l’esistenza e alcune sue caratteristiche. L’importante è poter stabilire se tale intuizione ha una base universale e quindi può essere considerata comune ad ogni uomo e non a "eccezionalità" individuali (vere o presunte), che potrebbero dar luogo a frutti di tipo "rivelativo" o "creativo" inconsistenti sul piano del reale a tutti accessibile. La negazione da parte del DAR di ogni antropocentrismo si estende anche ad ogni giudizio di valore circa gerarchie biologiche o metafisiche (uomo "re" del creato, nobiltà del bene [per noi e magari a discapito di altre specie] rispetto al male, ecc.) strettamente connesse all’antropocentrismo.

La nostra ipotesi pluralistica tuttavia implica anche un’altro aspetto, non meno importante dal punto di vista gnoseologico, quello di staccarsi dalla concezione dell’universo e delle sue parti come una realtà all’interno delle quali viga una sorta di continuità strutturale. Ciò è basato prevalentemente su degli apriori puramente intellettualistici e privi di alcun riscontro nella realtà. E questo avviene soprattutto perché l’uomo spesso ha applicato alla realtà"qual’è" i concetti di come "dovrebbe essere", o meglio, di come "vorrebbe che fosse" in base a pregiudizi, a dogmi ideologici o a richieste psichiche simili a quella già citata di "unità e omogeneità" che hanno condizionato diffusamente e pesantemente anche le teorie scientifiche. La realtà, per contro, si presenta per lo più costituità da elementi "discreti" (distinti), ma sempre all’interno di una sintesi funzionale che può essere solo erroneamente interpretata come una continuità strutturale. Sotto questo punto di vista un esempio illuminante ci viene dalla struttura più complessa ed evoluta della materia vivente (il nostro cervello), costituito da centinaia di miliardi di cellule specializzate tra loro strettamente connesse, ma recanti ognuna una funzione singola e specifica all’interno del comportamento, apparentemente univoco, del sistema nervoso e della mente.

Senza addentrarmi ulteriormente in ciò che sarà esaminato in seguito mi limito qui ad anticipare che il DAR suppone (all’interno di una realtà probabilmente "plurale") una realtà antropica "duale", poiché, oltre alla materia, realtà primaria che ci circonda e ci costituisce, ci è dato intuire una seconda realtà ad essa irriducibile, che si rivela in generale nel mondo dei sentimenti e più in particolare negli affetti, nelle emozioni estetiche, nelle commozioni etiche, negli entusiami della scoperta e della conoscenza. Se è vero infatti che la materia, in ogni sua forma, si rende evidente, percepibile e computabile nella percezione e nell’analisi razionale, non è meno vero che quest"altra" realtà è altrettanto evidente nell’intuizione e nella sensibilità individuale. Il vero problema gnoseologico consiste nel poter stabilire se questa seconda realtà sia alla fin fine riducibile alla prima, come un suo particolare modo d’essere e di manifestarsi, oppure (ed è la nostra tesi) resti ad essa irriducibile.

Nel ribadire che uno dei criteri fondanti del DAR è quello basato sul riconoscimento di una funzione della nostra mente (di tipo "extraintellettivo") di intuire una sfuggente realtà extramateriale, anticipo qui che il rapporto tra tale realtà(intuita) e la funzione mentale(intuente) è probabile che si verifichi in modo analogo a quello per cui la terra concerne la zampa che la calca, l'acqua la pinna che la fende o l'aria l'ala che vi si libra (12). I nostri corpi animali sono infatti costituiti da elementi che traggono la loro forma e la loro funzione dalle informazioni sulla realtà esterna, che attraverso l'evoluzione biologica il genoma ha ricevuto ed elaborato per meglio "adattarli" all'ambiente naturale, perciò non si vede per quale ragione una parte specializzata del nostro cervello non possa accedere ad informazioni, per quanto labili, su una realtà intima che favorisce o determina il sorgere di nostri particolari stati d'animo, i quali non possono essere semplicisticamente e acriticamente ridotti alla pura attività elettro-chimica delle nostre cellule cerebrali.



1.2) Un’ipotesi per il XXII secolo (Verso la crisi delle fedi?)

Con un un passo indietro vorrei ora fare una ricognizione storica sui prodromi che hanno portato alla nascita del DAR, per sottolineare che, a metà degli anni '90, quando esso era solo una bozza mentale dalle incerte prospettive, anche sul piano personale, il mio pervasivo pessimismo mi faceva pensare ad uno scenario antropologico relativamente inquietante e col quale mi pareva di dovermi confrontare anzi tempo. Come si sa i depressi hanno strane fantasie, ma le mie mi hanno poi condotto (almeno lo spero) a qualcosa che dalla dimensione psichica è trapassato dapprima in una riflessione sul problema del nostro rapporto con la realtà e successivamente nell’elaborazione di una risposta su basi (credo) di sostanziale razionalità. Nella prospettiva di cui dirò il DAR potrebbe avere allora almeno un ruolo: risultare utile come tentativo ante-litteram, o come esempio metodologico, oppure come insieme di riflessioni esistenziali da utilizzare ad personam, per un approccio post-religioso ad una concezione del mondo su base sì materialistica, ma senza cadere nel "materialismo" puro e crudo; anzi, con l'apporto di elementi decisivi per un suo positivo superamento.

Ipotizziamo allora che in un futuro non troppo lontano (tra quanti decenni?), almeno nel mondo industrializzato, si abbia, più o meno improvvisamente, una vera presa di coscienza della realtà dell'universo (attualmente ancora impedita dalla forte presenza di credenze religiose permeanti la nostra cultura) e che insieme con nuove scoperte scientifiche sull'origine della vita possano entrare in crisi, in modo traumatico, tutti i tradizionali sistemi di credenza che hanno aiutato per millenni i nostri antenati a sopravvivere a disagi e a sofferenze, a credere nella vita e nell "oltre", a fare figli, a coltivare la terra, a costruire case e città. Se questa previsione dovesse eventualmente avverarsi (ma direi che qualche debole segno non manca) si verificherebbe una mutazione antropologica probabilmente drammatica, a meno che ciò non venisse mitigato e rallentato nel tempo dalla resistenza che inconsapevolmente verrebbe opposta nel profondo della psiche, per sua natura conservatrice. Certamente vi sarebbe da parte delle religioni il tentativo di adeguare precetti e morale (fors’anche la dottrina) alle nuove necessità, ma troverebbero esse formule efficaci per continuare a garantire quell'omeostasipsichica ottenuta grazie alle certezze che offre la fede? (13)

O forse invece le cose potrebbero andare meglio e il processo di presa di coscienza non essere così immediato, almeno per i più? Per moltissime persone potrebbe esserci un certo lasso di tempo di carenza della coscienza e ciò eviterebbe gli aspetti più gravi della crisi. Costoro potrebbero inconsciamente opporre temporanei freni a quell'avvento rivoluzionario e traumatico, permettendo così un passaggio meno doloroso verso il destino comune e inevitabile di tale gravissima "orfanità" ideologica. In più le nuove generazioni potrebbero venire, con maggior cognizione di causa e con modelli esistenziali alternativi, preparate a fare a meno di Dio con una certa gradualità. La questione definitiva sta però nel fatto che, inevitabilmente, prima o poi per tutti, sempre che non intervenga la morte a chiudere la partita anzitempo, con l’ulteriore evoluzione delle scienze, si porrà sempre più il problema di conciliare ciò che intellettualmente "si sa" con ciò in cui sentimentalmente "si crede". E allora potrebbe diventare indispensabile avere a disposizione dei "modelli", delle welthangschauungen (14) (delle "concezioni del mondo"), alternativi, a cui fare riferimento.

Se si dovesse verificare quest’ipotesi a ciò seguirebbe abbastanza rapidamente un generale allontanamento dalla religione dei padri, gli uomini si troverebbero drammaticamente a non possedere altre certezze che quelle scientifiche: ciò per la psiche (15) potrebbe avere effetti devastanti. Ma va anche aggiunto che le scienze, un pò per la natura dei loro concetti e un pò per il loro linguaggio specifico, continuerebbero in ogni caso ad essere sentite come estranee da molti, senza la possibilità& di venire veramente interiorizzate dalla maggior parte degli uomini della strada. E tuttavia il vero problema resterebbe un altro: che le scienze per la loro natura continuerebbero a non essere in grado di fornire alcuna risposta alle grandi domande metafisiche, poiché il loro campo d'azione è e resterà soltanto l'universo "nella sua materialità" (16).

Nella prospettiva che ipotizzo per i creduloni salvare la propria integrità psichica e vivere in pace, potrebbe forse rimanere ancora relativamente facile, poiché sulle ceneri dei grandi sistemi religiosi potrebbero proliferare schiere di millantatori, che saprebbero fornire abili risposte utili e mirate, in pacchetti ben confezionati e garantiti, col determinante ausilio di fantascientifiche e sofisticate tecniche d'informazione e persuasione, che in avvenire certo non mancheranno. E tuttavia mi domando se anche questo scenario caotico, sempre più mistificato e precario, potrebbe spingersi molto lontano nel tempo. D'altronde, comunque, prima o poi, le generazioni a venire dovranno finalmente rassegnarsi all'assenza di un Dio creatore e trascendente. Con questa assenza dovranno confrontarsi e gestire al meglio le possibilità di elaborare, o semplicemente fornire, un'accettabile risposta alle loro legittime istanze esistenziali ed escatologiche.

In ogni caso le persone più riflessive e meno inclini alle suggestioni potrebbero essere destinate a pagare il prezzo più alto. Probabilmente conoscerebbero, inevitabilmente e in modo improvviso l'abisso nichilistico del materialismo radicale e nella ricerca della via d'uscita da esso ognuno rischierebbe di restare solo, sperimentando quella disperazione in cui noi, o almeno "alcuni" di noi li avranno preceduti. Tuttavia va ribadito: prima o poi, per tutti, le elusioni, le rimozioni, le messe tra parentesi, le fedi di rimpiazzo, potebbero arrivare al loro estremo confine e ognuno dovrebbe angosciosamente interrogarsi, per cercare di trovare la visione o concezione del mondo (la weltanschauung) più coerente con i suoi dubbi e le sue aspettative. Allora potrebbero nascere, al limite, milioni di filosofie individuali, che soltanto per i più fortunati riuscirebbero a diventare credenze (17). Sono i "modelli" metafisci a cui accennavo sopra e dei quali il DAR, senza alcuna pretesa di costituire una visione unica ed esaustiva, si porrebbe e si proporrebbe come antecedente.

Queste filosofie individuali potrebbero essere inoltre libere da ogni tributo verso le filosofie "dotte", che nel frattempo saranno diventate ancora più raffinate, pleonastiche ed astruse. Esse, con tutto il loro tecnicismo logico-dialettico-ermeneutico, finiscono già ora per rivolgersi soltanto ai conoscitori della filosofia e non a quelli (e sono sicuramente la maggior parte) che ne sono completamente digiuni. Sicuramente a questi ultimi, anche in futuro, le filosofie dotte, auliche, intellettualistiche, continueranno a risultare totalmente astratte e impraticabili, quindi inutili. Ma forse di questo ai filosofi di professione continuerà ad importare un bel nulla. L'estrema intellettualizzazione della filosofia accademica sembra avviata verso una esiziale incapacità di formulare delle interpretazioni dell'universo e della vita adatte all'uomo comune. Formulare sistemi filosofici esaustivi, ragionevolmente credibili, e nel contempo direttamente trasferibili nella pratica del vivere, quali cornici esistenziali di riferimento, sembra essere compito impossibile o non interessante per la filosofia dotta, che preferisce esercitarsi in oziose raffinatezze dialettiche. All'opposto, quelle che ho ipotizzato come filosofie del futuro, individuali o personali, ingenue o antintellettuali, potrebbero avere la prerogativa di essere immediatamente utilizzabili nella realtà quotidiana, poiché con l'adozione a concezione del mondo di una di esse "ne andrebbe" dell'esistenza di chi le formula o le adotta. Esattamente come succede con le religioni, che al di là dei loro dogmi e dei loro precetti, vengono, nella maggior parte dei casi, più o meno inconsapevolmente, modellate ed adattate alle singole istanze esistenziali e utilizzate come "guide al vivere". Né il termine "individuale" o "personale" può significare che ognuno dovrebbe necessariamente inventarsi una filosofia, ma soltanto che ognuno potrebbe "decidere" se esercitare la sua libertà individuale e con essa "scegliere" una concezione della vita e della morte che gli permetta di continuare a sentirsi intellettualmente libero, utilizzando o non utilizzando i modelli più consoni alla realtà che risultino già disponibili.

Questo mio discorso certamente allarmerà qualcuno. Ma allora che ne è della "verità"? Noi riteniamo che il termine abbia assunto significati così equivoci (specialmente in campo religioso) che risulti opportuna una sua cassazione (ad eccezione del campo logico-matematico) a favore di quello di realtà, su cui avremo occasione di ritornare. È piuttosto interessante notare che un'interpretazione pragmatica del termine "verità" (a tutto favore del valore psichico-pratico delle ambigue verità religiose) è quello avanzato da William James (18), il quale sosteneva che una verità "per essere vera" deve anche "funzionare" nella vita pratica. Ciò è in parte giusto, ove si consideri che senza un pò di ragionevole pragmatismo è veramente difficile districarsi nei meandri delle idee (talvolta intrinsecamente ambigue), specialmente quando si tratti di sintonizzarle con i problemi della vita reale. Evidentemente qui io sto avanzato delle ipotesi, coniugandole col discorso discretamente relativistico di chi è convinto che (anche con tutte le nuove conoscenze che l'uomo potrà acquisire nel futuro) permarrà comunque un immensa area di congetture e ipotesi immerse nel buio della più profonda ignoranza. Ma per la dignità dell'uomo (consapevole di sé) ciò potrebbe essere sempre preferibile all'acquiescenza di false verità propinate dalla tradizione ed accolte in maniera acritica e irrazionale.

Il problema infatti, per parlare chiaramente, è quello di tentare e ritentare di avvicinarsi razionalmente, ma anche intuitivamente, a quella realtà extrafisica che la nostra intuizione ci conferma ogni giorno, la quale però è e resterà per l'uomo assolutamente inconoscibile, a causa della nostra strutturale incapacità, in quanto costituiti da materia, di uscire conoscitivamente dall'ambito di essa. Di altro dalla "materia noi possiamo avere solo delle intuizioni e su esse costruire delle ipotesi, e sulle ipotesi costruire persino dei sistemi più o meno ragionevoli. Ma con tutto ciò non potremo mai pretendere di aver superato un'insoddisfacente relatività conoscitiva.

Quella che cercherò di esporre vuol essere perciò la traduzione, nei termini cui ho accennato, di un modo antiintellettuale di fare filosofia, che deve derivare dall’esperienza reale della "vita vissuta" e che in quanto tale deve valere "per la vita" e non "per la cultura". Ma nello stesso tempo penso che si debba avere il coraggio intellettuale di addentrarsi attraverso i meandri di una riflessione libera e che prescinda dai rigidi canoni della ragione, senza che ciò significhi concedere più di un nulla all’arbitrio di gratuite formulazioni irrazionali o di pura fantasia.

Il mio personale modo di pensare il mondo e la vita ritengo sia stato l’esito fortunoso e fortunato di un travaglio esistenziale che non ritengo neppure particolarmente originale, in quanto è comune a quei moltissimi individui che non sono riusciti a rinunciare al proprio senso critico e che sono diventati pertanto "incapaci" di credere in una qualsiasi delle grandi menzogne istituzionalizzate che fondano per lo più le le religioni. Né voglio nascondere la mia relativa presunzione: quella di ritenere che la mia fortuna sia stata di trovare (o forse soltanto di illudermi di aver trovato?) il filo di Arianna che conduce fuori dal penoso labirinto che generano quell'incredulità e quel dubbio che ci tocca sperimentare di fronte a ciò che abusivamente viene gabellato per verità e che, più o meno chiaramente, avvertiamo circonfuso del dolciastro profumo dell'impostura. Ma voglio anche aggiungere subito che è"anche" con un certo disagio che assumo questa posizione decisamente antireligiosa, poiché molte persone a me care, e che stimo, vivono intensamente e proficuamente la loro fede.

Il disagio che incontro nelle mie enunciazioni antireligiose deriva anche dal fatto che la mia adolescenza (come dirò più avanti) si è svolta nella fede cristiana e che la mia prima formazione è avvenuta in quel contesto. Non posso neppure dimenticare il fatto che, sul piano etico, io ho a suo tempo introiettato i fondamenti del cristianesimo e che essi, in qualche misura, probabilmente condizionano il mio stesso ateismo attuale. Tuttavia come potrei "eticamente" astenermi dal dichiarare ciò che in qualche modo è all'origine di questa proposta filosofica? Per questo ammetto che la mia intima convinzione che la credenza in un essere superiore, padre e padrone, non sia altro che l'autoproiezione dell'uomo nella trascendenza, eorcizzando ad un tempo l'ingiuria dell'ignoranza e la paura della morte. Ciò è poi press'a poco quanto già oltre un secolo e mezzo fa aveva visto lucidamente Ludwig Feuerbach (19), il cui pensiero io considero fondamentale al fine di collocare nella corretta prospettiva l’ipostasi divina e i suoi correlati.

Non posso neppure astenermi dal precorrere una domanda probabilmente emergente, poiché qualcuno si domanderà certamente il perché di questo libretto (la logica vuole che si scriva ovviamente per farsi leggere) e, in definitiva, a chi esso si rivolga veramente. E' evidente il non poter ragionevolmente sperare che qualche aristocratico filosofo di professione possa sprecare il suo tempo a scorrerlo, se non altro per una questione di "classe" culturale; né posso sperare che lo facciano gli appassionati della filosofia tradizionale, che in base a questa passione si rivolgono a ben altri testi; né ovviamente i credenti, i quali cercano semmai conferme alla loro fede e non certo ciò che la metta in discussione.

Per quanto sopra esposto io intendo rivolgermi a quella vaga categoria costituita dagli uomini "della strada", proponendo una filosofia alla buona, che mi piace chiamare appunto "stradale". Ma mi rendo conto che a ben vedere anche il discorso della "stradalità" non è che sia tanto chiaro: a quali uomini della strada potrebbe interessare la mia filosofia "alla buona" e antiintellettualistica, ma pur sempre filosofia? Chi è che oggi, col vivere frettoloso e sovraimpegnato che tutti sovrasta e vincola, assediati da mille proposte per il tempo libero, dovrebbe impegnarsi nella lettura di un libro che viene dal nulla dell'anonimato insignificante del sottoscritto, per chiedersi se valga il tempo perduto a scorrerlo? La risposta è: non lo so. Ho confezionato un oggetto che so a che cosa serve, ma non so se qualcuno se ne accorgerà. Infatti la mia è una scommessa: quella di chi, ludicamente, vada al largo con una barca e lanci la sua speranzosa bottiglia con quel messaggio che forse nessuno potrebbe leggere. D’altra parte il gioco, come si vedrà, è un tema importante per il DAR e io vorrei proprio imprimere a questo mio tentativo mini-filosofico quel tanto di giocoso che vi è sempre in tutte le imprese disperate.

Desidero ancora aggiungere che un fine non secondario di questo trattatello "alla buona" sarebbe innanzitutto quello di riuscire a farsi leggere senza annoiare. D'altra parte, lo scopo del DAR non può essere quello di convincere, né di ricevere consenso per far proseliti, ma di offrirsi come qualcosa di anticonvenzionale di cui prendere visione e di proporsi come "concezione del mondo" nuova, sulla quale almeno riflettere. E semmai di porre, in termini corretti, il problema della possibilità che esista una sfuggente realtà al di fuori della materia e che ciò sia razionalmente sostenibile, senza contraddire il quadro generale che le scienze ci offrono. Nel contempo, non lo nego, io cercherò di smascherare gli abusi strumentali e impropri che le ideologie religiose (non senza meriti "storici" in termini esistenziali) hanno costruito sul falso concetto di "spirito", facendone un entità creatrice, legislatrice e dominatrice, che nei suoi stessi termini è quanto di più"materiale" si possa immaginare, come spero di dimostrare.


1.3) Qualcosa sull'argomento e su chi scrive

Necessità e libertà sono aspetti fondamentali dei due ambiti della realtà, quello della materia e quello dell’aiteria (20), posti dal DAR come costituenti di quell'universo che noi possiamo percepire, o almeno intuire, chiaramente; per questa ragione sono stati usati metonimicamente per fornire il titolo a questo libretto. Il quale intende esporre la teoria della doppia realtà concernente l'uomo, in netta opposizione alle teorie monistiche, sia materialistiche che spiritualistiche, le quali riconoscono un'unica realtà, a cui tutto l'esistente è riducibile o riconducibile.

Nel caso del materialismo, come si sa, la realtà si ritiene costituita da enti esclusivamente materiali e quindi si ritiene che alla materia sia riducibile tutto ciò che esiste. Nel caso dello spiritualismo, al contrario, i corpi sono considerati effimeri o transitori e l'unica realtà ultima essere lo spirito, in quanto tale o come natura privilegiata di una divinità immanente o trascendente. All'interno di questa seconda teoria, vi sono poi ulteriori differenziazioni e nella maggior parte dei casi viene ammessa la realtà sia dello spirito che della materia, ma questa viene considerata per lo più un reale secondario, derivato da quello, e in ogni caso subordinato. Siamo qui nel contesto delle grandi religioni monoteiste sulle quali ci soffermeremo a lungo, poiché è specialmente con esse che il DAR intende confrontarsi.

A questo punto si rende però anche necessaria una precisazione della massima importanza, poichè, se i monismi subordinano all’uno o all’altro reale quell’aspetto di esso che ne sarebbe derivato (materia come emanazione dello spirito per lo spiritualismo ed esperienze spirituali come aspetti dell’attività cerebrale per il materialismo), nel DAR i due reali, essendo reciprocamente immanenti, compresenti e coestesi, e avendo inoltre la stessa origine cosmica, dal punto di vista assiologico sono assolutamente equivalenti. Il loro quindi è un rapporto paritetico, che esclude, nella diversità, qualsiasi concetto gerarchico, di dipendenza, di preminenza o di "nobiltà". Neanche nei confronti del tempo questa diseguaglianza si traduce in una non-equivalenza: infatti, se l’aiteria (molto approssimativamente lo "spirito" del senso comune) "non ha tempo" ciò non significa affatto che sia eterna, poiché dal momento che il divenire (21) della materia produce il tempo, la "fine del tempo" sarà anche la fine dell’aiteria. In altre parole: la fine dell’universo, se e quando ci sarà, segnerà la fine sia della materia che dell’aiteria. Dal punto di vista della realtà del "tutto", e in particolare dell'esistenza, ciò significa, molto semplicemente, che le realtà umane sono due e che l'uomo, secondo il DAR, ha due equivalenti possibilità di esistere o di "realizzarsi": una nell'ambito della materia, che lo costituisce e che si offre alla sua percezione-intellezione e un'altra nell'ambito dell'aiteria, che si offre alla sua intuizione nella sfera dei sentimenti e delle emozioni. L'una si realizza esperendo la vita quotidiana e l'altra esperendo stati d'animo particolari, difficilmente riducibili all'attività pensante del nostro cervello, ma resi possibili dalla sensibilità intuitiva (22), la quale consente un rapporto diretto con l'aiteria nei termini che verranno esposti.

Ma vorrei ora venire agli antefatti personali che stanno alla base delle mie sul mondo e alla genesi del DAR che qui verrà esposto. Quando nel 1994 ebbi quella che presuntuosamente chiamerò un "intuizione", dopo un lungo periodo di tormentosa crisi esistenziale durata molti anni, non potevo pensare che essa, oltre che risolvere i miei problemi personali avrebbe poi via via preso la forma e le caratteristiche di una vera "concezione del mondo" (la tedesca weltanschauung). Infatti essa venne presto ad assumere una struttura sistemica tale da porsi come una visione della vita e dell'universo piuttosto coerente ed organica, ma soprattutto non in contrasto con le più aggiornate conoscenze scientifiche sul cosmo e sulla vita. Questa evoluzione è avvenuta in modo quanto mai naturale, ancorché all’inizio la mia ragione fosse riluttante ad accettare un'idea così rivoluzionaria, che presentava anche l’imbarazzante riassunzione (sia pure per approssimazione) di termini metafisici non molto dissimili da quelli delle fedi religiose che contestavo, ancorché con significati e denotazioni totalmente nuovi.

Tuttavia, anche se essa aveva risolto i miei problemi esistenziali e si offriva a me in termini convincenti, non era certo esente da pecche di "presentabilità", e mi rendevo conto che, se volevo rendere essa anche comunicabile, dovevo riuscire a porne e chiarirne i suoi termini teorici, insieme con i suoi aspetti strutturali, secondo criteri, diciamo, di presentabilità. Così, sia pure in modo non continuativo, ci ho lavorato sopra per diversi anni, fino ad elaborare una "forma" di essa che mi sembra ora decente e proponibile. Perciò mi sono deciso a mettere il mio messaggio nella famosa bottiglia e a cercare di farle prendere il largo, sperando che esso finisca in buone mani. Questo testo è l "uscita" pubblica, in forma discorsiva, di quella lunga riflessione dulla vita e sul mondo e che qui si offre al giudizio dei lettori, speriamo numerosi e soprattutto non troppo severi.

Vorrei fare adesso un ulteriore passo indietro, per raccontare qualcosa di me e offrire un sommario ritratto del "produttore" per aiutare a capire più facilmente il suo "prodotto". Io venni battezzato e cresimato, anche se nella mia famiglia la fede cristiana era poco più di una convenzione. Una famiglia poverissima, ma soprattutto economicamente "disastrata", per effetto della guerra e delle speculazioni sbagliate del capofamiglia. Mia madre, di origine cittadina, era una donna discretamente colta e dolcissima, che credeva troppo negli affetti per essere anche una donna fortunata. Mio padre, di origine contadina (ma attratto dalla città) era un uomo arido e calcolatore, ambiziosissimo e frustrato da ripetuti insuccessi professionali ed economici, il quale ebbe un'evoluzione in senso radicalmente materialistico, che per quanto ricordi maturò nel periodo in cui ero ancora bambino. Ciò produsse un certo contrasto tra noi quando io cominciai a frequentare la parrocchia del quartiere, entrando presto nell' Azione Cattolica e più tardi diventandone un capo gruppo "Aspiranti" (23). In realtà l'opposizione di mio padre era più di carattere politico che confessionale: avendo aderito al Partito Comunista (24) egli considerava la chiesa cattolica alleata a doppio filo con la classe borghese dominante e naturalmente nei classici termini dell'epoca " i borghesi e i preti" agivano di concerto nell'affamare il "proletariato" e mantenerlo nell’ignoranza. Allora l'Azione Cattolica era molto politicizzata e alle elezioni del '48 io collaboravo in favore della Democrazia Cristiana nei cosidetti "comitati civici", mentre mio padre sbavava di rabbia, sostenendo che i preti mi avevano plagiato. In tutto ciò mia madre era apparentemente neutrale, anche se in realtà stava dalla mia parte. Mio fratello, maggiore di quattro anni, non era credente, ma il suo anticomunismo era ancora più vivace del mio e anche per questo i suoi rapporti con mio padre erano pessimi. A parte questi dettagli, va aggiunto che il matrimonio tra i miei genitori era un qualchecosa che eufemisticamente si potrebbe definire "disastroso", ma su questo argomento preferisco non dilungarmi.

A diciotto anni ci fu una svolta che mi portò ad abbandonare la chiesa e la fede e ad avviarmi sul sentiero di un agnosticismo attendistico che durò una decina d'anni, finchè si evolvette in una direzione decisamente atea e materialistica, conducendomi anche su posizioni politiche di estrema sinistra, con una virata a centottanta gradi rispetto a quelle adolescenziali. Ma fu solamente verso i quarant'anni (già sposato con due figli) che riflettendo ulteriormente giunsi a radicalizzare il mio materialismo fino a dovere, per coerenza, negare realtà o almeno consistenza a tutto ciò che avevo sempre considerato parte nobile e "sale" della mia vita: alludo ai sentimenti, agli affetti, alle emozioni dell'arte e della musica, agli entusiami della scoperta fine a se stessa del mondo e delle sue forme ed espressioni. Tutto ciò, nell’ottica materialista, "doveva" essere riducibile alla materia e in essa annullarsi senza lasciare alcuna traccia reale. Certo, restava la possibilità che quelle cose fossero un epifenomeno (25) della materia, con una certa sussistenza almeno durante il corso della vita, ma tuttavia irrimediabilmente apparenti, inconsistenti e caduche.

Si accese in me un conflitto tra le ragioni del materialismo e il "senso" del vivere; ciò mi precipitò in una crisi esistenziale che dovetti patire per una decina d'anni e al termine della quale, luce in fondo al tunnel, apparve l'intuizione della realtà quale totalità solo fittiziamente unitaria di almeno due costituenti in realtà "separati": la materia e ciò che più tardi avrei chiamato aiteria. Ciò rendeva ragione di molte incongruenze di cui la mia caotica concezione del mondo irrimediabilmente soffriva e il magma delle mie idee cominciava ad assumere una struttura coerente e sostenibile, almeno per me in quel momento, che non avrei mai osato sperare all’inizio.

Ho fornito queste informazioni personali al solo scopo di rendere testimonianza del mio iter esistenziale, conseguente a un processo di riflessione su sé e sul mondo che non è, lo ripeto, quello di un filosofo di professione, bensì quello di un comune uomo della strada, alle prese con tutti i comuni problemi, del reddito, della famiglia, delle aspettative, delle ambizioni e del desiderio di vivere (o sopravvivere) in pace con se stesso e con gli altri, ma nello stesso tempo tormentato dal desiderio di capire qualcosa di più sul perché e sul come "io sono" e "l'universo è", e quale relazione intercorra tra me e lui.


1.4) L’ignoto e la verità

Penso di poter dire che noi siamo immersi e navighiamo faticosamente nell’ignoto e che chi afferma dogmaticamente di possedere la Verità dica sempre il Falso, consapevolmente o inconsapevolmente. L’ignoranza ci appartiene strutturalmente e ci impregna, perciò è come se noi appartenessimo ad essa, in special modo quando ci si addentra in certe esperienze intime o interpersonali che esorbitano dall’ambito in cui utilizziamo il pensiero razionale e col quale indaghiamo le sicure evidenze della materia, che peraltro ci fonda, ci costituisce e ci avvolge. Perciò l’ignoto va accettato come nostro limite e come invincibile avversario esistenziale. Noi con esso conviviamo e ci confrontiamo continuamente, come un orizzonte oscuro in cui forse potrebbe celarsi quell'essere stabile a cui tende ogni essere vivente, condannato invece a vivere la precarietà del divenire(o essere dinamico).

La parola verità e gli aggettivi che ne derivano sono ineccepibili nel loro uso comune di corrispondenza, di verificabilità, di coerenza, ecc. (verità logiche). Quando però vengono usati in senso trascendentale (verità metafisiche) costituiscono quanto meno un abuso e molto spesso una volontaria mistificazione. L'utilizzo che è stato fatto di questa seconda accezione della parola in campo religioso e filosofico non è soltanto mistificante, ma anche fortemente sviante. Bisogna stare attenti a non fare del concetto di verità un feticcio, poiché la facile aspettativa di assolutezza va tenuta a freno con l’esercizio continuo della ragione, che ci offre della realtà uno scenario di relatività diffusa. La verità metafisica è l'ambiguo reciproco della condanna gnoseologica a cui soggiaciamo, che ci lascia intravedere soltanto quella relatività totale del divenire nostro e del mondo, il quale, come un caleidoscopio in continua rotazione ci presenta un aspetto sempre mutevole, e a volte contradittorio, della realtà.

Ritengo che l'esigenza di assolutezza e di certezza, che psichicamente pure ci assilla, così come l’aspirazione ad un futuro in cui vengano conciliate tutte le contraddizioni del divenire, dovrebbero ormai insospettire l’uomo contemporaneo, che dispone di una ormai secolare esperienza nell’indagine psicologica e psicanalitica i cui risultati chiarificatori sono sufficientemente confermati e inoppugnabili. Credo che risulti ormai evidente come quelle esigenze psichiche (alle quali già abbiamo accennato a proposito dell’omeostasi) possano fungere da oscura trappola, a favore di quell’ideologia religiosa che ci propone una salvazione a buon mercato a fronte di una "condanna" di cui saremmo oberati ab origine. Rispetto a tale teorema dottrinario, che qualora assunto acriticamente ci risparmia il travaglio di una ricerca esistenziale (ma ci fa rimanere in quel "sonno della ragione" dal quale l’Illuminismo ingenuamente credeva di averci liberati), il DAR ci presenta un mondo frantumato, disordinato e casuale, così com’è peraltro nella realtà.

La lotta millenaria che le ideologie religiose hanno condotto contro l'indeterminazione, che invece va accettata quale "fondamento" del nostro esistere, è stato uno dei modi di occultare la strutturale ignoranza che ci inerisce, negando anche quel senso del tragico (26)(che esistenzialmente ci caratterizza in quanto uomini), il quale si accompagna a quell’ignoranza che sempre ci assilla e che spesso viene occultata proprio sotto il "senso del sacro" (27)(quale corrispettivo dell’ignoto), nel quale il tragico si risolverebbe "terapeuticamente". Ma se noi vogliamo invece affrontare razionalmente il problema dobbiamo entrare nell’ordine di idee che non abbiamo alcuna possibilità di risolvere il tragico che non sia quella di farlo nostro e tutt'alpiù contemperarlo con quello del comico. Questa non è un'opzione pessimistica, al contrario, essa è la scelta che ci permette di eleggere una certa ironia a guida del nostro vivere, relegando nel ridicolo tutta la drammatizzazione che spesso ci inquieta. Ciò soprattutto in questa nostra civiltà dell'apparenza, dello spettacolo e della ricerca del successo (fatta spesso di stereotipi e feticci) dove la drammaticità talvolta caratterizza risibilmente la frustrazione delle nostre più banali ambizioni.

L’ignoto, per la mente dell’uomo, è come una barriera che egli sposta continuamente in avanti; ma nella misura in cui il nuovo territorio conquistato diventa nuovo patrimonio di conoscenza, la sua accresciuta apertura mentale gli fa anche intuire che la profondità dell’ignoto è un pò più profonda di quanto pensasse prima. È molto probabile che quanto più il vero uomo di scienza "sa", tanto più sia consapevole della vastità di quello "che non sa". Solo il "dogmatico" se ne infischia dell’ignoto; infatti egli non ha bisogno di imparare nulla, perchè sa gia "tutto" ciò quel che gli serve per parlare a nome della "Verità". Così si è potuto arrivare al punto di conferire alla parola (verbum), che è solo un "significante" il valore di un "significato", veritiero ed eterno. Così la straordinaria conquista della parola, che vive e si evolve, che permette il dialogo comune (come quello filosofico e scientifico), nonché l’evocazione poetica, ha potuto "pietrificarsi" nella "verità" del dogma.

Per quanto riguarda il concetto di verità nella sua accezione metafisica, vorrei ancora aggiungere che vi è soltanto un unica situazione esistenziale che "forse" avrebbe qualche titolo per aspirare ad assumerlo: quello della sofferenza. Essa non è soltanto vera in quanto non è mai contradittoria, ma può ben definirsi "l'ora della verità" a miglior diritto di quanto non lo sia la morte. Quando si soffre scompaiono dall'orizzonte e si prosciugano tutte le fonti della banalità e dell'inautenticità, alle quali ci abbeveriamo quotidianamente. Poiché, quando giunge, "essa diventa noi e noi siamo lei" (28) , in un identità difficile da tollerare e nello stesso tempo inevitabile, come la necessità che ci permea, in accordo con la ragione biologica e con le leggi del perpetuo divenire. Ma accanto alla sofferenza (ironia della diversità!) vi è anche un'altra situazione nella quale è dato scoprire un potere rivelatore, quella della comicità. E vedremo come il comico scocchi alla stessa maniera di una scintilla quando il riflesso antropico della necessità riceve l'attacco benefico di quello della libertà. Così, il pianto e il riso costituiscono la coppia topica nell'esistenza di ogni uomo. Tra i due appoggi della sofferenza e del comico si tende la fune sospesa sul vuoto dove si gioca l'essenza e l'esistenza dell'uomo.



1.5) Filosofia "stradale" e anche un pò "boscaiola".

Scimmiottando il sottotitolo di un’opera di un "grande" della filosofia moderna, che suona: "Come si filosofa col martello" (29), abbandono per qualche istante la strada e inoltrandomi nel bosco mi lascerò andare un pò anche ad una filosofia fatta "con l’ascia". Tagliando quindi la materia del "pensato" un pò alla grossa e per tronchi cercherò di staccare quello che ritengo all’origine di molte distorsioni del pensiero umano, fin dalle origini. Per come la vedo io, una sorta di peccato originale che inficia il pensiero dell’uomo ogni qual volta esso non riesce ad assumere una sufficiente indipendenza dalla pressione della psiche, che protegge la propria omeostasi influenzando e forzando le funzioni preposte all’elaborazioni gnoseologica e computazionale (intelletto e ragione) verso un’arbitraria lettura della realtà. Ciò conduce ad interpretazioni dell'universo sempre (o molto spesso) formulate in vista dell "unità", dell’ "ordine", della "definizione", dell "omogeneità", dell "uniformità". Questa specie di fobia della pluralità causale, del disordine e dell’indeterminazione, alla quale tutti andiamo più o meno soggetti, molto spesso viene giudicata quasi come una "rivelazione" su ciò che ci trascende (nel monoteismo) o su ciò che ci include (nel panteismo), il ché (in quanto veritiera immagine mentale dell’unità e della totalità) avrebbe infuso nella nostra mente il sigillo dell’ignota e suprema "verità dell’essere".

Ma si badi, questa fobia che sarebbe "divinamente innata" non riguarda soltanto, come si potrebbe pensare, le persone che hanno un fede, ma anche uomini di scienza che si trovano continuamente al cospetto di un mondo naturale e di un universo che non offrono per nulla quella struttura unitaria confortante e rassicurante che l’omeostasi psichica esige (30). Questo fa sì che, inconsciamente, si vada sempre alla ricerca di un "principio primo", sia esso irrazionale o razionale, dal quale tutta la realtà avrebbe origine e al quale, prima o poi, tutto deve essere ricondotto (31). In altre parole, nel riconoscere i multiformi aspetti del divenire si cerca sempre di cogliere una fase storica antecedente o finale dove tutti i fenomeni si autochiamino a raccolta, come effetti di un’unica causa per confluire in essa e trovare la loro ragion d’essere.

Quello dell’unità, dell’ordine, dell’armonia, dell’omogeneità ecc. costituisce il grande sogno umano di tutti i tempi. Un sogno che dopo il ridimensionamento del modello newtoniano, l’avvento della meccanica quantistica e i recentissimi sviluppi della biologia, forse avrebbe buone ragioni per ritirarsi negli scaffali archeologici della storia umana e che invece continua ad imperversare nelle coscienze individuali. Ma è ancor più nei granitici sistemi ideologici religiosi che il sogno non può morire; così succede che, quando le novità scientifiche mettono in crisi il sistema dogmatico della fede, i teologi sottopongono i testi sacri ad un continuo (e sommesso) lavorìo interpretativo che talvolta sfocia in una vera e propria revisione dottrinale, a proposito della quale si potrebbe applicare la massima trasformistica "flectar non frangar" (32) (mi piego ma non mi spezzo).

Il fenomeno ha ancora un altro aspetto degno d‘interesse, poichè illumina una prerogativa strutturale della psiche, la quale, di fronte a una nozione potenzialmente pericolosa per la sua omeostasi, mentre fa emergere la domanda contemporaneamente si dà, e impone, la risposta "utile" a se stessa, mettendo in un angolo intelletto e ragione. Si potrebbe aggiungere che forse la coppia oppositiva ordine/caos in campo teoretico è la madre delle altre dualità corrispondenti in campo etico (bene/male), in campo estetico (bello/brutto), in campo metafisico (spirito/materia), in campo gnoseologico (perfezione/imperfezione) e così via, che vengono gestite dalla psiche in modo analogo. Nella realtà storica tra due opposti non c’è quasi mai sintesi (come voleva Hegel)(33) ma molto più spesso soltanto una relazione (34) più o meno conflittule; quindi gli opposti convivono nei fenomeni per lo più alternandosi e molto meno frequentemente risolvendosi in un’unità sintetica. Ma come è noto tutte le ideologie (religiose, filosofiche, sociologiche) immaginano sempre la sintesi (causa finale)(35) che risolverà la pluralità e la precarietà nella perfezione dell’unità e della stabilità.

Il nostro intelletto e la nostra ragione percepiscono una realtà fattuale che si mostra solo come divenire, ma la psiche caparbiamente li condiziona spingendoli a perseguire sempre l"essere" unitario ed immutabile quale "causa finale" e "causa prima" del Tutto. E spesso è proprio la ragione, per qualche perverso processo interno, che riconosce nella causa "finale e prima" nient’altro che se stessa. Questo fa sì che i sistemi di pensiero cosidetti razionalistici (cartesianesimo, spinozismo, hegelismo, ecc.) siano sempre fortemente determinati in senso finalistico.

L’attrazione del concetto di unità, che (come ripetiamo) secondo noi ha origine nella psiche, si coniuga con quella ricerca dell’essere (unitario, ordinato, omogeneo, stabile) che ha caratterizzato fasi alterne della filosofia occidentale, ma che è stata addirittura una costante in ambito orientale, dove ha dominato la speculazione filosofica (con l’unica eccezione del sistema Samkhya, di cui si dirà) indiano attraverso i millenni.

Diventa inoltre interessante notare che la teoria dell’unità (quale origine e forma definitiva dell’universo) si affermi quasi contemporaneamente nel mondo indiano e in quello ebraico intorno al 1000 a.C. con l’ipostasi del Brahman nel primo e di Jahvé nel secondo. Il Brahman come unitaria forza suprema all’origine del "tutto" in cui confluiscono tutte le precedenti divinità e Jahvé come dio unico che sussume e annulla tutte le "false" divinità precedenti. Avviene così che il precedente sistema pluralistico degli dei tribali o locali (che sopravviverà invece a lungo nella cultura greca) viene soppresso per l’instaurarsi di un principio divino unico. Ma non è meno interessante rilevare che circa dieci secoli dopo (ancora con una relativa contemporaneità) all’interno di quei due sistemi monistici si affermi una tripartizione dell’unità sotto le specie del
la Trimurti indiana (Brahma, Visnu e Siva) e della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo). Una numerologia psicologica che studiasse a fondo il rapporto tra l’uno che diventa tre e il tre che rimane uguale all’uno (vedi anche il molto più tardo hegelismo e altre varie tripartizioni idealistiche) potrebbe gettare luce su questi processi transustanziali nella storia delle credenze umane. Ma anche nel mondo greco (intorno al VI sec.a.C.) non erano mancate spinte all’unità, riscontrabili nel principio unico assunto da Talete con l’acqua, da Anassimandro con l’infinito, da Anassimene con l’aria e infine da Parmenide con l' essere.

Chiudo questa piccola analisi del robusto tronco "filo-unitario" del pensiero umano, che abbiamo tagliato con l’ascia, per aggiungere che esso non riguarda solamente il filone "religioso-spiritualistico-idealistico" che abbiamo sopra delineato, ma anche quello del materialismo, il quale, pur nelle sue varie forme, si caratterizza quasi sempre anche come un rigoroso monismo, non dissimile, nella sua opposizione, a quelli spiritualistici.

 

1.6) Intuire l’inconoscibile.

Nel proporre questo libretto devo anche evidenziarne subito un evidente limite: quando parlo dell’aiteria, e di ciò che la concerne, so bene di non poter offrire alcun elemento di conoscenza vera su di essa. D’altra parte il DAR, nel suo porsi come proposta che sfocia da una ricerca sull'irriducibile alla materia, quale superamento dello spirito della tradizione, si discosta totalmente da tutte le ipostasi religiose dello spirito (nei termini e nei modi), ma non meno da tutte quelle laiche (siano esse filosofiche oppure parapsicologiche) che lo hanno posto e lo pongono in termini teorici od escatologici (36). Ed è proprio per questa distanza che lo separa da esse ho il dovere di ammettere preliminarmente la mia "ignoranza" (in senso stretto) su ciò che sia veramente l’ambito extrafisico che ho proposto. Perciò, quando tratto dell’aiteria, sono consapevole di non poter fare appello alle facoltà razionali del lettore, in quanto funzioni mentali "deduttive e computazionali", ma devo ripetere ancora che essa può invece essere soltanto oggetto di una facoltà ma devo ripetere che essa può invece essere soltanto oggetto di un'operazione sinergica tra intelletto ed idema, vale a dire conseguente all'attività intellettiva di una facoltà come l'intuizione coniugata con l' idemale sensibilità intuitiva. Ciò non significa che la ragione rimanga estranea a questa operazione, poiché ad essa va affidato il controllo delle asserzioni concernenti l’aiteria affinché esse siano sempre perlomeno conformi a ciò di cui è possibile avere nozione, poiché tali asserzioni non debbono mai confliggere con le conoscenze certe che la ragione stessa ratifica. Quindi, sicuramente, questa rimane una "guida" per l’elaborazione dualistica, ma non può esserne sempre anche "strumento". Questa è la ragione per cui devo introdurre ed accennare preliminarmente a quell’altro strumento (l’intuizione) a cui ho affidato le "ragioni" della filosofia che propongo per quanto concerne tutto ciò che non è percepibile, conoscibile e razionalizzabile.

Solo di ciò che è percepibile (dai nostri sensi o da adeguati strumenti scientifici) è possibile infatti una vera conoscenza, anche se pur sempre in termini antropici. E tuttavia la nostra nozione della realtà non può limitarsi a questo. Se così fosse sarebbero irreali la maggior parte delle origini e delle cause delle nostre emozioni più profonde e incisive. Quindi negare realtà, per un riduttivo concetto positivistico, a tutto ciò che esorbita il "verificabile" è un autolesivo chiuderci gli orizzonti. Le nostre facoltà mentali al di fuori della ragione sono così vaste che nessuna persona "ragionevole" se ne può privare. Bisogna guardarsi da ogni forma di autosuggestione e illusione, ma occorre tenere presente che il nostro intelletto si rapporta al mondo per lo più attraverso vie non-razionali. Tra queste, la più importante è certamente l’intuizione.

L’intuizione, come concetto filosofico, ha una storia curiosa che vi risparmio, La sua validità come strumento di conoscenza è stata posta e negata, esaltata e deprecata, divisa per tipologie di conoscenza, ecc., fino a Kant, che con l’aggettivo di "intellettuale" l’identificò addirittura colla creatività divina. Nel DAR la funzione dell'intuizione è quella di guidare la presa di contatto (sinergicamente con la sensibilità intuitiva,di cui si dirà) con ciò ch abbiamo posto come "irriducibile" alla materia. Noi infatti non possiamo percepire l’aiteria in modo diretto perchè la nostra materialità ci separa da essa e tuttavia, attraverso una particolare funzione della nostra mente (come si vedrà nel prossimo paragrafo) ci è concesso di introiettarla ed elaborarla, nonché rilevarne anche alcuni suoi aspetti distinti e tematizzabili, che tratteremo a suo tempo.


1.7 ) Alcune considerazioni aggiuntive.

La filosofia che intendo proporre vorrei che fosse innanzitutto una filosofia del "buon senso" e per l'uomo della strada ("stradale") in contrapposizione a quella "aulica" delle università. Essa si riallaccia al pensiero di quei filosofi, soprattutto antichi, che in un mondo ancora dominato da quella religione pluralistica e non dogmatica (ma non per questo poco cogente), che è stato il cosidetto paganesimo ellenico (37), invitavano già allora i loro simili a diffidare della credenza cieca e acritica nelle divinità istituzionalizzate, additando un percorso esistenziale e alternativo più consono alla realtà del mondo fisico, il quale, sia pure in modo aurorale e approssimativo, cominciava a disvelarsi. Tra questi padri nobili, che eleggo a lontani modelli di riferimento, mi piace ricordare Empedocle e soprattutto Democrito ed Epicuro. Questi ultimi sono stati gli iniziatori di quella filosofia razionale e anti-mitica della natura e del vivere che l'avvento del Cristianesimo, con la sua violenza dogmatica, ha cacciato in soffitta per quindici secoli. Filosofia razionalistica e laica che è riapparsa timidamente nel Rinascimento, ma che si è riaffermata soltanto nell'Illuminismo, per far nascere e alimentare la fioritura di una visione atea e razionale del mondo, la quale doveva però, troppo presto, venir nuovamente seppellita dai fumi del trionfante Idealismo ottocentesco (38).

Dopo la sbornia idealistica e della sua filiazione marxista, seguite dagli oscuri e ambigui esistenzialismi del XX secolo, mi pare che ora, all'alba del XXI, sia giunto il momento di riconsiderare quel messaggio trascurato. E quindi (riallacciandosi ad esso) tentare di proporre una concezione del mondo alternativa a quelle poste dal trascendentalismo religioso e dall’idealismo, ma anche a quelle di un materialismo rigido e di uno scientismo dogmatico. Per essere credibile però essa ci deve offrire un panorama della realtà non contraddittorio rispetto all’oggettività delle più recenti acquisizioni scientifiche, e nello stesso tempo (superando l'arido materialismo radicale che spesso ad esse si lega) deve configurare un orizzonte esistenziale che indichi una visione del vivere ricca i tutti i fermenti culturali e affettivi che l'umanità coltiva da sempre, come la parte più preziosa della sua avventura nella vita del cosmo.

Non sono certo che la mia ipotesi sulla pluralità dell'universo e il conseguente dualismo della realtà antropica, nonché l'accenno ad un misterioso futuro (l'aiteria) che potrebbe attendere un "prodotto" (l'idioaiterio) (39)di quella nostra particolare funzione mentale che è l'idema (40), possano costituire nel loro insieme una tesi convincente. E tuttavia si tratterà almeno di una debole voce contro la tirannia monistica che ha imperversato nei secoli e ha messo in ombra ogni alternativa pluralistica, di cui il DAR (in quanto filosofia che ha per oggetto l'uomo più che l'universo) è una sottospecie (41).

Come abbiamo già visto il fascino dell'unità e dell'unicità, come d'altra parte quello dell'ordine, sono delle "costanti" nella storia del pensiero umano. Esse devono evidentemente possedere, dal punto di vista psichico un elevato potere di rassicurazione, ma è evidente che ciò non trova riscontri nella realtà della nostra esperienza e dell’oggettivazione scientifica, la quale invece ci offre un’immagine plurale, complessa e caotica dell'universo in generale e della biosfera terrestre in particolare; ancorché fortemente organica e integrata nella necessità, che determina un certo ordine di carattere causale e conseguenziale.

Ripeteremo ancora che la maggior parte delle filosofie di successo e culturalmente dominanti, in tutti i tempi, hanno sempre privilegiato o posto molto spesso proprio l'unicità di una "causa prima", analizzando solo di seguito la pluralità degli effetti. Le scienze, al contrario, sono sempre partite da un singolo effetto per ricercarne le molteplici cause. Ciò delinea chiaramente la differenza tra come l’uomo da sempre " vorrebbe" il mondo e come esso invece "sia" nella realtà.

NOTE

NOTE 1.1

(4) In epistemologia il termine olismo indica quella teoria che considera il sapere scientifico come un insieme di proposizioni altamente connesse, tale da non consentire la verifica sperimentale di una singola ipotesi, ma solo di porzioni più o meno estese dell'insieme. Analogamente in biologia esso è la teoria secondo la quale ogni organismo vivente presenta caratteristiche non riconducibili alla semplice somma delle sue parti. Esiste anche una concezione sociologica di esso, che considera le società come delle totalità non riducibili alla somma degli individui che le costituiscono.

(5) Le stelle sono corpi che danno luogo ad emissioni elettromagnetiche di vario tipo. La luce che noi vediamo dipende dalla temperatura superficiale del corpo, che è direttamente proporzionale alla massa e alla velocità di rotazione. Contrariamente al nostro modo usuale di esprimerci quelle che emettono luce "fredda" (le stelle azzurre) sono le più calde, mentre quelle che emettono luce "calda" (le stelle rosse) sono le più fredde. Una stella azzurra come Riegel (8.000 volte più grande del Sole) ha una temperatura superficiale di 75.000 gradi Kelvin, una gialla come il Sole ha una temperatura di poco meno di 6.000 gradi K e una rossa come Betelgeuse circa 3.000 gradi K.

(6) Assumiamo qui il punto di vista esposto per primo dal biologo Jacques Monod alla fine degli anni '60 e trattato nel suo saggio Il caso e la necessità pubblicato nel 1970.

(7) A questo proposito sono estremamente interessanti i recenti sviluppi degli studi sull'apoptosi, il suicidio cellulare. In realtà risulta che le cellule non muoiono, ma "si suicidano". Ciò avviene attraverso la produzione interna di proteine-killer che "eseguono la sentenza" appena la cellula diventa inutile o non più coordinata con quelle vicine. In realtà il processo è assai complesso poiché entrano in gioco tre geni che producono altrettante proteine solo una delle quali è l "esecutore" la cui opera dipende però da una seconda, una sorta di "commutatore vita/morte", e ad una terza (il "protettore") che rinvia l'esecuzione. Questo meccanismo risulta essere sostanzialmente identico per tutti gli esseri viventi (J.C.Ameisen - Al cuore della vita - Feltrinelli 2001- pag. 75 e successive).

(8) Teorie che ammettono una sola sostanza a cui tutto si riduce; ovvero una sola realtà fondamentale a cui sono riducibili eventuali realtà apparenti.

(9) La psiche, nella sua tendenza alla conservazione e al risparmio di energie nervose, spinge sempre le facoltà intellettive a formulare una "visione del mondo" appagante e tranquillizzante.

(10) Mi riferisco qui ad alcune recenti ipotesi cosmologiche, che considerano il nostro universo soltanto come "uno dei tanti" nati dal big-bang iniziale.

(11) Chiamiamo ambito il "campo" di realtà in cui un dato ente si manifesta ed esiste. Mi scuso se sono fin d'ora costretto a introdurre alcuni termini ad hoc. Dopo un iniziale tentativo mi sono reso conto dell'impossibilità di utilizzare termini noti, ma impropri nel contesto del DAR, col rischio di ingenerare equivoci poi difficili da dissipare.

(12) La tesi che il corpo animale sia il risultato di un elaborazione genetica di informazioni acquisite sulla realtà esterna è di Konrad Lorenz, ed è sostenuta specialmente in due sue opere fondamentali: L'altra faccia dello specchio (1973) e Natura e destino (1983). Per Lorenz "vivere" è soprattutto "imparare" e acquisire informazioni sulla realtà che ci circonda. L'adattamento evolutivo è quidni un'acquisizione di sapere per cui <<[...] all'interno del sistema vivente si forma una riproduzione del reale mondo esteriore>>.


NOTE 1.2

(13) Stato di equilibrio a cui la psiche (insieme col resto del corpo) tende, evitando esperienze spiacevoli sia mentali che corporee. Ciò condiziona anche le attività dell'intelletto e della ragione, che nelle loro formulazioni devono fare i conti con le inerzie di essa.

(14) Introduciamo qui (e lo useremo alternativamente a concezione del mondo) la parola tedesca weltanschauung, che letteralmente significa "visione del mondo", tradotta in italiano (oltre che con concezione d.m.) anche con intuizione d. m. Essa è ormai sufficientemente nota in filosofia e in psicologia, e praticamente utilizzata in tutte le lingue come termine unico esprimente il concetto citato.

(15) Come si vedrà più avanti il DAR pone e considerà quattro "funzioni" principali della mente, che vengono chiamate organizzazioni mentali, in quanto componenti strutturali e funzionali logicamente "individuabili" all'interno dell'operatività integrata del nostro cervello. Esse sono la psiche, l'intelletto, la ragione e l'idema (nucleo dell'individualità). Questo tipo di operazione euristica, per "suddivisione funzionale" della mente, che è stata chiamata procedimento partitivo verrà esposta e spiegata più avanti.

(16) Il DAR considera l'universo come una entità complessa dal carattere metaforicamente"spugnoso". In essa tutta la realtà "percepibile" nasconde un'altra realtà soltanto "intuibile", la quale riguarda quell'ambito che ci rimane ignoto, a causa delle "lacune" della nostra percezione.

(17) Col termine di credenza intendiamo l'assunzione veritativa di un concetto o di un'insieme di concetti su di un oggetto del pensiero (fatto, situazione, testo, testimonianza, ecc.) ritenuto reale, indipendentemente da ogni ratifica empirica o razionale. La credenza ha quindi carattere prevalentemente irrazionalistico anche se basata su elementi di razionalità.

(18) Mi riferisco a quanto esposto nel suo The will to believe-1897 (La volontà di credere).

(19) L'antropomorfizzazione" della religione è esposta da Ludwig Feuerbach in L'essenza del cristianesimo (1841).


NOTE 1.3


(20) Sono stato costretto ad introdurre questo nuovo termine, che a grandi linee è abbastanza vicino a quello tradizionale di "spirito", perché quest'ultimo ha assunto nelle religioni un significato divino e trascendente incompatibile col dualismo, che è pensiero ateo e immanentistico. Il termine aiteria , col significato indicativo di "sostanza eterea", è una libera derivazione dal greco àiter che significa appunto "etere". Il termine venne utilizzato prima da Empedocle per indicare l'aria, poco dopo da Anassagora che lo utilizzò al posto di "fuoco", quindi Aristotile nel De Caelo lo indicò come la "sostanza sottile", ingenerabile e incorruttibile, che costituisce il cielo. Piu tardi in ambiente aristotelico assunse il significato di "quinto elemento" oltre ai classici quattro (terra, acqua, aria, fuoco).

(21) Il divenire è lo scorrere della realtà generale dell'universo, per cui tutto è instabile e si trasforma in forme della materia, specialmente vivente, che non "sono" mai definite ma che "divengono" in continuazione. Il termine venne posto da Eraclito per primo nella storia del pensiero europeo, quale principio cosmologico che il pensatore espresse con la nota espressione: "panta rei" (= tutto scorre).

(22) Si anticipa qui che l'intuizione è facoltà dell'intelletto, il quale, contrariamente alla ragione (che opera per deduzione e induzione) la possiede come facoltà primaria. Ma l'intuizione dell'aiteria, come di tutto ciò che la riguarda, potrebbe essere considerato un caso particolare di funzione congiunta tra intelletto ed idema, da ciò la supposizione dell'esistenza di una sensibilità intuitiva, quale facoltà idemale che concorre con l'intuizione all'accedere dell'uomo all'aiteria

(23) Si trattava della categoria che precedeva quella di "Giovani" (dai diciotto ai trenta) a cui seguiva quella degli "Uomini" di Azione Cattolica.

(24) Il PCI (Partito Comunista Italiano) dopo il collasso dell'Unione Sovietica nel 1989 divenne PDS (Partito dei Democratici di Sinistra) e successivamente DS (Democratici di Sinistra).

(25) Con questo termine alcuni positivisti inglesi (Huxley, Clifford, ecc.) definirono fenomeni secondari o accessori di quelli corporei come per esempio la coscienza.

NOTE 1.4

(26) Tratteremo a suo tempo questo argomento all'interno del Capitolo 6 (6.3 - La moira).

(27) Il senso del sacro, dai teologi tematizzato come "innato" e rivelativo della nostra dipendenza da un Dio creatore è stato oggetto di numerose analisi storiche, filosofiche e psicanalitiche. Uno dei saggi più approfonditi e interessanti su questo argomento è Il sacro.L'irrazionale nell'idea del divino e la sua relazione al razionale (1917) di Rudolf Otto, nel quale si ribadisce il carattere irrazionale del senso del sacro e la necessità di liberarsi di ogni condizionamento razionalistico nell'approccio al fenomeno religioso.

(28) Il concetto di sofferenza che il dualismo pone come tema centrale va tenuto distinto dal senso che ad esso attribuisce la filosofia orientale e in ispecie il Buddhismo. Più avanti si preciserà come la sofferenza non sia qualcosa da "superare" ma qualcosa da "vivere" come correlato del divenire.



NOTE 1.5

(29 F.Nietzsche - Il crepuscolo degli idoli (ovvero: Come si filosofa col martello) - 1889.

(30) In termini freudiani si potrebbe dire che il caos, l'indeterminazione e la pluralità causale possano determinare un' investimento psichico troppo elevato, e che il conseguente dispendio energetico aumenti la pressione dell'es sull'io, spingendolo alla formulazione di pensieri meno perturbativi.

(31) Sono noti i turbamenti di Albert Einstein di fronte all'indeterminismo della Meccanica Quantistica e i suoi ripetuti tentativi di trovare un principio unitario che potesse spiegare tutto il mondo fisico.

(32) L'opposta frangar non flectar (mi spezzo ma non mi piego) è una famosa massima della retorica romana dell'eroismo virile.

(33) Si ricorda che la fenomenologia hegeliana (processo dialettico degli opposti) si basa sulla tesi (che si pone), sull'antitesi (che le si oppone) e sulla sintesi (che le supera unificandole entrambe in sé).

(34) Chiamiamo relazione la situazione che si verifica tra due o più entità "in equilibrio", che nella diversità o nella opposizione restano uguali a se stesse senza mai "risolvere" verso un'unità che le annulli.

(35) Secondo Aristotile la causa finale è il fine o lo scopo di qualsiasi azione. Nella teologia l'argomento della c.f. porta alla necessità di Dio, che è anche causa prima.


NOTE 1.6
(36) Mi riferisco qui da un lato all'idealismo e allo spiritualismo filosofici e dall'altro alla parapsicologia, specialmente nella sua forma nota come spiritismo.



NOTE 1.7

(37) Va tuttavia sottolineato che il politeismo pagano, basato sul mito, era una forma assai più poetica e adeguata della complessità e pluralità della realtà che ci circonda; e sopratutto assai meno dogmatica e dottrinaria.

(38) Intendo riferirmi soprattutto all'idealismo hegeliano, quale espressione di una visione puramente intellettualistica e irrealistica dell'uomo e del mondo.

(39) Il termine è composto da idio (dal greco idios = proprio) e da aiterio (che sta per "elemento aiteriale").

(40)Purtroppo mi vedo costretto a introdurre qui il termine idema, che si apparenta in qualche modo a quello di anima, da cui chiaramente deriva. Perché questa sostituzione? Perché il termine anima, fatto proprio e sovraccaricato di significati trascendenti da parte della religione, è ormai inutilizzabile per il DAR. La parola deriva da una libera fusione di ide[ntità] e [ani]ma, ma anche di ide[ntità] e [se]ma (significato) o se si vuole anche di ide[ntità] e [re]ma (flusso [della coscienza] ). In definitiva il significato che attribuisco ad idema è quello di nucleo ed essenza dinamica dell' individualità.

(41) Oltre a ricordare che alcuni cosmologi stanno sempre più considerando la possibilità che il nostro universo non sia che uno dei tanti esistenti (multiverso) vorrei far anche notare che la fisica sta studiando l'ipotesi che l'universo sia costituito da molte più dimensioni delle quattro canoniche (tre spaziali + il tempo) e che vi siano forse (Teoria delle Superstringhe) altre sette dimensioni nascoste (compattificate).Questa nuova teoria fisica (in continuo sviluppo) ha avuto nascita nel 1968 dalla brillante intuizione del fisico italiano Gabriele Veneziano, il quale, più recentemente, ha avanzato la rivoluzionaria teoria cosmologica del "Pre-bigbang", in base alla quale il big-bang non è altro che una fase importante, ma posteriore, della nascita dell'universo (per un sommaria descrizione: Science &Vie n°988 janvier 2000 - pp. 42-46 e New Scientist 3/6/2000 - pp.24-28).


(42) Mi riferisco alla cosidetta "disputa degli universali, che ha contrapposto, tra l'XI e il XIV secolo i cosidetti "realisti", sostenitori della realtà dei concetti generali applicati agli individui (come classi o specie), e i "nominalisti" che negavano tale realtà, sostenendo che solo i singoli individui sono reali e ogni generalizzazione è solo un nome, un "emissione di voce".

(43) Filosofo e teologo francese del medioevo (fine XI sec.) considerato fondatore del nominalismo riteneva priva di realtà la Trinità (quale puro nome) e divine soltanto le tre persone prese singolarmente.