Camelot

Parte IV

 

Warning!!!

 

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NON SOLO INQUILINI

 

Le cose stavano cambiando, sì… stavano proprio cambiando ed anche in fretta, se n’era accorto il pasticcere, la torre di guardia al palazzo delle corna, così come i quattro giovani alfieri. Le cose stavano cambiando, non c’era dubbio.

In pochi giorni, precisamente, da mercoledì a venerdì, la situazione aveva preso tutta un’altra piega dal precedente mese di dicembre. Da quel giorno in cui il canuto pasticcere aveva deciso di adottare la “vecchia maniera”. Lui se lo ricordava bene, poiché la scacchiera l’aveva tirata fuori per sua volontà ed iniziativa, messa su quel tavolino dove quel ragazzo alto si sedeva mentre aspettava, e nel frattempo inventava una scusa plausibile per lei. Un pensiero, ecco solo di questo si trattava: “Perché non aiutare questo giovane che sembra così sinceramente interessato a lei, alla piccola Ju. Proviamo a vedere se…” e così aveva tirato fuori la vecchia scacchiera, appartenuta al nonno e prima di lui al proprietario di quel palazzo. Si trattava di un oggetto veramente notevole, non troppo grande e nemmeno troppo piccolo, delle dimensioni giuste dove il piano era dato dalle tarsie d’ebano ed avorio, i pezzi erano scolpiti con forme sommarie, non grossolane, ma abilmente stilizzati. Era un cimelio di famiglia, una prova a cui si erano sottoposti, più o meno consapevolmente, tutti i ragazzi che chiedevano la mano di una delle ragazze Label o Cassel, ma anche tutte le ragazze chieste in spose dai ragazzi Label e Cassel. Il varco.

La scacchiera serviva per capire l’indole, il carattere, non era questione di vittoria o meno, non era la testa del re a decidere ma, piuttosto, come si era condotta la battaglia e la guerra.

Daniel Cassel aveva fiducia in Alain, gli sembrava la persona adatta, anche se di scacchi non ne capiva molto, vabbé conosceva le regole, ma sapere che il cavallo si muove ad elle non fa di chiunque un buon giocatore! Era curioso di sapere, curioso di sperimentare.

Non dello stesso avviso era Julia. Appena entrata, vista la scacchiera sul tavolino vicino alla vetrina, quella grande, notato il sorriso di Alain e il fare non curante del pasticcere, aveva sentito odore di guai, lei la storia la sapeva, lui no!  Si era anche chiesta se non lo stessero prendendo in giro tutti quanti, forse erano come operosi ragnetti impegnati nel tessere la loro minuta tela… e quel “moscone” ci si stava rotolando dentro, inconsciamente ed ingenuamente.

Alla fine aveva accettato, si trattava di un esame e voleva condurlo nel migliore dei modi, se doveva scoprire non avrebbe lesinato nessuna prova. Così giorno dopo giorno, mossa dopo mossa, si era concentrata ed aveva riflettuto su ogni risposta del suo poco temibile avversario, il guaio era quello… ingenuo e sprovveduto giocatore alle prime armi, le era costato una notevole fatica non spiazzarlo in sei mosse e chiudere tutta la faccenda in cinque minuti. Ma cosa si può capire da cinque minuti, molto o poco ma forse non abbastanza, dato lo strumento d’indagine era meglio prolungare la partita e vedere le reazioni. Mercoledì aveva lanciato l’ultimo amo, e lui come un salmone c’era cascato in pieno, un pesce allamato… che più cerca di muoversi più si ferisce.

Era successo anche l’imprevisto, ovvero il “maestro” di scacchi alla fine aveva ceduto al fascino dell’allievo, così alla fine di quella che sarebbe dovuta essere la “batosta”, si era ritrovata chiusa nel cerchio delle sue braccia, persa tra respiro e battito[1]… e tutto questo in mezzo alla strada, sotto il sole bugiardo di gennaio.

Il palazzo aveva aggiunto altri frequentatori ai soliti clienti, a quelli nuovi, agli amici, ai parenti, ai suoi inquilini.

Il ragazzo altro quasi due metri, precisamente gli mancava un centimetro e mezzo per raggiungere tale meta, aveva continuato a giocare con la ragazza che difettava degli stessi centimetri, ma per arrivare al metro e settanta. Mercoledì sera l’aveva lasciata davanti al portone d’ingresso, dopo averla salutata adeguatamente, il giorno dopo… o meglio poche ore dopo era di nuovo con lei, ma seduti al solito posto, ed ovviamente stava perdendo… venerdì mattina si celebrarono i funerali del suo re, definitivamente caduto per opera di un temibilissimo cavaliere nero. Quella stessa sera aveva riaccompagnato a casa la donzella, l’aveva salutata come suo solito ed era riuscito a strapparle una promessa, un appuntamento a due, in terreno neutrale e senza parenti d’ogni ordine e grado. Quella sì che era la sua vittoria! Come ogni premio, prima ci deve essere la prova, nel suo caso era il distacco, quarantotto ore senza vederla… però poteva chiamarla, una volta al giorno, altrimenti scriverle.

Oltre alla presenza maschile se n’era aggiunta anche una femminile, una bella ragazza, alta e bionda, che doveva parlare con Julian dell’appartamento all’ultimo piano. Giovedì si era presentata all’appuntamento accompagnata da una presenza già nota all’arguto Daniel, un bell’uomo sui trent’anni con una faccia da ragazzino e due grandi e vellutati occhi verdi. Era quasi l’una quando entrarono da Cassel, mentre si accomodavano al tavolo non scamparono all’analisi del pasticcere.

“Lei ha combinato qualcosa di grosso in un passato neanche troppo lontano, lui le è sempre stato accanto ed adesso… non sa cosa fare, forse lo sa benissimo ma teme qualcosa…”

 

La scacchiera era ancora fuori, sempre lì sul tavolino vicino alla vetrina grande, illuminata dal pallido riflesso del sole attraverso i vetri e dalla luce calda e soffusa del locale. Uno sguardo d’intesa, il sollevarsi degli angoli della bocca, incorniciati da morbidi baffi bianchi, l’assenso espresso a voce alla richiesta di poter giocare, da parte di quello sguardo così particolare.

 

Dopo, avrebbe sistemato i pezzi della partita di Julia, questi non voleva perderseli.

 

La coppia si siede al nuovo tavolo, poche mosse per capire…

Inizia la donna da capelli chiari illuminati dai raggi del sole, pura luce, muove timidamente un pedone, lui risponde ed ha già capito l’incertezza dell’avversario, ma questo è uno di quelli che sa  aspettare. Lei prosegue, mossa dopo mossa ed alla fine lo guarda e gli offre re e regina in un solo colpo, lui stringe l’assedio e piano, piano lei perde tutte le sue posizioni, rimangono re e regina assediati da torre, cavallo ed alfiere. Mette il re in pasto alla torre, lui trova la regina scoperta e la prende con l’alfiere.

Cassel ha capito che l’alfiere nero voleva la resa assoluta della regina bianca, solo questo… la resa per chiudere l’assedio. Dopo la torre nera schiaccia il re bianco. Fine delle ostilità.

Li osserva ancora un poco, parlano piano e poco, non sente come vorrebbe, però nota che sono una di quelle coppie che sanno stare in silenzio, dote rara al giorno d’oggi. Il loro non è un silenzio  imbarazzato od ostile, no… è calmo è quello di chi si conosce da tempo e non sente il bisogno di parlare a vuoto. Stanno lì, giocano ed a volte parlano e sembra di percepire frasi lasciate a metà di discorsi remoti, ma loro si capiscono… e questo è quello che conta.

Lasciano il locale salutando il gentile pasticcere, si avviano verso la strada ma si fermano davanti al palazzo, lei sale su quel gradino, proprio quello di Julia, di Delphine, di Costance, e probabilmente anche di Margot… ma tra qualche anno. E’ la distanza giusta, quella che mette gli occhi negli occhi, naso a naso e bocca a bocca, lo dovrebbero chiamare il “gradino del bacio”, forse si chiama già così… forse.

Cassel posiziona un nuovo vassoio in vetrina, quella di lato che sporge e che permette di osservare l’ingresso con i sui gradini, loro sono lì che si guardano. Con metodo sistema le nuove creazioni decorate con la cioccolata serigrafata, mentre lei gli stringe le mani sul volto, alla base del collo, lui le fa scorrere le mani dai polsi fino alle spalle, lei gli si avvicina e gioca con le ciocche scure, lui l’accosta a sé… e dopo i capelli di lei coprono entrambi, grazie ad una folata di vento i loro volti vengono celati da un velo dorato.

Sì… quello è proprio il gradino del bacio.

 

 

 

Di solito il sabato pomeriggio e soprattutto il primo pomeriggio si spiegava pigro e lento, non quel giorno. C’era fermento dal primo all’ultimo piano di palazzo delle corna, uno strano andirivieni tra Luc, Elia, Margot, Jona, Julian e Julia, nessuno stava fermo, tutti si trovavano a gironzolare con pacchi, scatole, parti di mobili tra l’ascensore e le scale, tra una porta e l’altra degli appartamenti.

 

Nel nuovo appartamento di Julia, quattro ragazzini sistemavano i libri negli scaffali della libreria, appena montati e puliti, mentre Julian e Julia finivano di chiudere le scatole con gli ultimi indumenti, che erano rimasti in casa del fratello.

 

“Vendere?” il tono di lei sinceramente dubbioso e sorpreso, sistemando gli asciugamani di lino ricamati da nonna Zelmira.

 

“Perché no? L’offerta è ottima, superiore al valore di mercato, la somma è alta ma è già disponibile…” voce calma, di chi ha già deciso e valutato tutte le possibilità.

 

“Sono stupita di tutta questa fretta. Scusa ma non avevi pensato a metterlo in affitto? Fino a giovedì ti arrovellavi sulla somma da chiedere. Non capisco! Sinceramente non capisco! Adesso sembra che tu abbia già deciso di vendere. Ma ci hai pensato? Vendere, dopo non sarà più tuo, nostro, insomma della famiglia. Quello sarebbe stato l’appartamento di Xavier, mamma aveva deciso così…” tanti pensieri, tanti ricordi di quando si era in sei e si abitava al primo piano.

 

“Julia adesso ci siamo solo noi due”, un velo amaro nella voce stemperato nella consapevolezza di chi ha accettato il passato “perché tenere così tanti appartamenti, ci siamo solo noi ed abbiamo più case di quante potremmo occuparne… cosa vuoi che sia se vendo l’appartamento all’ultimo piano, mi rimane il mio e metà di quello al primo, il che vuol dire un altro dato che sono due messi insieme. Dai Ju, non fare la sentimentale si tratta di affari. Solo affari, mi hanno fatto un’offerta vantaggiosa, tra l’altro da una bella donna che non mi dispiacerebbe avere come vicina. E’ una gran bella somma”.

 

“Non capisco, senti sarò di coccio, ma non capisco! Che bisogno hai di vendere? Scusa sai, ma con lo studio non devi aver certo problemi di liquidità, cosa ti serve tutto quel denaro. Affittare, invece di vendere, è pur sempre una forma d’investimento a lungo termine. Non è che c’entra Maurice e la sua finanziaria… non è che ti ha proposto un nuovo investimento ad alto, altissimo rischio?”, un filo di rabbia nella voce espresso nel gesto secco di chiudere l’armadio.

 

“Ma perché tiri in ballo Maurice, che tra parentesi mi chiedono come stai e se ti piacerebbe venire con noi per pasquetta. Sai, ha cambiato la barca ed ha preso la residenza a Montecarlo, perché non ci fai un pensierino?” un ultimo tentativo di sviare da un discorso molto pericoloso, troppo.

 

“Julian, ma che cavolo stai dicendo? Ma ti sei bevuto il cervello, cosa vuoi accasarmi con quell’agente di borsa, falso come Giuda e snob come una prima donna. Sì, certo mi piacciono le barche, mi piace il mare… ma caro, non mi vendo e svendo per un non so quanti metri attraccato al molo di Montecarlo. Tu cerchi di sviarmi” l’indice inquisitore puntato sul naso del perseguito.

 

“Ma no, no, è che lui mi chiede sempre come stai, cosa fai. E dai… non fare la bacchettona acida, insomma cosa ti costa passare un giorno in barca con tuo fratello e qualche suo amico, ci sono anche delle altre ragazze…”

 

“Piantala con queste eresie! Poi detta così, come l’hai detta tu, mi suona malissimo… e che vuol dire: qualche amico, altre ragazze… oh!

Credo di aver raggiunto quell’età in cui posso decidere cosa fare e chi vedere! Poi Maurice non mi piace, punto! E’ snob, finto, viscido, laido… quando ti guarda lo fa per due cose: per soppesare il portafogli investimenti o per capire che taglia di reggiseno porti e se lo porti. Come fai a frequentarlo! Poi… non venire a fare il sensale, come se non sapessi… tanto a lui basta che una respiri! Ma che schifo!”

 

“Julia non dire così, lo dipingi malissimo, dai non è così!” certo di aver preso la strada giusta.

 

“E’ stato lui a metterti la pulce? Julian, sinceramente… hai bisogno di denaro per soddisfare un tuo nuovo capriccio o per saldare il danno di uno vecchio?” gli occhi neri non danno tregua, sono implacabili quando sondano quelli nocciola del fratello.

 

Non c’è scampo, lei ha già capito o in ogni modo è vicina, Julian non ha modo di evitare quell’esame… può solo abbassare lo sguardo per evitare che lei si sporchi troppo.

 

“Senti Ju, quello che voglio farci con quei soldi è affare mio, come la casa da vendere. Sì, ho qualcosa in mente… ma è affare mio!” una verità, una mezza verità per coprire con una mano di calce il marcio che nasconde l’altra metà.

 

“D’accordo Julian, fai come vuoi, hai ragione quella casa adesso è tua. Non è affare mio. Non più. Adesso chiudiamo questo discorso… non ne voglio più sapere nulla, non tirare in ballo più quella serpe… ma se dovessi aver bisogno di me… sai dove trovarmi… sull’altro lato del pianerottolo!” un sorriso tirato dalla stanchezza e dalla paura.

 

“Ok sorella, continuiamo il trasloco… così è la volta buona che ci vai veramente sull’altro lato del pianerottolo!” lo stesso sorriso tra stanchezza e paura.

 

Alla fine erano arrivati alla divisione dei beni di famiglia, complice il notaio, nonché zio Roman, era stato lui a proporre la soluzione salomonica per placare quelle indoli così diverse. Lei attaccata al ricordo, alle cose e a tutto ciò che apparteneva a quel passato di famiglia, lui svincolato, disilluso.

Lei staccata dal denaro, spartana ed essenziale nelle spese, lontana dal lusso e dai vizi, dedita al lavoro che le piaceva, anche se avrebbe potuto esercitare una professione più remunerativa, molto di più. Lui smanioso nello spendere e nel guadagnare, a tratti avido e scialacquatore, lavorava per guadagnare i soldi che avrebbe speso, a volte le spese superavano le laute entrate, azzardato negli investimenti, che potevano fruttare come no, attratto dal gioco in borsa. Forse erano state le amicizie a renderli così diversi, forse erano i caratteri… lei sobria, lui modaiolo. Erano diversi nello spirito come si assomigliavano nelle forme, solo gli occhi erano diversi; neri, come se fossero tutta pupilla o due gocce di china, quelli di lei, che erano gli stessi del padre Enrico, nocciola screziati da pagliuzze di miele, quelli di lui… forse erano quelli del nonno materno o della bisnonna, non si era capito come, poiché i Label avevano occhi chiari, ma ogni tanto tornava fuori quel colore.

La casa al primo piano era intestata ad entrambi, si trattava di due appartamenti facilmente uniti e facilmente riseparabili, mentre al terzo due appartamenti a lui, di cui uno era quello in cui viveva, e due a lei, che da poco aveva deciso di occuparne uno.

In realtà sarebbero toccati a Xavier e a Camille, ma da dopo l’incidente non sarebbe più potuto accadere.

 

Julia aveva finalmente una casa sua, solo sua, finalmente aveva deciso. Prima si divideva tra l’appartamento, grande, del fratello e la casa colonica a righe di nonna Zelmira, tra la Francia e l’Italia, tra Parigi, la bellissima città d’adozione, e Bologna, la sua carissima città natale. Aveva scelto una casa, le serviva un punto fisso… per continuare quel lavoro che le piaceva, quello che la divertiva e per cercare… cercare di placare quella nostalgia e quell’ansia che mai l’abbandonavano.

In quei pochi metri quadrati, all’ultimo piano di quel palazzo che a dieci anni le era sembrato enorme e meraviglioso, come un castello delle fiabe, aveva messo tutti i sui buoni propositi, tanta energia, voglia di stare bene… e tanti soldi. Lei non amava il denaro, sapeva che serviva… anche se forse avrebbe preferito il baratto, in ogni modo per fare la sua casa aveva speso un po’ di più, ma non di tanto, in fondo poteva essere orgogliosa di quello che n’era risultato.

La porta della nuova casa si apriva proprio di fronte a quella di suo fratello, il pianerottolo sembrava un salottino di famiglia, grazie al tappeto blu e alle foto alle pareti. Erano immagini dei loro viaggi, di quando erano bimbi, ragazzi ed adulti, erano belle fotografie, di quelle che ti fermi a guardare e che ti raccontano storie che non conosci, ma che ti piacerebbe scoprire.

Il portoncino di rovere era più piccolo rispetto a quello degli altri piani, quelli nobili, mentre l’ultimo era quello della servitù, si apriva su un lucidissimo parquet chiaro, di acero canadese, tra il bianco ed il rosa con ampie venature, ben evidenziate dal grande formato dei listoni che correvano paralleli al lato corto dell’ingresso. Al chiaro dell’essenza si aggiungeva il bianco latte delle porte e delle finestre, il piccolo corridoio che nascondeva un disimpegno, dietro una parete scorrevole, era dipinto di un allegro arancione, un color zucca, caldo ed accogliente, proseguendo si arrivava davanti alla cucina, ricavata dalla rientranza della parete, non c’erano porte a separare gli ambienti, solo un gradino ed un muro basso di mattoni a vista, come fosse il bancone di un bar, c’erano anche due alti sgabelli dipinti di un color pervinca. La cucina era gialla, come un limone, piccola e sgargiante, tre pareti di cui una con la finestra nel mezzo che decretava la divisione tra dove si cucinava e si lavava, e dove di conservava e si stivava, nel mezzo un delizioso tavolo tondo, con i piedi di ferro battuto ed il piano di maiolica, decorato a limoni. Era il tavolo che stava nel gazebo, sotto la pergola di glicini, a casa di nonna Zelmira. Una richiesta a cui la nonna non seppe opporsi, così anche le quattro sedie di ferro battuto e vimini finirono caricate nella Twingo viola elettrico di Julia.

Il corridoio proseguiva per arrivare al salotto, ancora niente porte, semplicemente l’aprirsi a destra e sinistra, dove dalla prima parte si trovava nel mezzo un grande divano color albicocca, davanti ad una candida libreria, stipata in ogni centimetro, questa occupava due pareti e su quella di lato eseguiva un motivo a scala, dato che riempiva lo spazio dei gradini che portavano al soppalco, dove c’era la scrivania con tutti gli annessi e connessi dello studio.

Sul lato opposto, davanti alla finestra, schermata dalla tenda di lino della nonna, stava il tavolo. Grande e sobrio, un piano di legno lamellare con i piedi dritti, tutto di faggio cerato, poi c’erano mobili, due buffet bianchi a tre sportelli. Alla fine si apriva una porta a doppio battente, in realtà scorrevole, un’anta sull’altra, sempre bianca che accompagnava a tre porte. Nel mezzo si trovava un piccolo bagno azzurro, in cui era incastrata la lavatrice tra la doccia e la parete, uno specchio che era appartenuto al comò di ciliegio di nonna Brigitte e due comodini di legno scuro sequestrati dalla soffitta di Zelmira, poi una piccola cassapanca, sempre di ciliegio… recuperata dalla casa al primo piano. A destra c’era la camera di Julia, con il suo grande armadio bianco, il letto basso, di legno con la base che faceva da libreria, il comò di ciliegio, la sedia impagliata, le pareti erano color pesca, mentre il copriletto color corallo, le tende bianche. A sinistra si entrava ad una piccola stanza color malva, con un letto singolo ed un armadio di noce a due ante col cassetto.

 

“Ecco, con questo abbiamo finito!” le mani a spolverare i pantaloni per sottolineare la fine.

“Evviva, zia Ju, abbiamo finito… non ci credo, ma quanta roba… sai che non credevo!”

“Ma cosa dici Margot, pensa se dovessimo vuotare l’armadio di Liviane… una settimana non ci basterebbe!”

“Hai ragione, quello è un pozzo senza fondo… e meno male… così si può trovare di tutto!”

“Oh Ju, adesso che ci hai schiavizzato ci devi pagare!”

“Santo cielo Luc, non ti facevo così venale e se ci facessimo una grande, immensa coppa di gelato, con tutti gli orpelli e poi per cena una gustosa pizza fatta in casa?”

“Può andare…”

“Si potrebbero aggiungere anche i pasticcini del nonno, se siete d’accordo vado giù a preparare un cabaret. Ovviamente da mettere sul conto di Ju”

“Ovviamente Luc, dai vai… anche se ho l’impressione che tu voglia scendere per altri motivi…”

“Nessun motivo nascosto… ma prima, mi faccio una doccia…”

“Poi ti fai bello, ti spalmi di dopobarba e ti riempi la testa di gel…”

“Ah le donne, non si può farne a meno…”

“Calma ragazzi, direi che la doccia serva a tutti… adesso mi date una mano con l’impasto poi tutti a lavarsi, e dopo usciamo per il gelato. D’accordo?”

“D’accordo!”

“Beh, ci siete già in tanti per l’impasto io vado da nonno Cassel… ciaoooo!” un gesto rapido di saluto e poi fuori dalla porta.

“Ciao Luc, tanto prima o poi scopriremo il perché di tanta fretta…!”

 

L’atmosfera era serena e a Julia piaceva stare con i ragazzi, le ricordavano tanto i fratelli, ed in fondo anche se si trattava di cugini il legame era fortissimo, si considerava la sorella maggiore di quelle pesti. Il piacere della compagnia allentava un poco il nodo in gola della scoperta del venerdì notte, c’erano ancora tante domande che erano rimaste senza risposte, credeva di avere trovato il suo perché… in realtà aveva scoperto altri punti interrogativi e le erano cadute le poche certezze che aveva.

 

Nel frattempo in pasticceria il buon Cassel non poté fare a meno di notare il ragazzone che, con finta non curanza, occhieggiava da dietro una vetrina, nel vano tentativo di scrutare tra la folla assiepata nel locale. Sotto i candidi baffi si distese un ampio sorriso, in fondo le cose non cambiavano mai… passavano gli anni, cambiavano le generazioni ma i cuori continuavano a battere e i sentimenti a spingere gli uomini a cercare le donne e così viceversa… e meno male!

Luc arrivò trafelato e si accorse subito dell’uomo alto quasi due metri che, misurava il marciapiede lanciando furtive occhiate alle vetrine. Daniel si godé la scena, non aveva dubbi, a Luc il buon Alain era piaciuto subito, aveva riscosso il suo favore, cosa assai rara essendo il cugino molto selettivo e gelosissimo di Ju, questo era un buon segno, sì proprio un buon segno.

 

“Ciao, scusa il ritardo, ma abbiamo finito da pochissimo…”

“Senti Luc, mi sento in un terribile imbarazzo… non credo che sia una buon’idea…”

“No! Senti tu io ti devo un favore, se non fosse per te sarei in un gaio grosso come una casa e poi bisogna battere il ferro finché è caldo. Dammi retta!”

“Ma cosa vuoi che sia, guarda che il merito è tutto di Robbi, il meccanico”

“Sì, ma senza di te non ci sarei mai arrivato da Robbi ed avrei dovuto chiamare Ju, la quale mi avrebbe fatto una filippica lunga un’ora e poi ci sarebbero stati i miei, gli zii, il nonno Cassel e poi quello Label via telefono… insomma un macello per un graffio!”

“Ma dai! Ero lì, ho visto tutto, non è stata colpa tua, sei scivolato… capita, l’altro ha inchiodato e tu hai frenato… peccato che sulle strisce si scivoli come sul sapone…”

“Io ti devo un favore e parte dell’osso del collo, quindi bello adesso mi segui e facciamo gli gnorri… e poi, sono sicuro che a lei farà piacere, anche se sarà acida come una perpetua!”

“Quasi mi dimenticavo, bisogna prenderla per la gola, dobbiamo procuraci la mercanzia di Daniel”. “Caspita ma è strapieno, ci metteremo un sacco di tempo…”

“Tu non ti preoccupare, conosco i miei polli…”

Il sodalizio era stato stretto, tra un ragazzo non ancora maggiorenne ed un uomo trentenne, alla fine riuscirono a portare fuori il loro bottino: un grande cabaret di varie leccornie, molto grande, molto pesante, molto bello nella sua scatola bordeaux con la scritta Cassel in marrone.

  

SVEGLIARSI LA MATTINA

  

Sono le sei meno tredici minuti, lo so, non c’è neanche bisogno di aprire gli occhi, lo so e basta!

Mi sveglio sempre a quest’ora, anche se adesso sono qui con gli occhi chiusi, raggomitolata nel plaid, spalmata sul divano, con i piedi nella piega dei cuscini… mancano tredici minuti alle sei, è ora di alzarsi e di andare a correre. Questo è uno strano risveglio, certo strano per me, immagino che sia normale riaffiorare lentamente dal sonno, riprendere coscienza e poi aprire gli occhi, con tranquillità… in santa pace… in fondo è domenica. Di solito il mio risveglio assomiglia ad un’apnea, salto seduta sul letto, sbarro gli occhi, li apro subito, li spalanco come la bocca in cerca d’aria, il cuore batte, tachicardico, il petto si alza ed abbassa con affanno e pensare che la sveglia suona dopo, quando con le gambe incrociate e le mani sugli occhi mi riprendo, allora suona ed io la spengo al primo trillo, poi c’è la radio, la musica e la voce di Ross che legge l’oroscopo. Inizia la mattina, la giornata, riprende la vita, quella vita che mi sembra così assurda, mi sento gabbata, il danno e la beffa di andare avanti ogni giorno, con lo stesso risveglio e la stessa necessità fisica di andare a correre per riuscire ad arrivare a sera.

Svegliarsi la mattina.

Oggi è diverso, ieri sera è stato diverso addormentarsi e ieri notte è stata diversa. La prima notte in una casa mia, e mia soltanto, dove tutto è legato alla mia volontà ai miei desideri ed ai miei ritmi, voluti o bramati. La prima sera, la prima notte non da sola.

Nel mio letto ci sono ancora Jona e Margot che dormono sereni, nella camera piccola ci stanno Elia e Luc con gli auricolari ancora nelle orecchie… lo so… lo sento, non c’è nemmeno bisogno che vada e vedere, sono passate due ore scarse dall’ultima occhiata ai vandali. Prima notte nella mia prima casa e la passo sul divano… non da sola… beh, c’era lui. Alain.

Ecco, lo sapevo che poi annego in un bicchiere d’acqua, non sono abituata a certe cose… cosa ho fatto!

Niente, niente di niente, nulla di strano o pervertito o naturale - perché dicono tutti che è naturale? – io comunque non ho fatto nulla di quello che si potrebbe pensare, quando s’immaginano una ragazza – di’ donna… ne hai trenta d’anni non quindici – meglio, una donna ed un uomo, soli – non proprio – su un grande divano capace di accoglierli entrambi…

Abbiamo parlato, dopo aver risistemato in cucina e sul tavolo, usando un filo di voce, perché i fanciulli dormivano nell’altra stanza, ecco abbiamo parlato… ecco sì, beh non solo. Insomma è normale ad un certo punto aver sonno, dilla tutta: com’è arrivato il sonno?

Chiacchierando, seeh, giuro parlando… ma chi prendo in giro, le chiacchiere sono amene… le nostre sono state confessioni, di quelle dette a pezzi e bocconi, di quelle pesanti e dolorose, di quelle che ogni tanto avresti voglia di buttare per vedere come ci si sente senza… insomma, un casino!

Perché quando si mescolano queste voci, dopo si passa di livello, o ci s’ignora perché fa troppo male e ci si vergogna, oppure si sale di grado sorpassando la semplice e educata conoscenza superficiale del buongiorno e buonasera, del come stai, e ci si guarda con più attenzione, sentendosi un po’ nudi, nonostante il cappotto o la sciarpa. Ferite scoperte che bruciano anche se ci soffi sopra, anzi bruciano di più il giorno dopo e sembra che invece d’aria ci sia stato messo sopra del sale.

Che faccio? Mi ha raccontato di sua sorella, di quel depravato del marito, di quel violento… certo che la violenza psicologica è peggiore a volte di quella fisica, se stanno insieme poi è la fine, sì la fine, che brutta fine che ha fatto Diane. Brutta davvero. Lui è stato sincero ed io ci sono cascata, gli ho raccontato dell’incidente, di quello che mi ha cambiato la vita in un battito di ciglia. Mai fatto prima, mai detto, mai raccontato, un po’ per non sembrar quella che piange miseria… un po’ perché è cosa mia, solo mia… neanche a Julian ho detto quelle cose. Non ho pianto, non ha pianto, ci siamo solo stretti, vicini, abbracciati su questo divano, lui ha appoggiato la testa in quello spazio descritto dall’arco delle costole, sotto lo sterno, tenendomi con le braccia tra la vita e la schiena, io gli ho accarezzato la nuca, in quella virgola di pelle e capelli  tra capo e collo, e siamo rimasti lì, stesi uno sopra l’altra senza più parlare. Ci siamo calmati, lui mi ha calmato e credo di aver fatto lo stesso. Ci siamo addormentati, si sono chiusi gli occhi e siamo rimasti così, insieme, silenziosi, lontani ma vicini, nel buio di casa mia, dove lui si muove come fosse sua.

Poco fa si è svegliato, l’ho sentito ma ho fatto finta di dormire - sono una codarda - lui mi ha dato un bacio sulla fronte e mi ha mormorato un bellissimo saluto all’orecchio e… mi è scappato un sorriso, sì… mi è scappato, fuggito via da solo per parlare con lui, che prontamente l’ha raccolto sulle sue labbra… e me l’ha rubato. Non ho aperto gli occhi e lui mi ha messo una mano sulla guancia, un gesto tenero, il palmo, caldo, aperto dallo zigomo fino al mento. Se fossi stata in piedi, le ginocchia non mi avrebbero retto, ma ero sdraiata e sono rimasta saldissima, almeno credo, spero.

Nel buio della notte, alleggerito dai pochi deboli lux dell’illuminazione stradale ha recuperato le sue scarpe, la sua giacca per poi tornare da me e restituirmi quel sorriso, prima rubato, lo ha rimesso lì dov’era nato, dopo è uscito, in un silenzio discreto e delicato.

Mi piace, mi piace come persona, è una bella persona, buona, come direbbe mia nonna: “C’è del buono!” Sì, nonna, c’è del buono e mi sembra anche tanto… cara nonna, credo che tua nipote si sia messa in trappola da sola. Non ho scampo, ci sono cascata dentro a piedi pari!

Basta!

Adesso mi alzo, non è difficile, anche se mi dispiace lasciare il plaid, ha un buon profumo, di buono, di noi, sì perché c’è il mio più il suo… ed insieme stanno bene, sembrano due aromi fatti proprio per mescolarsi. Taci! Censurati! Non puoi abbandonarti a certe romanticherie, cosa fai… molli!

No, non mollo - “boia chi molla!” – ma ammetto, almeno ammettere mi è concesso o devo fingere anche con me?!

Ci vorrei vivere con Alain, ogni giorno e tutti i giorni che ci sono concessi, vorrei svegliarmi come oggi e magari con lui ancora sulla pancia… vorrei provare a credere, a dare fiducia, a sbottonarmi e a farmi spogliare… da lui. Parole, parole, parole tutte nella mia testa, libere ed anarchiche, ma sono solo parole, non dette e mal pensate, lo sai che hai paura… lo sai che non puoi, lo sai che sei già morta… ci sei già stata su quel tavolo freddo e tra poco ci tornerai.

Che illusioni ti fai, dove pensi di andare, la strada che hai preso porta sempre e solo in quel posto, c’è chi scompare, chi viene ritrovato un po’ di qua e un po’ di là, chi è stato sciolto, chi inserito nelle fondamenta di un qualche anonimo palazzo dell’edilizia popolare, chi esploso nell’auto, chi schiacciato a bordo strada e lasciato lì, in mezzo alla neve…

Lo sai, hai capito…

Vado in bagno, apro piano l’acqua e mi lavo la faccia, lo specchio mi restituisce una faccia contratta, rabbiosa, la mia.

Sì, lo so, ho capito!

Con l’acqua fredda scivolava via il livore, ma ad un tratto il bianco smaltato del lavandino si tinge di porpora, di rubino, un fiume rosso gorgoglia e si lancia nel vortice del risucchio, gocce dense colano sulla ceramica, ed un formicolio mi prende la testa e mi ronzano le orecchie…

Ecco, lo conosco… il fiume rosso, alla mattina, così per caso, ma non tanto, maledetto sangue al naso! Capillari fragili, nervi tesi e brutte notizie. Li conosco i segni, sono come le piaghe d’Egitto. Se considero i miei nipoti e la loro fame, direi che sono passate già le locuste… e poi ci manca solo che si mettano a piovere rane!

Bene, la giornata inizia bene con uno di quei segni ed una certezza in più, lo sento è lì che balla, lì che si muove per aprirsi… è un cassetto nella mia testa dove c’è qualcosa che mi solletica, un collegamento, una faccia, una voce, un fatto fondamentale, qualcosa che ancora non è chiarissimo, ma che intuisco e sento… ci vuole tempo ed il giusto stimolo e poi sarà tutto chiaro.

Mi vesto, l’emorragia è finita, roba da poco, infilo le scarpe e mi rendo conto che ormai sono da cambiare, sono completamente lisce e la tela è lesa… devo trovare lo stesso modello!

Esco, la mattina è ancora buia, siamo a gennaio, fine del mese, ma ancora inverno, pieno inverno.

Parto con il solito passo sciolto, faccio i gradini saltellando, dopo essermi stirata per tutta la mia poca lunghezza, e poi inforco decisa la strada. I primi, sono i passi di riscaldamento, servono per prepararsi al resto, vado, corro bene, lo so! E’ sempre stato così, poi l’allenamento e le gare ci hanno messo il resto, ma sono “gazzella”, così mi hanno sempre detto.

Le falcate si susseguono costanti, senza cadute di ritmo, destro e sinistro si alternano in modo elastico, doso la potenza, la fatica, lo sforzo, correggo l’inclinazione, mai mettere le spalle giù, basse come fossero stracche fin dall’inizio. Scivolo via sul selciato, non c’è nessuno, solo io e le mie gambe, aumento il ritmo. Passo davanti all’ingresso del parco, entro e così abbandono il suolo liscio per quello scricchiolante della ghiaia e filo via. Costante, misurata, potente ma non troppo… si tratta di resistenza, di fondo, di maratona. L’aria fredda dilata i polmoni ed entra arrogante piena d’ossigeno, che poi scorre verso ogni fibra, muscolo e brucia. Giro intorno al laghetto, un velo di brina ghiacciata ricopre l’acqua, ma non ho freddo.

Corro. Al secondo giro del lago, prima di andare verso l’uscita e dirigermi verso un altro isolato, mi accorgo di una cosa, meglio collego due cose lontane, distanti fra loro.

La prima mi affiora così, come un frame, si tratta di un articolo scritto da un collega di Enrico, mio padre, parla di due corpi ritrovati vicino all’ex-caserma, due uomini rimasti lì da almeno due anni, trovati per caso, una bomba sotto una macchina, l’esplosione ferisce e squarta una serranda, dentro un magazzino, dietro una nicchia murata con due corpi senza nome. Accaduto nel febbraio 2002.

Nelle colonne si parla di questi corpi, del loro abbigliamento, delle loro catene, dei loro piercing, uno in particolare ne è pieno, naso, orecchie, labbra e non solo.

La seconda cosa mi appare lentamente, così come si sviluppa una fotografia, piano piano l’immagine si compone, nel dettaglio di quel luogo, in quel quasi notturno, alcuni uomini parlano con altri, c’è ne è uno vestito di pelle, indossa un vecchio chiodo, è preso di tre quarti, nella trama sgranata dell’immagine si riconoscono dei monili, dei pendenti alle orecchie, qualcosa al naso, uno al sopracciglio, uno sotto il labbro. L’altro uomo vicino è di profilo, allunga una mano con una piccola busta, al polso un bracciale borchiato. Un particolare delle fotografie stampate in camera oscura mercoledì notte.

Possono essere gli stessi? Forse, ma devo vedere le foto dei rilievi della polizia. Le date così a braccio ci stanno, dicembre 2000 e febbraio 2002.

Nella mia testa lo sento, quel rumore… quel scivolare sulle guide, quello scorrere di un cassetto aperto. Si è aperto, ma adesso ne sento un altro…

Che strano, a volte il contatto giusto è dato dalle cose più banali, così come questa fettuccia bianca e rossa, che segnala il divieto di parcheggio tra due pilastri. La fettuccia, il bianco ed il rosso…

La fettuccia nella foto di Enrico, c’è! La fettuccia nella foto del giornale… non c’è, dov’è?

Dov’è? Non è nella foto, ma nell’articolo. Gli uomini avevano le mani legate dietro la schiena, chiuse da parecchi giri di fettuccia bianca e rossa.

Enrico è stato sulla scena del delitto, le fotografie sono state fatte poco prima, vittima e colpevole erano insieme. Vedo rosso.

Vedo rosso, come l’ultimo ricordo in macchina… qualcosa di rosso a sinistra, i fari nello specchietto. Non è stato un incidente, ci hanno spinto e poi lasciato lì. Eravamo accerchiati, qualcosa davanti, qualcosa di fianco e qualcosa dietro. Sul luogo, le autorità ritrovarono solo un furgoncino… l’autista morto, con la testa nel parabrezza. Noi schiacciati a  bordo strada, abbracciati ad un pilone di cemento.

Passo davanti a Cassel, non ho fame…

 

Rientro, mi sento debole, stranamente debole, non ho voglia di fare un altro giro.

 

Julia rientra in anticipo rispetto al suo solito, lei prevedibilmente metodica esce ed entra sempre alla stessa ora, quasi gli stessi minuti, ma a volte basta anche solo una manciata di secondi per cambiare una prospettiva, una storia, una famiglia e svelare qualcosa che non si pensava.

Appena entra nell’androne Julia, la vede parcheggiata, nuova fiammante, una Porsche Cayenne color canna di fucile.

“Ma che è? O meglio, di chi è?” stanca non vuole porsi troppe domande, per adesso, comunque accanto alla Porsche c’è un altro mezzo che non appartiene al solito parco delle quattro e due ruote, è una moto nera, sportiva, la osserva meglio dal vetro del portone…

“Questa poi!” mentre sbircia l’orologio, è in anticipo di venti minuti, oggi ha proprio corso poco.

“Sono stata fuori più di mezz’ora, quando sono uscita la macchina e la moto non c’erano… strano, non sapevo che ci fossero visite, che siano gli zii? No! Li devo andare a prendere io stasera. Passi per la macchina, ma chi è quel folle che gira in moto a gennaio e poi… per giunta, anche alle sette del mattino, sarà un pazzo, un esaltato o uno con una spanna di pelo sullo stomaco…” chiude gli occhi, lo sente, avverte che arriva, come sempre, quella puntura di spillo che porta sempre guai.

 

Al quarto piano tutto è concluso, Mediano saluta Nero, che si avvia per le scale… tanto c’è ancora tempo. Scende, senza far rumore, con in mano il telecomando del cancello ed il casco, in testa la sicurezza di sempre, poi arriva a terra. La vede.

Appoggiata con la fronte al portone interno, una mano sulla fronte e l’altra sullo stipite, piccole nuvole di vapore si disegnano sul vetro, ha il fiato corto ed il respiro irregolare. La guarda, ancora, e pensa che lui l’ha sempre vista di spalle e da lontano, sempre di nascosto, sempre nell’ombra, in fondo… l’ha sempre spiata. Anni prima. Come il padre. Lei che gli assomiglia tanto, tanto, forse troppo… così com’è diversa da suo fratello.

Le ginocchia le cedono e cade lentamente, si porta una mano al viso e tra le dita scivola via un po’ di lei, sangue.

Accasciata, è come se lentamente si svuotasse, si spegne, si piega e ripiega, fino ad accartocciarsi a terra.

Lui decide, corre da lei, sperando che non lo veda, che non lo senta… gli è andata bene, ha perso i sensi. La sposta, la sistema e le gira la testa in posizione di sicurezza, pregando che non apra gli occhi… non adesso. Poi, ritorna di corsa all’ultimo piano da Mediano, in un attimo è alla porta e bussa, piano.

L’altro apre con uno sguardo preoccupato…

E lui inizia, “è giù, si è sentita male, perde sangue dal naso ed è svenuta…”

“…” non c’è bisogno di parlare, ha capito benissimo di chi sta parlando, ma la muta domanda è un’altra.

“No, non mi ha visto… era di spalle… forse, ha visto la moto…e l’auto”.

“…” un attimo senza parole, poi la freddezza mentale di sempre “fai sparire la moto, vai, adesso ci penso io”.

“Ti aiuto, forse dovresti chiamare l’ambulanza o portarla al pronto soccorso… ha perso molto sangue…”

“Andiamo!” e prima di scendere prende quello che potrebbe servire.

 

Lei è sempre lì, ferma come l’ha sistemata Nero, che aveva ragione…

Julian, come protocollo medico insegna, controlla lo stato della sorella, che è collassata, il polso è debole, il battito pure ed il sangue abbondante non accenna a fermarsi.

 

“Stupida! Zuccona di una sorella incosciente, e pensare che sei medico pure tu… e saresti stata anche un ottimo chirurgo se non avessi mollato per fare l’imbrattacarte. Merda! Qui serve un coagulante, una bella piastrinoferisi. Bisogna andare in ospedale  e subito!”

 

Nero osserva Mediano che inizia il suo maneggio: chiama il pronto soccorso e dopo aver descritto la situazione passa al dottor Lassone, poi avvisa la famiglia, mentre lui cerca di tamponare il sangue e mette un po’ di ghiaccio sulla fronte… e lei è pallida, sporca di rosso.

 

“Luc, siete tutti ancora a letto?”

“Ma che domande fai? Mi svegli per chiedere se di DOMENICA, alle 7,00 siamo a letto? Guarda, che qui si ronfa alla grande. Elia poi, non sentirebbe una bomba, Jona e Margot… come se non li conoscessi… lo sai che ci vogliono le granate per tirarli giù dal letto la domenica. Dai l’unica che è sveglia è Ju, è andata a correre, tra poco sarà qui. Ma che vuoi?”

“Luc, come prima cosa, sappi che Ju è qui, siamo nell’androne ed è svenuta. Ho già chiamato l’ambulanza, si tratta di un collasso… non è nulla di grave! Dimmi se ieri sera ha cenato e se ha preso il coagulante”.

“Non lo so, non ci ho fatto caso, ieri sera a cena c’era anche Alain, insomma tirava una strana aria, non ci ho fatto caso… di sicuro ha spizzicato qualcosa, ma non ti so dire se ha preso le pillole…”

“Fammi un piacere, vai in bagno, nel mobile di sinistra c’è una scatola di metallo, dentro ci sono le medicine, guarda e conta quante ce ne sono nel blister blu!”

“Vado! Ecco… ci sono, trovata la scatola, il blister… blu da dodici, ne rimangono otto!”

“Otto! Miseria, allora sono quattro giorni che non le prende! Grazie Luc, senti occupati degli altri, se tutto va come il solito per oggi pomeriggio siamo fuori”.

“D’accordo, poi… mi dici tutto… mi raccomando…”

“Cosa… cosa ci faceva Alain a cena con voi?”

“E’ una storia lunga… e poi ti racconterò, comunque lei ne è stata felice. Credo...”

“Non voglio che v’impicciate degli affari di Ju…”

“… che vuoi il monopolio?”

“Luc! Sta’ in campana”.

 

Mediano è così. Organizza, smista, sceglie, sposta, media e glissa. Nero approfitta della conversazione per occuparsi di quella ragazza mai sfiorata, intoccabile.

In lontananza si sente il lamento delle sirene, l’ambulanza è vicina. In un dialogo fatto di sguardi si scambiano di posto, l’amorevole fratello prende in consegna la sorella e l’amico si smaterializza e con lui la moto e poco dopo l’auto. Nel cortile ritorna il solito panorama, mentre Julian si prepara ad affrontare il risveglio di Julia con la sua migliore interpretazione. Dovrà prepararsi a rispondere a quelle domande, che lei gli porrà… risponderà con una parte di verità, un frammento e poi per il resto si appellerà ai silenzi… quei silenzi mille volte già concessi.

 

 

La casa dorme, riposa pigra nell’alone bluastro della notte, è come se tutto fosse osservato attraverso un filtro blu. I soliti oggetti, le prospettive tutto si ammanta morbidamente di quella sfumatura, non ci sono più i chiassosi gialli, gli sfrontati rossi o i calmi verdi… ecco, rimangono a lampeggiare le lucine digitali di qualche elettrodomestico vario sparso per casa. Tutto è come fosse di velluto, di un mutevole blu di Prussia, che col passare delle ore virerà al rosa e poi al bianco, quando il sole aggiungerà nuove frequenze allo spettro della luce.

Lei si aggira tranquilla tra quelle mura, mescolando i ricordi di un passato remoto a quelli di un passato prossimo… quanto ama quella casa, quell’appartamento. Appartiene a lui, è la casa dove è cresciuto fino a rimanere orfano, è la casa in cui è voluto tornare appena possibile, è la casa che ha diviso con il suo più caro amico, un fratello… di cui lei è sempre stata gelosa. Non ha mai sopportato l’idea che ci fosse qualcuno capace di farle scendere il gradino più alto nel podio dei suoi affetti. Reminescenza adolescenziale. Quando lottava nell’affermare quell’amicizia come unico ed indissolubile loro legame, quando in realtà era già altro… sì, magari acerbo, ma già altro. Non che questo estromettesse il sentimento di amicizia, ma loro giocavano su altri livelli… lui consapevolmente, mentre lei inconsciamente.

Oscar gira per l’appartamento senza accendere la luce, non ne ha bisogno, dalle persiane filtra il chiarore notturno e poi conosce la disposizione dei mobili e degli oggetti. Ne ha un ricordo fisso, marchiato, preciso… anche se lei non ci ha mai vissuto in quelle stanze, anche se sono passati sei anni dall’ultima volta che ha varcato quella porta. Sbagliato! Ha vissuto in quello spazio, è sempre stata la sua tana, la sua fuga, lo sa… ha sempre cercato e ricordato quella casa, perché significava avvicinarsi a lui, stare con lui, dividere l’aria con la sua presenza e respirarla, gioire della sua esistenza in modo passivo, quando lui non c’era fisicamente, rimaneva traccia di lui nel suo ordine di disporre gli oggetti, nelle sue tracce in cucina… le cose che gli piaceva mangiare, l’essere goloso.

Lentamente si avvicina allo stipite della porta, liscia e scura, di noce, l’osserva accostandosi al letto… dorme sereno, pago, bello come è sempre stato. Ha un modo tutto suo di dormire, è timido, si capisce da quel  suo stare a pancia in giù, con le mani e la testa sotto il cuscino, le gambe appena divaricate ed i piedi perennemente fuori del letto, liberi dalla caviglia in giù… tutto di traverso, eppure, anche in quel suo personale dominio, rimane sempre vicino al bordo, a volte un braccio gli scivola giù a toccare il pavimento. Mezzo scoperto, con le lenzuola che gli cingono a mala pena i fianchi, con le braccia e tutta la schiena libera, come le gambe, che ogni tanto scalciano.

Come da bambino, quando sua nonna, ormai rassegnata, gli comprava pigiami pesantissimi, per l’inverno, perché tanto lui si scopriva… e poi la mattina era senza voce.

Adesso, adulto, se ne sta lì… in quella sua posizione cambiata solo da un braccio, che aperto si stende sul materasso a chiudere lo spazio rimasto vuoto, ma ancora caldo, dove si trovava lei poco prima, pochi minuti prima. Ma questa volta non scapperà, come fece quel venerdì. Anche allora, dalla medesima posizione gli lanciò l’ultimo, almeno pensava così, sguardo, per mandarlo a memoria… e lui…

Stessa posizione e stesso braccio generoso e possessivo che stringeva un vuoto, che sarebbe rimasto tale e divenuto freddo. Ma questa volta no!

 

“Non è venerdì, ma domenica. Ed io sono qui per restare, non per scappare”.

 

Un bacio leggero sulla spalla, non lo vuole svegliare… non ancora… e meglio che riposi. Aggiusta il lenzuolo, coprendolo un po’ di più… indugia con lo sguardo privo di pudore, ma colmo di tenerezza su quei lineamenti, così cari, non completamente nascosti dai capelli e dal bordo del cuscino, e ne ricorda le espressioni di quel presente appena divenuto passato. L’aria addolcita e serena di chi ama ed è stato riamato, di chi sente riamato. Non resiste e la mano le scivola sullo zigomo fino al mento, poi sposta una ciocca dietro all’orecchio, soffermandosi sul tenero del lobo. No, non si può solo guardare, un bacio si posa leggero in quel frammento di pelle tra la fine della mandibola ed il vuoto del collo.

Poi è lei a trovarsi chiusa, con il suo mento premuto nell’incavo della spalla e le braccia intorno alla vita a decretarne il fermo. Un bacio, una strofinata di naso sulla pelle, un bacio ancora insieme ad un mugolio e la stretta che si fa più forte, e dolce. Dopo il respiro torna regolare e sente il progressivo rilassarsi di ogni fibra. Sereno riposa. Lei accosta le mani di André alle labbra, le appoggia e le custodisce accanto al viso, poi si allontana da quel tepore.

Sulla sedia trova la sua maglietta da casa, la sua preferita… quella che gli ha regalato lei, tutta azzurra con una S rossa sul fondo giallo.

Le arriva a metà coscia e il giro della spalla passa radente al gomito, è morbida, di cotone, profuma di bucato e di lui.

Riprende il suo tour nella casa e nei ricordi. Ha sete, voglia d’acqua fresca e caldi ricordi.

In giro ci sono alcune modifiche, da volenterosi e squattrinati studenti sono oggi rispettati e richiesti professionisti. E’ rimasto il pavimento di cotto, con quel suo colore così caldo e quel suo aspetto così vissuto, ma assolutamente affascinate, il bello è che hanno messo il riscaldamento a pavimento, così si può girare scalzi anche d’inverno.

Già, André perennemente scalzo, appena arrivava in casa le scarpe erano la prima cosa a volare via. I piedi, liberi, sottili e lunghi con quel bel collo e quelle dita eleganti e sempre in movimento. Già la libertà di girare scalzi, il bello di non avere vincoli, all’inizio non era stato facile per lei ma, studiando in quella casa, era una condizione sine qua non come per i giapponesi: via le scarpe!

Nel salotto, davanti al camino c’era un divano verde, color bottiglia e nell’angolo della libreria di scuro e severo castagno c’erano le due poltrone di pelle, una verde e squadrata per André, l’altra color cuoio e più tonda per l’altro. Libri ovunque, parcheggiati in doppia fila nelle scansie restaurate dal padre di André.

Una casa calda, fatta di legni scuri dai tagli semplici, pochi mobili sobri disposti sul candore delle pareti, inframmezzate da qualche muro lasciato al grezzo, per mostrare i bei mattoni pieni e rossi.

Sopra la cassapanca si apriva lo spazio dei ricordi. Fotografie dei genitori di André, della madre che china su di lui gli offre il seno, il padre con il bimbo sulle spalle, il triciclo.

Accanto a questa si trova l’immagine di una bimba bionda e riccioluta sul medesimo mezzo, in un giardino che non è il loro. Contrappunti di una vita non ancora mescolata.

Anni ed anni, racchiusi in multiformi cornici dai colori diversi, un affresco di vite.

Ad Oscar quella parete suscitava sentimenti contrastanti, tutti dolci e morbidi fino a quando non compariva Alain, ed allora diventavano acidi.

Le cornici erano aumentate dall’ultima volta… non c’era più traccia di lei, ma solo di loro due.

Insieme a Capo Nord, mitica meta da raggiungere in moto, un viaggio che è come una prova d’iniziazione da fare da soli o in compagnia di altri centauri. Il nuovo studio, i lavori in casa,  buttare giù una parete e pitturare… L’arrivo a Dakar, sempre in moto, sempre in due.

Un viaggio in barca a vela, in due, sempre. L’inaugurazione di una mostra di André… il primo assegno guadagnato. La neve e gli sci.

Sei anni.

 

Acqua, aveva bisogno d’acqua fresca e frizzante. In cucina trovò pace.

 

Il piano di marmo bianco… gli sportelli di ciliegio, la vecchia madia, la credenza scura e lucida di cera, il tavolo grande e quadrato su cui si studiava così bene… i fornelli.

La cena amorevolmente preparata insieme e lasciata intonsa. Il filetto al pepe, magistralmente rosolato, le patate dorate, la torta di mele ancora nel forno, ormai spento. Tutto lì.

Poco prima si erano mossi insieme, André a curare la carne e le verdure, lei a fare la torta… perché… perché ne aveva voglia.

Sbucciare, tagliare quelle mele così profumate, preparare l’impasto armeggiando con la frusta… farina, lievito, burro, uova…zucchero di canna, quello scuro, tutto insieme e le fettine spolverate di quello zucchero bruno. Lui che sbuccia, taglia, sbollenta e rosola, prepara le spezie, il fondo per la carne. Guardarlo, come si muove, come ti sorride da sotto le ciglia, e capisci che orgoglioso di te, della proposta fatta, di come ti muovi anche tu in quello spazio. E quando tutto è pronto, guardare quelle spalle, vederne il viso riflesso nella finestra socchiusa, tuffarsi tra le sue scapole e stringergli le braccia in vita.

Mormorare le sue stesse parole, quelle che bisognerebbe usare con parsimonia. Quelle che lei non ha mai detto a nessuno e che riesce a pensare solo se riferite a lui. E’ facile dirle piano, dopo, accostata all’orecchio, quando lui ti tiene le mani e le stringe.

Ancor di più dopo, nella sua stanza, quando si mescolano e diventano promesse, sorrisi, gioia e piacere.

 

La luce del frigo illumina il suo contenuto, la bottiglia è lì sul fondo, pronta a adempiere il suo dovere, anche il frigo è ordinato, meglio, organizzato… ne riconosce il tocco ed il gusto.

 

Alain, salendo i gradini, aveva ancora in testa e sulla pelle i segni di quel dolce risveglio, su quel cuscino liscio e profumato di mandorle. Ne ha una voglia matta, viscerale e non capisce ancora come ha fatto a non toccarla a lasciare che tutto si chiudesse con un bacio a fior di labbra… In altre occasioni si sarebbe detto: “IN BIANCO”, in realtà capisce che non poteva andar meglio di così.

Date le premesse con cui era iniziata la serata… occhi di brace che lo avevano ustionato per non aver atteso lunedì, imbarazzo e rabbia, poi tutto era filato liscio come l’olio. O meglio, forse a causa di qualche strano influsso, l’atmosfera si era rasserenata, c’era affinità tra tutti gli ospiti, con i ragazzi che apprezzava. Con lei, con quel suo fare da zia e da mamma con le pesti, nel  loro volerle bene senza ritegno. Affettuosi, fisici in quegli abbracci, le strofinate dei capelli, le spinte, gli scherzi i sorrisi ed il pungersi a parole. Affascinato da questo aspetto, stregato da questa Julia inedita, libera e splendida. Adesso capiva André, perché a volte è giusto aspettare e non volere tutto subito. Julia non era in cerca di avventure, mentre per lui era la prassi. Niente di impegnativo, una bella storiella molto fisica, che ti faccia sfogare e godere e poi ci vediamo quando capita.

Altro che schiaffo, se solo avesse proposto a Julia un programma simile, probabilmente sarebbe in sala gessi o peggio… lei si sarebbe fatta d’aria e lui l’avrebbe persa.

 

“Punto uno: Julia non è tipa da garçonièrre.

Punto due: non la voglio portare nella mansarda/garçonièrre, proprio sopra casa nostra. Quello è lo spazio delle sere con gli amici, delle partitine di poker e delle avventuriere consapevoli di esserlo.

Vorrei abitare da solo. Bella la convivenza con André, che è la mia famiglia, ma con Ju direi che sia giunta l’ora di provare a farne una nuova. Anche perché, me lo sento che tra un po’ succederà qualcosa. Quella è casa di André, lui c’è cresciuto, c’è tornato  e se mai lei si facesse furba sarebbe il luogo in cui inizierebbero la loro strada. Perché lui è così, è zonale, quello è il suo territorio. Niente donne, da una massimo due notti, mai! Appunto per questo, c’è la mansarda collegata all’appartamento dalla scala a chiocciola, ma dotata di un suo ingresso indipendente.

Quando lei tornerà sarà la fine del binomio Grandier/ de Saisson, sul campanello.

Saremo amici, come sempre, complici ancora di più ed io potrò sfotterlo fino alla morte… oh! Te la sei cercata!

Bene, caro amico ti dirò che avrei trovato anch’io la persona giusta, sì lo so che è da poco che ci conosciamo, che sono più le volte mi ha lasciato in bianco… tutte! Però, però c’è un qualcosa, non lo so spiegare che mi prende, mi stringe e m’inchioda. Saranno quegli occhi scuri, quel broncio, quella voce che mi strega, quel tono, come si muove… Non lo so, sarà tutto l’insieme, ma difatti è che ho scelto, che ho bisogno di lei, che già mi manca”.

 

I pensieri addolciscono il volto, inebriano la mente ed alimentano la voglia di quel metro e settanta dai capelli rossi, gli occhi scuri, il naso da bimba con la punta arrotondata, le labbra piene e imbronciate, il collo esile e le spalle quadrate, il fisico asciutto e nervoso di chi corre da anni. Ma ancora di più gli manca la sua voce, quel tono mai conosciuto con cui gli ha raccontato dell’incidente. Quella mano sulla nuca, ed il suo ritmico passare. E più di tutto il battito del suo cuore d’atleta, un muscolo che non spreca le pulsazioni, che procede tranquillo e misurato.

 

Sereno e sognante, con gli occhi quasi chiusi nel tentativo di ritrovarla, si avvia verso la cucina… gli è venuta una gran sete.

Il frigo è aperto e da quella timida luce si staglia un’ombra troppo sottile per appartenere all’amico. Quando l’anta sta per chiudersi si trovano faccia a faccia.

Lei stupita… si era dimenticata di quella possibilità e ringrazia la maglia di André di coprire la veste adamitica con cui aveva gironzolato per casa poco prima.

Lui stupito… un poco allibito, si congratula con il suo quinto senso e mezzo – no, quello è del buon Dylan Dog – meglio sesto – non del film – insomma, ci aveva preso. Qualcosa stava cambiando e la ragazza si era fatta furba… c’era voluto più di un lustro, ma ognuno ha i suoi tempi.

  

ONE MORE TIME

 

Il liquido scivola via, le gocce rotolano tranquille protette da quella trasparente membrana, goccia a goccia, stilla dopo stilla, arrivano, entrano e si mescolano ad altro liquido ed insieme corrono nel mio corpo. L’ago brucia, ho sempre odiato questa sensazione, il freddo, il metallo nel morbido e caldo della carne, questo oggetto acuminato che si permette di lacerare le guaine delle mie braccia.

Odio le flebo, odio gli aghi, odio le iniezioni… odio subirle, mi viene la nausea, anche se so che è un riflesso nervoso. Che buffa la vita, a diciotto anni pensavo di fare il dottore, in famiglia si spingeva verso la professione… l’unica possibile: il dentista. Pazienza, se la mia curiosità mi spingeva verso quello che poteva sembrare una scelta di altri e di comodo. Quando mai si abbandona la gallina dalle uova d’oro, uno studio avviato, conosciuto?!

Pazienza… avrei accettato anche di passare per quella che si lascia influenzare, oppure per quella con i piedi per terra e le idee chiare.

Nella vita ci vuole pazienza.

Adesso sono  di nuovo qui al centro trasfusionale, ancora qui su questo letto bianco, con l’odore ed il timbro dello sterilizzatore. Ancora qui, in questo ospedale dove ho studiato, dove ho fatto i turni, le notti, i pomeriggi e le mattine. Qui, in questo reparto dove ho piantato aghi ad altri, dove ho forato un sacco di vene tra disinfettante e  lacci emostatici.

Sono ancora in questo posto, dove poco piani più in alto sono rimasta due mesi con gli occhi chiusi… ancora una volta, dove mi sono risvegliata ed ho ripreso a … vivere?

Posso davvero usare questa parola? Io vivo? Respiro, mi muovo, parlo, penso… ma vivo?

Di chi è questo sangue? Quanto del mio sangue è rimasto dentro di me? In quei due mesi, subito dopo l’incidente, me ne hanno dato tanto… A+, comune e facile da trovare. Ancora una volta penso di essere solo un involucro con tracce di ciò che ero. Sono un residuo, ciò che resta nonostante tutto, forse una scoria.

Jul mi fa sentire male, è inviperito e non la smette di schiacciarmi con quella sua aggressività passiva, un torchio psicologico, che mi stritola. Mi guarda, mi odia, mi ama, mi fa sentire in colpa. Non capisco, non lo capisco… a volte mi fa sentire come se fosse tutto sbagliato, forse non mi sarei dovuta risvegliare, sarebbe stato meglio… più facile, più giusto… o tutti o nessuno.

Non mi dare dell’incosciente, non mi accusare, non sgridarmi che non ho la forza di reagire, adesso no… non ancora. Perché mi vuoi far sentire così fragile, lo sono? Tutti siamo fragili, la vita è fragile… basta così poco per morire o per rovinarsi… per soffrire.

Cosa sai? Cosa sai Julian che non mi dici, cosa mi nascondi? Mi vuoi proteggere? Da chi? Da cosa?

Credi che non io riesca ad andare avanti?

Guarda che io vado avanti benissimo, per inerzia. No. Non più!

Non vado più avanti per inerzia, un tempo forse… un tempo neanche troppo lontano… fatto di dosi… di aghi e morfina. Quanta me ne hanno fatta e quanta me ne sono fatta, era facile. Era giusto, e necessario per placare il dolore. Terapia, questo il nome sotto cui si celava la più vigliacca delle scuse.

Adesso Jul non esiste più quel dolore, ne ho un altro che non si placa con una dose.

Sono cambiata, non ti accorgi di com’è diversa tua sorella, ora? Non lo vedi? Ho deciso di rimanere vicino a voi… tutti,  Label e Cassel variamente intrecciati. Anche se io non mi sento Label, lo sai questo? Tu eri il “francesino” io l’italiana. Sempre. Ancora adesso.

Ho compreso questa nostra diversità solo dopo, dopo che papà non ci chiamava più così. Quando Enrico non si è più fatto vedere, quando mamma non ci ha più sorriso.

Tu li hai sepolti, hai organizzato il funerale e ci sei andato… prima ancora, hai riconosciuto i corpi, li hai visti… io no! Nella tomba c’è uno spazio vuoto, un ovale senza foto, una lastra di marmo bianco senza lettere e date… il mio posto.

Il dottor Lassone mi disse che nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla mia ripresa, ridendo, ammise che lui, invece, quel soldo l’aveva speso, per me.

Quando mi dimise, ridacchiando comprensivo e paterno, quel giorno:

“Sai Ju… non ci è dato sapere qual è il nostro momento, nell’assurdo della tua situazione, nell’impossibile ho capito che forse non era il tempo, il tuo. Certi insetti si fingono morti per sopravivere, per allontanare il predatore…

Sei forte, non dimenticarlo mai. Sei talmente forte che senza questa prova non lo avresti mai saputo, non crucciartene. Sei forte e non era il tuo tempo. Non commiserarti e non sentirti in colpa, mai. Vai avanti, hai un’altra possibilità, tutta nuova, non sprecarla”.

Ancora una volta, oggi, le stesse parole.

 

Davanti al distributore del caffè un ragazzo elegante e composto parla con un canuto medico dal camice bianco e gli zoccoli verdi. Il primo, nonostante l’innata eleganza dei gesti e delle vesti, trasuda agitazione, il secondo, nonostante il camice spiegazzato, le occhiaie da stanchezza cronica, emana sicurezza e tranquillità, è bonario e ne ha viste veramente di tutti i colori, conosce il dolore in molte delle sue forme e rispetta la vita come bene supremo… è un uomo, un medico, un nonno vedovo.

“Julian, non capisco perché sei così preoccupato. Guarda che può succedere, non è nulla di grave si riprenderà presto, è solo esausta, si è trascurata. Pensa che quando le ho chiesto quanto aveva dormito, mi ha risposto di non saperlo…poi ha fatto due conti… e si è ricordata che da mercoledì notte non ha chiuso occhio, qualche ora di pomeriggio ed un po’ questa notte. Ma ti rendi conto sono settantadue ore che non dorme! Tutti crollerebbero!”

 

“Dottore, mia sorella è fuori di testa! Non dorme, non mangia abbastanza e corre tutte le mattine con questo freddo. Per giunta, non segue quelle poche cose che dovrebbe seguire. Non ci sono scuse, anzi le chiedo di preparare la richiesta per un check-up completo e per il ricovero!”

 

“Julian, Julian, caro ragazzo tu esageri. Gli esami del sangue non sono così preoccupanti, i valori sono bassi… ma in qualsiasi situazione ad alto stress si possono ritrovare i medesimi livelli. Julia ha bisogno di riposare, di calmarsi e basta. Non le serve un ricovero, ma un po’ di pace ed un fratello comprensivo. Non è fuori di testa, semplicemente si è fatta inghiottire dalla spirale del fare, del dover fare a tutti i costi. Sapessi quanta gente c’è, si spremono come limoni ed alla fine il fisico gli dà l’aut – aut, poi si domandano come sia potuto accadere.

Dammi retta, stai tranquillo. E’ vero ha sbagliato, si è dimenticata di prendere le medicine che le avevo prescritto… quando venne qualche mese fa, già stanca.

Abbiamo fatto due chiacchiere, non è una sciocca e lo sai. Ha ammesso la sua dimenticanza ed io le ho imposto di stare a casa per qualche giorno. Ma la cosa fondamentale è che dorma, le ho prescritto un blando tranquillante”.

 

Il ragazzo ammutolito segue le parole del dottore, che sa non potrà mai portare dalla sua parte, non sarà mai un suo alleato, non lo aiuterà mai a piegare quella testarda.

Ha un solo pensiero: “come potrebbe dormire… con tutti quei dubbi? Glieli leggo sul viso, sono come ombre, piccole rughe che compaiono e poi spariscono… Julia non ha dimenticato, ricorderà tutto e metterà ogni tessera al suo posto”.

 

Qualche ora dopo all’uscita dell’ospedale.

 

“Mi fai guidare”, due occhi scuri che non chiedono, non è una domanda.

“Ma sei fuori? Ti metti buona sul sedile e lasci che sia io a guidare”, la voce seccata ed asciutta.

“Julian, se non mi fai guidare, io in macchina non ci salgo, torno a casa piedi o in metrò…”

 

Ma quanto sei testarda…

 

Lo sai che non riesco a salire in macchina altrimenti… fammi guidare!

“Senti Ju, non ho voglia di litigare, lo sai anche tu che non è il caso che ti metta al volante”.

“Senti Jul, io ho voglia di litigare! Tralasciando la scenata che mi hai fatto dentro, tralasciando il fatto che sei stato di una cattiveria unica… con quelle tue battutine e i sorrisini… e quell’aria da cane bastonato, da vittima, povero fratello che deve sopportare la sorella bisbetica. Adesso mi sento bene e posso guidare senza problemi, a casa riposerò”.

 

Sono entrambi sugli scalini, lui più in basso chiuso nel suo cappotto di sartoria, lei poco più in alto con la tuta e le scarpe da ginnastica consumate.

Nero li osserva poco distante, protetto da un furgone, più li guarda e più li vede diversi.

Mediano è impeccabile, come sempre curato in ogni dettaglio, dai capelli appena sfilati da abili forbici, alle scarpe su misura, alla piega perfetta dei pantaloni. Lei, ferma a guardarlo con un piglio di sfida, certa e salda, sicura che quel afferma ha un senso, non sembra nemmeno la stessa di poche ore prima.  La coda di cavallo dondola irrequieta, scende i gradini con un leggero balzello e si mette di fronte a Mediano, qualche gradino sotto, allunga la mano con il palmo verso l’alto. Aspetta, le spalle leggermente inclinate in avanti.

Lui dalla tasca tira fuori l’oggetto conteso e lo posa nel suo palmo, lei lo chiude e si avvia con passo sicuro verso la macchina. Pochi passi, falcate precise e misurate, l’andatura dritta ed asciutta, senza ciondolamenti e passi strisciati.

Le luci della due posti secchi argento lampeggiano, lei entra sicura dal lato del volante e mette in moto, lui entra poco dopo e chiude con troppa foga. Poi filano via, e della SLK rimane soltanto il bagliore rossastro degli stop all’incrocio.

 

Ancora una volta, come tanti anni, prima di tutto, prima che iniziasse il gioco.

 

Julian e Julia appena arrivati dall’Italia, furono subito iscritti al blasonato ed esclusivo Kinder College, entrambi quasi undici anni, entrambi in una classe nuova, con nuovi compagni. Per Julian non fu difficile, lui piacque subito a tutti, senza problemi. Era difficile resistere alla sua innata capacità di mettere tutti a proprio agio, al suo garbo così naturale, al suo aspetto così gentile e rassicurante. Piacque ai maschi per la sua simpatia ed alle ragazze per quei suoi lineamenti così delicati…

Più difficile per Julia. Uguale al fratello, visti da dietro non si sarebbero riconosciuti, davanti il colore degli occhi decretava la differenza. Il problema era il carattere… il problema era che a Julia certe cose davano proprio fastidio, e non faceva nulla per nasconderlo.

Prima cosa, la scuola privata. Si era ribellata, ma davanti alla richiesta di Enrico aveva chinato il capo, o meglio aveva archiviato la faccenda sperando di trovare qualche elemento per poter riaprire il caso, al limite si sarebbe ingegnata per creare lei stessa l’espediente.

Seconda cosa, le regole non scritte, le gerarchie dettate dall’altisonanza del cognome, dal numero di iscritti per famiglia, a quell’idea assurda di superiorità della razza.

Il fatto era che lei non se ne sarebbe mai andata dalla sua vecchia scuola pubblica, dai suoi vecchi amici, da sua nonna, dalla città delle due torri, mentre Julian non vedeva l’ora.

Il fratello era perfettamente integrato e parlava un francese impeccabile, ripulito da ogni accento, perfetto. Julia marcava apposta certe vocali e quando poteva rispondeva in italiano, di solito si trattava di risposte poco educate rivolte a qualche bullo, che la guardava attonito. Poi lei traduceva… ed allora erano guai.

Era finita nel mirino di quella cricca di mezzi adolescenti, più grandi di qualche anno, che cercano un capro espiatorio. Non che fosse più piccola di altre ragazze o più brutta… anzi tutt’altro. Ma aveva un difetto, portava l’apparecchio ai denti, niente di eclatante, un sottile ferro che correva sopra e sotto le due arcate… la cosa peggiore era che sottolineasse il fatto di essere nata in Italia, poi rispondeva a tono, senza paura.

E’ facile decretare la diversità, un gruppo omogeneo e compatto detta le regole e non c’è nulla di più fastidioso di qualcuno che apposta cerca di smontarle, per il piacere di farlo. Inoltre Julia era brava, schiva e all’occorrenza acida come il vetriolo. Tutte difese.

In breve divenne la “secchiona” antipatica con la “macchinetta”, insomma “Julia meccanica”, un bersaglio su cui era facile mirare.

Il primo anno fu un purgatorio, tra i richiami del preside che si sprecarono, così come le note sul diario, nonostante i voti fossero eccellenti e i risultati sportivi notevoli. I professori avevano più volte chiesto ai genitori di cercare di smussare gli spigoli di quel carattere. Il secondo anno fu peggio del primo, nonostante le medaglie nelle gare di atletica, nonostante i voti migliori rispetto a quelli del fratello. Nonostante tutto il problema, per molti, era Julia. Lei friggeva di rabbia, e si sfogava a casa quando inesorabile elencava le vigliaccherie dei compagni e sbugiardava certi professori…

 

“Peggio della mafia, molto peggio! Il prof. X fa trovare i testi dei compiti a tale Y il giorno prima, questi si prepara tutte le risposte e poi le vende. Il professore lo sa e dispone solo una parte delle domande, cosicché non si possa prendere più di sette. In A il bullo col collo taurino, nipote di un cardinale, taglieggia tutti quanti, si fa consegnare la metà della paghetta settimanale, che regolarmente brucia in fumo, che poi spaccia a quelli dell’anno dopo. Il bidello del terzo piano lo sa e prende una percentuale sulle vendite. Tutti sanno ed abbozzano, chiudono gli occhi, le orecchie e la bocca. Sono degli omertosi!”

 

A nulla servivano le parole dei nonni, degli zii, a Julia non piaceva il sistema, poi le era stato imposto.

Al terzo anno accadde il fattaccio, che rimase nella leggenda.

Il bullo dal collo taurino prese di punta la ragazzina saputella, ed incominciò una campagna denigratoria molto pesante. Presto si creò il vuoto intorno alla ragazza, ma la cosa peggiore era che il fratello era stato preso nei ranghi alti, insomma nei famosi della scuola, tra i leader.

Più Julia veniva isolata, più il fratello acquistava fama. Il ragazzo dal collo taurino un giorno volle fare uno scherzo alla ragazza con l’apparecchio, in verità, si trattava di uno scherzo di cattivo gusto e molto pesante.

Julia finito l’allenamento di atletica si fermava sempre un po’ di più, le piaceva correre da sola con tutta la pista vuota, bastavano anche pochi giri. Questa abitudine era stata notata dal bullo, che aveva coinvolto un altro compagno nello scherzo.

 

Quel giorno quando Julia si chiuse la porta dello spogliatoio alle spalle si accorse che qualcosa non andava, era inverno e le luci rimanevano accese almeno fino alle sette, mentre, nonostante fossero le sei, erano già quasi tutte spente. Lungo il corridoio si creavano delle anse scure, dei coni d’ombra, non erano spenti proprio tutti i neon, solo alcuni. Con  i sensi all’erta partì a passo spedito.

Da dietro una semicolonna spuntarono due figure con indosso una stupida maschera da clown, iniziarono ad urlare e gesticolare. Uno prese Julia per un braccio e ne guadagnò un calcio secco e cattivo in mezzo alle gambe. Il malcapitato si piegò in due ed inizio a tossire… Julia sbottò di rabbia e gli diede, con tutta la forza che aveva, una borsata in piena faccia.

L’altro sorpreso e preso in contropiede non seppe cosa fare quando se la trovò davanti, per niente intimorita. Le gli strappò la maschera e gli sputò dritto, dritto in faccia, poi lo sorpassò scansandolo con una spallata.

Il giorno dopo Julia non uscì dagli spogliatoi, o meglio, non dalla solita porta, ma utilizzò la finestra del bagno e quando si trovò all’ingresso rassicurò il bidello che lei era l’ultima, e che non c’era rimasto più nessuno. Il bidello chiuse e cinque ragazzetti si trovarono da soli in una palestra deserta… con l’allarme inserito. Ovviamente, quando li trovarono dentro, poi a quell’ora, non riuscirono a spiegare alcunché.

Al ritorno dalla sospensione, il ragazzo da collo taurino affrontò Julia nel corridoio della scuola, volarono parole grosse. Per Julia era giunta l’ora, mai le sarebbe capitata occasione migliore con tanto di testimoni… all’ennesimo insulto scattò, senza preavviso, veloce e cattiva con tanta voglia di fare male, un pugno in pieno naso, perfetto nella sua traiettoria. Così ottenne quello che voleva, rompere il naso a quel bullo e trovarsi davanti al preside per essere espulsa.

La famiglia ci rimase malissimo, mai in tanti anni era successo qualcosa del genere. Julia era felice di poter andare nella scuola che aveva scelto, un classico pubblico… senza divise, senza rimorsi.

Anche lì esistevano delle regole, ma c’era un po’ di tutto.

Il ragazzo dal collo taurino rimase al Kinder College, ma la sua fama subì un duro colpo. Julian rimase e conobbe i ragazzi delle superiori, incontrò Maurice e divennero amici. Quest’ultimo sapeva della sorella, gli dispiaceva di non averla conosciuta… ma ci sarebbe stato tempo.

 

In un attimo arrivarono i diciotto anni, e così anche le feste, le macchine ed una parvenza d’autonomia mescolata all’età adulta.

Ci fu una festa, molto importante, a cui era obbligo partecipare per entrare in società, Julian esultava e si compiaceva di essere stato non solo invitato ma anche chiamato nel team organizzativo, tutto questo grazie a Maurice. Rimase sorpreso, quando il ragazzo gli porse l’invito per Julia, e rimase ancor più sorpreso di sentire sua sorella accettare senza tante scuse.

In quell’occasione sarebbe stato presente anche lui, il Conte, rampollo di una nota famiglia di industriali dal passato blasonato, il futuro capitano d’azienda.

A Julia sembrava di essere allo zoo, c’era una fauna tale e variegata, tutta agghindata pronta a mostrare tutto quello che poteva, c’erano comportamenti da seguire, una sorta di etichetta e rispetto delle posizioni… tutto ovviamente non scritto. Lei se ne stava tranquilla con i suoi capelli corti e tutti sfilati, il vestitino nero senza spalle ma accollato, e quelle scomodissime scarpe col tacco. Silenziosa, osservava quel buffo circo mentre si beveva il suo Bellini. Dopo cinque anni rivide il bullo, il ragazzo dal collo taurino ormai detto il Cardinale, per via della porporata parentela, non le incuteva più nessuna paura. No, non era paura quella che aveva provato dagli undici ai tredici anni, ma piuttosto fastidio, come poteva succedere che un “botolo” del genere potesse generare tanto timore?

A guardarlo adesso, per lei risultava essere solo un ragazzo dalla faccia larga, già leggermente stempiato, dalla corporatura pingue e dall’aria untuosa, poi aveva delle mani orribili, grasse con le dita corte e tozze, l’anello, di una qualche confraternita, ne sottolineava ancor di più l’aspetto suino. Però in quel momento, come allora, aveva un posto in quell’assurda società.

Julian era il maestro di cerimonia, impeccabile come sempre non sbagliava un saluto ed un gesto. Poi c’era il famoso Conte, un ragazzo decisamente bello e che si compiaceva di esserlo, le ricordava un po’ un pavone che fa la ruota e cammina altero. Era accompagnato da un’affascinante ragazza bionda, sembravano una bella coppia… ma per Julia c’era qualcosa di stonato, nonostante l’aspetto da copertina patinata.

In fine c’era Maurice, circondato da vari ed eventuali amici, alto e bello, sicuro e dallo sguardo invadente, in mezzo alla sua corte stava pure un ragazzo serio, che non fingeva di divertirsi e che ogni tanto le lanciava delle occhiate che sembravano lame. Le incuteva timore, per com’era serio e per quanto era scuro in volto, non ne conosceva il nome.

Poi accadde l’inevitabile.

Il Cardinale dopo essersi carburato a super alcolici era partito in pericolosi appostamenti verso molte delle ragazze, a poco erano serviti gli stop della Maurice’s Company, alla fine era arrivato da Julia, la quale annoiatissima si era avviata verso il guardaroba.

Il ragazzo non era cambiato e nello stupore alcolico, dopo aver regalato delle battute, per attaccar bottone, degne di un film di quart’ordine, si era accorto di chi aveva di fronte. Forse… a causa dell’alcool in corpo, decise di provare a pacificarsi con l’ex-compagna di scuola, peccato che gli apprezzamenti furono pesanti e ancor di più il tentativo di baciarla sotto il vischio. Per un po’ Julia si controllò, e Julian pregò che continuasse a farlo, ma il ragazzo superò il limite. Ecco, una ragazza tranquilla avrebbe aspettato i soccorsi, che si stavano attivando e se la sarebbe cavata cercando di glissare, sfuggendo a quelle braccia invadenti. Julia lo sistemò con un manrovescio in piena guancia, lui perse l’equilibrio e rovinò sul cameriere che stava portando il vassoio con i calici del brindisi, il quale rovesciò sé stesso e tutto il bere sui bei vestiti degli invitati, creando una parentesi stonata in quella garbata e soffusa serata.

Julia salutò il fratello, facendosi consegnare le chiavi della macchina, e lasciandolo a sistemare la situazione.

 

Dopo quella sera alcuni ragazzi si trovarono da Maurice, il quale propose loro un  progetto, c’erano il Cardinale, il Conte, Julian che divenne Mediano, Nicolas che divenne Nero ed ovviamente il padrone di casa, che si fece chiamare Barbablù.

 

Poi iniziò il gioco.

 

E adesso che faccio? Cosa gli dico… Oddio, e se mi avesse visto anche prima? Magari di nascosto al buio della sua camera, mentre gironzolavo per casa…

Prima… prima che mi mettessi la maglia. Oh mamma che figura! Ma quando è arrivato? Non ho sentito nulla. Porca miseria… e se fosse arrivato quando ero ancora in camera con… Oh! Non voglio neanche pensare all’eventualità che ci abbia…sentiti… visti… NOOOOO!

Accidenti a me! No! Accidenti a te, brutto villico di un cafone che torni senza avvisare! Cos’è quella faccia, che fai? Ridi? Sfotti?

 

“Che sorpresa! Di tutti i possibili incontri in cucina… proprio non avrei mai pensato di beccarti, poi davanti al frigo! Che ti è preso un attacco di fame nervosa?” il tono è freddo, lo sguardo pure. Fuoco alle armi.

 

Zotico e pure bastardo!

 

“Cos’hai… il gatto ti ha mangiato la lingua? O forse qualcun’ altro?” gli occhi brillano di una strana luce, e come se si compiacesse di sé.

 

Sentilo! Adesso lo picchio a sangue.

 

“Ehi dico a te! Ci sei? Senti, chiariamo una cosa subito, sei qui di passaggio o pensi di restare? Sai è per organizzarmi. Se resti, sarà il caso che mi cerchi un’altra casa… a me certe promiscuità non piacciono. Ma forse a te, dopo il tuo soggiorno a New York – con quel signorino tanto per bene – piace anche l’idea di una possibile triangolazione? Prima però voglio sentire il mio amico, non credo che a lui possa piacere l’idea…” il sorriso è ormai un ghigno, già assapora la vittoria di averla lasciata senza parole.

 

“Ma non ti secca mai la lingua? E di dire scempiaggini non ti stanchi mai, o sono le uniche cose che riesci a pensare? Certo che non sei cambiato molto… zotico, cafone, e pure porco eri e tale sei rimasto!”

 

Mi sembrava strano che se ne stesse zitta, meglio così… così c’è più gusto.

 

“Meno male che rispondi! Per un attimo ho pensato il peggio. Comunque, complimenti… mi dimentico sempre che sei una signora! Bella la maglietta di Superman, cos’è un velato complimento alle doti del bel uomo dormiente?”

Che sei venuta a fare Oscar, che ci fai qui… Presuntuosa come il solito, non ti fai viva da anni e pensi che il posto sia ancora libero e disponibile, vero? Che vuoi fare? Ok, ti sei svegliata e ti sei fatta furba, sei tornata… ma per fare cosa? Stai attenta, io non ci casco…Guarda che solo provi ad usarlo, a fargli del male, ti prendo a schiaffi, e a calci ti butto fuori della sua vita per sempre.

 

“Manco ti rispondo!”

Ma che vuoi? Ma tu cosa ne sai? L’ho capito che ti senti il suo custode, il suo amico, suo fratello. Da quando sei arrivato ti sei messo in mezzo, e giù veleno contro di me. Ma ricorda che io c’ero prima, ci sono adesso e forse ci sarò anche dopo di te…Senti avrò sbagliato, e l’ho fatto, ma non sei tu dovermi perdonare, è André che deve decidere se mi vuole ancora. Sono qui per questo.

 

I due si scambiano sguardi taglienti, le poche acide parole dette ne nascondono altre covate negli anni di separazione, ognuno ha il suo rancore e lo risolve nel muto flash di luce fredda del frigo[2]

 

“Sinceramente mi aspettavo qualcosa di più velenoso, ma si vede che la latitanza ti ha cambiato. Sei stata bene in cattività?” il sorriso da schiaffi ormai illumina a giorno la cucina.

 

“Non sono affari che ti riguardano… e dimmi, invece, come vanno le ripetizioni mattutine, hai imparato a giocare? E’ brava la maestra? Forse è solo furba, più di te, anche se non ci vuole molto. Mi sembra ti abbia rigirato per bene. Prima avevi una faccia… tutto tenero, addolcito… completamente rincitrullito!” alle parole segue una breve carezza che si conclude con un pizzico, non molto gentile, alla guancia.

Vuoi giocare? Prenditi questa… non pensavi che André mi avesse raccontato degli scacchi? Ci sei rimasto male, eh? Pensavi di essere l’unico a sapere certe cose?. Invece, invece ed invece il caro ragazzo mi ha detto qualcosa di te, brutto maschilista uterino. Meno male che c’è qualcuno che ti mena per il naso, casanova da strapazzo.

 

“Ehi signorina giù le mani! Questa è merce rara. La mia – calcando con la voce sul possessivo - bella maestrina un giorno te la presenterò, se vuoi? Sai ti potrebbe essere utile e non solo per giocare… - poi allungando la mano verso la bottiglia e sfilandola senza problemi, da quella stretta senza convinzione – senti, non te l’ha mai detto nessuno che bisogna chiudere il frigo? Grazie della Perrier, avevo proprio sete”.

Adesso ti stendo e che cosa credi di tornare di botto e fregarmi l’amico. Tu non ci sei stata in questi anni, c’ero io e c’era lui, poi questa è casa nostra. Pardon, sua. Non sai tutto di lui, non più!

“André non beve l’acqua fredda presa dal frigo, c’è la sua bottiglia accanto alla bilancia. Poi preferisce quella naturale!”

 

La stanza affonda nel buio, appena si chiude l’anta del frigorifero, le pupille non fanno in tempo ad abituarsi allo scuro, quando la debole luce dei faretti della cappa tinge di giallo tutto l’ambiente. Il terzo incomodo tra i due litiganti avanza senza indugio, e senza vergogna, indossando un paio di pantaloni di maglia blu con tre strisce bianche sui fianchi, scalzo e senza maglietta. Sorridente si avvicina ad un pensile, prende un bicchiere e si versa l’acqua, proprio dalla bottiglia indicata da Alain. Oscar si trova in mezzo a due fuochi, da una parte il villano, tutto vestito con jeans e lupetto scuro, dall’altra, mezzo svestito e tutto arruffato il suo André. Mai come in questo momento si sente un’estranea nella sua vita, nella loro… sarà stato il particolare dell’acqua, sarà il vederseli lì tranquilli in una situazione imbarazzante… Chissà quante volte sarà successo. Mentre André alza il bicchiere Alain gli risponde con la bottiglia, brindano alla salute, forse alla loro.

 

“Ragazzi buoni, non azzannatevi! Non è questo il modo si salutarsi tra amici”.

Si avvicina lento, e pigro appoggia le mani sulle spalle di Oscar, poi le soffia un bacio tra i capelli.

“Scusa, sono stato proprio maleducato… hai sete?”

Se non fosse perché possiede quel tono, quella voce tanto cara, gli risponderebbe per le rime, ma non c’è cattiveria o malignità nella domanda e tanto meno nel gesto. André offre l’acqua ad Oscar dallo stesso bicchiere.

“Sì grazie” risponde lei, facendo ben attenzione ad appoggiare le labbra nello stesso suo punto, così l’acqua sembra anche più buona.

 

“Bene piccioncini, io vi saluto, credo che abbiate cose più importanti da dire e da fare. Mi ritiro nelle mie stanze” il tono canzonatorio è accompagnato da un altrettanto canzonatorio breve inchino, mentre l’alta figura si smaterializza nel buio del salotto.

 

“Lo sai che insieme siete odiosi! Ma perché lui riesce sempre a tirare fuori il peggio di te? Chissà quante volte vi sarete trovati in situazioni simili, magari ci avete fatto pure il callo” si gira di botto, con il bicchiere ancora in mano.

“Ma sei gelosa?” il tono dolce insieme al morbido del palmo che preleva la potenziale arma dalle mani di lei.

“Io? Figurati, sono la persona meno gelosa che c’è sulla faccia della terra ed oltre… tu piuttosto non ti vergogni?”

Gelosa io? Io di chi dovrei essere gelosa? Lo sono di quei due metri d’amico e del vostro intendervi al volo. Complici.

 

“Scusa di cosa dovrei vergognarmi?”

 

“Non ti scusi?” le mani sui fianchi e negli occhi una certa ostilità.

 

“Questa poi… non ho ancora capito di cosa mi devo vergognare, che già ho fatto qualcosa per cui mi devo pure scusare…”

Ma allora ti si è sciolta la lingua… Ecco che ti riconosco, ma quante volte me le hai dette queste cose? Tante, poi ancora una volta adesso… A cosa stai pensando?

 

“Ecco, vedi che a stare con quello là sei diventato anche tonto…”

E chissà quante altre cose avete fatto e quante…ve ne siete fatte. Oddio, che brutto pensiero e poi da che pulpito.

 

“Scusa… ti scaldi troppo, per me sei gelosa ed anche tanto… mi sembra…”

 

“Ecco, vivi così che rimani nell’incertezza, ma lo sai che sei proprio scemo!”

Certo che sono gelosa… con quello poi. Mi vuoi ancora bene, André? Lo so che mi ami, questo lo so… ma io voglio essere anche la tua Amica… come quando eravamo piccoli, come quando non c’era quello che si crede il top del desiderio femminile… Giochiamo, solo noi due?

 

Oscar schiva il tentativo di riconciliazione e con passo marziale lascia André, che ride sotto i baffi che non ha. Il riso provoca una reazione impensata, la ragazza bionda si ferma all’altezza dello stipite, poi si gira con fare ammiccante e gli parla.

“Beh, che fai? Hai intenzione di ululare al frigo? Non hai proprio di meglio da fare?” due sbattute di ciglia, per sottolineare l’ovvio.

“Beh, vediamo se riesco a farmi perdonare…” due passi per raggiungere l’altra metà del cielo, ed una risata di cuore per sciogliere ogni dubbio.

Lo sai che ti amo? Lo sai che per me sei sempre quella peste di bambina con cui giocavo? Sì, che lo sai!

 

Dopo, quando il respiro torna tranquillo ed il cuore abbandona il galoppo per tornare al passo, arriva il momento di parlare, di chiarire certi aspetti della vita.

Per lei è fondamentale, sente che se non lo farà ora, forse non ne troverà più il coraggio e la sincerità. Le sembra di vivere un uno spazio tempo bloccato e mescolato, un venerdì di quasi sei anni prima con una domenica mattina dell’anno in corso. Insieme. Ancora una volta.

La testa abbandonata nel vuoto della spalla, il pulsare delle vene, il sentire la pelle di lui sotto di sé, inanellare le ciocche scure tra le dita, e ricordare i ricci che aveva da bimbo, ribelli e perennemente davanti agli occhi.

“A cosa stai pensando?” la domanda le accarezza il collo come un vento leggero, insieme al velluto del respiro.

“A tante cose tutte insieme”.

“Uhm, interessante e come dire: “Tutto e niente”. Ti va d’essere più esplicita o vuoi rimanere sibillina per il resto della giornata?” la mano scivola dalla nuca, al collo, alle scapole e si trasforma in un solco, guidato da un solo dito, che scende per poi risalire e scendere di nuovo.

“Dai, mi fai il solletico… ti fermi o no?”

“No! Poi lo so che ti faccio il solletico, mi rispondi?”

“No!”

Alla fine si scatena una piccola lotta fatta di finte e antiche paure, come quella del solletico… di cui basta solo l’ombra del dito a suscitare movimenti inconsulti ed un riso irrefrenabile.

“Shh! Se ridi così, chissà cosa penserà Al… potrebbe anche entrare di botto nella stanza!”

“Fermati! Smettila! Lo sai che soffro il solletico, fermati! Poi quell’orso dorme come un sasso, anzi russa talmente forte che le mie risa gli fanno un baffo… Fermati di prego!”

“Mi racconti?”

“Va bene, tanto avevo già deciso di parlare… dovevo solo trovare le parole”.

 

André si ferma subito, quella frase gli fa male, immagina di essere arrivato alla fine. Ormai non riesce più neanche a sperare che non sia così. Ancora una volta. Da solo.

Nella luce rosata della mattina appare chiaramente il buio di quegli occhi, prima così luminosi. La lascia subito, come se scottasse e si siede con le gambe chiuse nelle braccia, il lenzuolo si tende tra le ginocchia e lui rimane lì, pronto ad incassare l’ultimo addio.

Lei sente freddo, nonostante sia sepolta dalla coltre, e capisce di averlo turbato. Come un sasso troppo grosso gettato nel lago, quelle parole hanno alzato troppa acqua, svelando un’antica cicatrice. Ecco, la colpa di essere sparita ritorna prepotente, ritorna quel venerdì con tutto il suo dolore. Stavolta è lei che si avvicina, sperando di essere il più dolce possibile, gli passa dietro e lo avvolge con le gambe e braccia, forza la testa verso il suo petto, scosta i ricci dalla fronte e vi appoggia le labbra.

E’ giunto il momento di parlare, e lui l’anticipa.

“Te ne vai, ancora? Se te ne vai, per favore, non tornare più!” la voce trema per lo sforzo, gli occhi sono stretti come a proteggersi da troppa luce o altro.

 

“Non ho intenzione di andare via, mai più! Io voglio restare, ho già sprecato tanto tempo, ho sbagliato già tanto tempo fa… ho sciupato così tanto la nostra vita... André… io voglio rimanere, voglio stare qui con te. Basta scappare. Tu mi vuoi, ancora? Vuoi provare ancora a fidarti di me?”

Le labbra premono sulle tempie, come per imprimere meglio le parole dette… che rimangono come sospese nel silenzio.

“Non m’illudere, nessuno merita di essere illuso. Se devi andare, fallo ora! Non raccontarmi storie per addolcire la cosa…”

“Non voglio andare via!”

“Lo sai cosa intendo, io? Lo sai cosa intendo con… non mi lasciare? Non mi lasciare!”

“Io so che ho trovato il mio tesoro. Ti ricordi la parabola del contadino che trova lo trova nel campo affianco al suo? Vende tutto quello che ha per comprare quel pezzo di terra, perché ha scoperto che lì c’è un immenso tesoro e del resto non gliene importa nulla.

Perdonami. Scusa. Io ho sbagliato e ti ho fatto del male, ma adesso che ho trovato il mio tesoro, e sei solo tu, non ho più bisogno delle cose vecchie. Le ho tutte lasciate. Ti prego André… tienimi con te, fino a quando vorrai…”

“Lo sai cosa ti chiederò di fare?” vago ed allusivo, ma anche prepotente nel schiacciarla contro la testata del letto.

“Posso immaginarlo…” cercando di sguisciare fuori dalla presa.

“Prevedi il futuro? Lo sai che…” un pizzicotto sui reni gli blocca il fiato.

“E piantala con questo “lo sai” di qui e di là… Insomma, me lo chiedi in modo esplicito o devo andare a guardare i fondi del caffè?” ormai passata davanti si prepara alla lotta.

“Ma guarda che serpe allevata in seno…” lo sguardo brilla di nuovo, ma la domanda bisogna farla.

“Perché sei andata via quel venerdì? Sapevo che dovevi partire, me lo è venuto a dire anche tuo padre… ma sinceramente, speravo di averti fatto cambiare idea”.

“Me lo chiedo anche io. Perché sono andata via? Lo hai letto il diario? Sai… in fondo io questo letto non l’ho lasciato mai, ci ho lasciato il cuore. Sono andata via proprio senza cuore, l’ho lasciato a te. Sono stata vigliacca ed ho preferito un sentiero già tracciato, per quanto fosse orribile, invece di prendere una strada nuova”.

“Non mi stai dicendo tutto. Non ti fidi? Oscar… se vuoi rimanere devi imparare a fidarti di me, in tutti i casi e davanti a tutte le situazioni”.

“E’ vero. Una cosa l’ho taciuta. Oltre alla mia vigliaccheria… c’è un motivo…”

“Dimmi”.

“Un motivo venale, schifosissimi soldi. Dopo l’approvazione del vostro progetto… mio padre si è accorto di uno scoperto… No! Non è neanche così. Mio padre si era fatto accecare non so da quale demone, anzi lo so benissimo… lo stavo anche per sposare… insomma, si stava per giocare tutto ed Hans era l’unica soluzione. Poi ho capito che oltre che la soluzione era anche la causa, insieme con un altro emerito del prestito ad usura. Non so come siano riusciti a rigirarlo… in pratica si è ipotecato lo studio e tutti i beni immobiliari per una manovra finanziaria suicida, non solo… anche la riuscita del progetto era compromessa. Il finanziere sapeva già del fallimento della proposta avanzata dallo studio di mio padre, e così mi sono trovata in mezzo anche io. Una sorta di risarcimento vivente. Questo l’ho scoperto solo dopo l’incidente di Hans, quando mi sono capitati per le mani alcuni documenti. Reynier mi ha spinto nelle braccia di Hansel, per tanti motivi… alcuni forse da attribuire all’indole del padre premuroso, altri dettati dalla paura di perdere tutto, dalla vergogna e non so cos’altro.

Io come un’oca sono caduta ai piedi di Hans… e poi, dopo di te… mi sono costretta ad andare.

Ma adesso ho saldato il mio debito, quello di mio padre, Hans non può più avanzare risarcimenti. Siamo pari e in pace. Io non lo disturberò più e lui non lo farà con me. Siamo custodi di scomodi segreti. Sono libera, e da donna libera ho scelto, senza nessuna costrizione, di tornare su questo letto con l’unica persona con cui voglio invecchiare. Sempre che tu mi voglia ancora”.

“Lo sai che ti vorrò sempre! Grazie della fiducia. Immaginavo che ci fosse qualcosa sotto. Quel venerdì, ho incontrato tuo padre e l’ho visto diverso, amareggiato, battuto, ma non per l’ex-caserma. Era schiantato dentro, poi ho fatto qualche ricerca… e mi sono accorto che tanti degli sponsor del suo studio dipendevano da poche multinazionali, tutte legate tra loro… una sorta di cartello, di fratellanza. La Fersen & C. risultava essere nel c.d.a. di queste ditte, nella persona stessa di Hansel, anche se occultata da qualche prestanome. Quel giorno Reynier mi è sembrato l’insetto intrappolato nella tela del ragno”.

“Da quando ti sei dato alla finanza?”

“Da quando hanno cercato d’impedirci di presentare il progetto, dai vari ammonimenti, agli incidenti senza motivo… da quando abbiamo iniziato a lavorare all’ex – caserma. Poi tutto si è placato, qualche sporadico incidente, come quello della macchina esplosa qualche anno fa. A volte mi sembra la quiete prima della tempesta”.

“Non lo sapevo…”

“Non ci sono problemi adesso, grazie anche all’articolo di Julia, forse proprio per quello, l’amministrazione ci ha rinnovato il contratto e le cose funzionano. Poi siamo sotto gli occhi di tutti, un vanto per la città. A volte penso che lei lo abbia fatto apposta, ha usato il potere della stampa per blandire l’opinione pubblica. Ci ha esposto per proteggerci. Anche se non capisco il perché… saranno solo sensazioni, ma credo che lei sappia… qualcosa… o che stia inseguendo qualcosa…”

“Devo proprio conoscerla questa ragazza. L’articolo l’ho letto, ma non avevo capito che fosse la stessa ragazza di Alain, in fondo si firma J. R. Anche se il sospetto che fosse una donna, l’ho avuto. Vi ha rubato certi sguardi, ne sono stata anche gelosa”.

“Perché? Guarda che non c’è mai stato nulla… e poi quei due si sono presi subito”.

“In che senso?”

“A guardarli fanno ridere. Sembrano una coppia di lunga data senza esserlo ancora. Lei che lo prende per il naso e lui che ci sta. Ho quasi paura per lui, è così trasparente… mentre lei mi sembra dubbiosa”.

“Parli di Al come fosse un bambino ingenuo e puro. A me sembra piuttosto un rimorchiatore incallito, un dongiovanni della peggiore specie… uno di quelli che a sera fatta si segna una tacca in più sul braccio”.

“Ma dai, guarda che non ha mai illuso nessuna. Tutte quelle che sono passate da lui, sapevano a cosa andavano incontro. E’ vero, per anni non ha voluto nessuna storia, nessun impegno, ma questo lo ha sempre dichiarato. Vorrebbe non credere più, ma in fondo crede ancora. E’ il miglior amico che si possa avere, è buono, davvero… buono dentro”.

“Mi fido sulla parola, in fondo ci litigo tanto perché so che è importante per te, il miglior amico… un tempo ero io”.

“Non essere sciocca, tu sei ancora la miglior amica, ed ora la mia splendida amante, e se ti và potresti anche essere la mia unica moglie. Vorresti provare?”

“Me lo chiedi così? A tradimento!”

“Se vuoi faccio domanda in carta bollata…”

“Scemo!”

“Allora?”

“Fai domanda in carta bollata, che poi ti rispondo di sì con raccomandata e ricevuta di ritorno!”

“Che scema!”

“Siamo in due!”

 

Un esagerato sordo bussare rompe il gioco di risa dei due complici, appena ritrovati ed ancora insieme.

“Ehi voi due! Fate poco casino, che qui c’è gente seria! Ma per Bacco, cosa volete saltare anche il pranzo, oltre che la cena? Datevi una mossa, che è già mezzogiorno, il sole è alto ed io non ho voglia di mangiare da solo. Forza, Romeo e Giulietta che già cantano le allodole”.

 

Sembra di essere tornati agli anni dell’università, quando Oscar piombava a casa dei due, con la scusa che lì si studiava meglio, e che le portava bene stare con loro i giorni prima dell’appello. Tutti e tre in cucina, nella luce del giorno fatto con la radio che accompagna i movimenti del quotidiano.

“Cosa? E da quando ti metti a fare torte? Ehi André ma sei sicuro che sia commestibile? Io non mi fiderei, magari ci ha messo della stricnina dentro… così solo per avvelenarmi”.

“Ma sei proprio un malfidato e pure egocentrico. Guarda che la torta l’avevo fatta per la cena a DUE di ieri sera, tu non eri previsto… manco pensato”.

“Buoni, state buoni. Io di questa bellissima torta, ora me ne mangio una fetta… magari due. Anzi ci ripenso… me la mangio tutta io, sul divano da solo”.

“Egoista! Dai me ne lasci una fettina?”

“Ma che sia sottile, altrimenti non rientrerà più nei vestiti di ieri sera. Oscar… ma da quando sei una buona forchetta? Ti sei spazzolata via tutto il filetto nel piatto… Ma che ti prende?”

“E tu? Da quando stai lì con la forchetta a mezz’aria, e l’occhio sul cellulare! Perché… non la chiami tu, così ci risparmi il siparietto del gigante timido”.

“Guarda che ingrassi, quella fetta è enorme e ti si fermerà tutta nei fianchi!”

“Balle! Faccio un sacco d’attività fisica io! Di giorno e di notte! Non come certi bambinoni che vanno in bianco”.

“André, dammi una mano… io non la reggo. Nelle varie performance notturne, non le daresti una tiratina d’orecchi. Santa pace Oscar, sei noiosa come una zanzara, in camera da letto a ferragosto”.

L’uomo alto quasi due metri scompare in salotto, tra le mani tieni il telefono che vibra leggermente. Gli amici si sono accorti anche del sorriso, comparso mentre diceva le ultime parole, enorme che toccava entrambe le orecchie.

 

Oscar si siede sulle ginocchia di André, felice di un poco d’intimità pacifica, ruba un pezzo di torta dalle mani di lui e lo addenta con gusto. La torta le è venuta proprio bene, non ci sperava.

“Ma allora avevi ragione… è proprio cotto. Non c’è nemmeno gusto a litigarci, così è troppo facile”.

“Ma quanto sei cattiva, non riesci proprio a deporre l’ascia di guerra? Guarda che se anche vi continuate a beccare, si capisce lontano un miglio che in fondo gli vuoi bene”.

“Molto in fondo. Poi l’amico è il tuo, al limite cerco d’essere cortese”.

“Sì, ecco mi sembra che cortese, sia proprio la parola adatta per descrivere il vostro rapporto”.

“Certo, ci detestiamo cortesemente!”

 

Alain rientra in cucina, osserva gli amici stretti l’uno all’altra mentre si litigano l’ultimo pezzo di torta, è uno scontro di forchette, di leggeri tintinnii. Sono belli insieme. Lo sono sempre stati, sembrano fatti apposta per stare insieme, questo lo ha sempre pensato… fin da ragazzo. Anche oggi, ancora una volta.

Siate felici, ve lo meritate. Siete fortunati, tenetevi stretti.

Un pensiero dolce ruba la scena alla preoccupazione, in fondo vederli felici fa bene al cuore. Si chiede se anche a lui sarà concessa la stessa grazia, spera di sì ed ancor di più spera che lei stia bene.

“Ragazzi vi lascio soli a folleggiare”.

“Dove vai?” in coro ed allusivi.

“All’ospedale, stamattina Julia è stata male. Adesso è al centro trasfusionale. Vado, appena so qualcosa di più preciso vi avviso”.

 

Li ha lasciati a bocca aperta, non era certo quello che si aspettavano… beh, neanche lui si aspettava una domenica così.

 

 

Adesso posso respirare, mi sento meglio e vederti addormentata, qui con me sul nostro divano, mi rincuora. Non ci posso credere, sono le cinque del pomeriggio, di già? Tu Julia dormi, che oggi non è stata una bella giornata. Per fortuna che c’erano i ragazzi… sono in gamba. Julian ha rischiato che gli rompessi il naso, quel bel nasino tutto fine. Non avrei mai creduto, non capisco se è geloso o se sono solo io che gli sto sulle palle.

Adesso è tutto passato, però un ceffone glielo avrei dato volentieri. Ma che tipo.

Quando sono arrivato, dopo che Luc mi aveva aperto, l’ho visto sgridare Julia. Non credo sia il termine giusto… era calmo, ma le stava rovesciando addosso una colata di veleno. Mi è quasi sembrato che la volesse ingabbiare. Per fortuna Ju non è tipo che le manda a dire. Feroce la bimba. Solo che per un pelo non sviene un’altra volta. Grazie a Luc, ad Elia, a Margot e a quel genio di Jona. Sarà il più piccolo… ma, per me, è anche il più scaltro. Adesso sono fuori con lo zio Jul a trovare non so quale altro zio, poi devono andare prendere Roman e Liviane, mentre il sottoscritto fa la balia alla cara zia Ju, che se la dorme di gusto. Ma che tipa! Prima di crollare, mi ha dato dell’endorfina mescolata alla niaprazina… Questa poi, non me l’aveva detta mai nessuno.

 

“Ma lo sai che mi fai dormire bene… è come mescolare l’endorfina con la niaprazina, sei un calmante che rende felici, il sonno con il sorriso”.

 

Poi è crollata di botto, come se fossero tre giorni che non chiudeva occhio.

Dormi piccola, ma quanto sei piccola tutta rannicchiata, appoggiata alla mia spalla. Quanto mi piace il tuo odore, sai di buono, di dolce e amaro come le mandorle. Hai i capelli ancora un po’ umidi dalla doccia, ma già li hai chiusi nella coda. Le guance sono come pesche, morbide e dorate, senza trucco. Dormi Julia, ci sono io con te. Mi piace guardarti mentre dormi, mi piace sapere che ti puoi addormentare serena con me, che ti fidi.

 

 

Continua…

 

pubblicazione sul sito Little Corner del luglio 2006

 

mail to: tania.t@inwind.it

 

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[1] Gianna Nannini, “Sei nell’anima”, dall’album “Grazie”.

[2] Il confronto verbale davanti al frigo è il frutto di un lavoro a quattro mani, con Luana, che ringrazio per la carica che mi regala sempre con i suoi consigli.