Camelot

Parte III

 

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Nota dell’autrice: un sincero grazie a Laura e Maria Assunta, che hanno avuto la pazienza di sopportare questa penna avara e l’hanno spronata a sciogliere alcuni nodi troppo stretti.

Il ringraziamento è retroattivo, si riferisce anche ai capitoli precedenti ed ovviamente a quelli che verranno.

  

SENZA PAROLE

 

 

Mi hai lasciato senza parole ed ora sono senza parole, pensavo di avere capito quale fosse il mio ruolo e quale il tuo, credevo… di essere io a decidere, a pensare, invece eri tu che mi facevi credere che fossi io e nel frattempo davi il tempo, che era il tuo ritmo. Sei tu il maestro ed io solo la pedina, neanche l’allievo… perché mi hai usato ed io mi sono lasciato usare, senza nemmeno pormi il dubbio. Stamattina, ti ho mangiato l’alfiere e talmente orgoglioso della mia mossa non mi sono accorto del tranello… ho vinto una battaglia e tu la guerra, hai fatto scaccomatto, con me al posto del re.

Credevo di vivere mentre, in realtà, stavo guardando dentro la tua bugia per me, ed oggi ho scoperto che è una malattia dalla quale non si guarisce… mai! Ho cercato di convincermi che tu non ce l’hai[1], poi ho visto dentro casa tua ed ho capito che è stata una follia, pura follia, pensare che tu fossi soltanto mia[2]. Dopo sono uscito ed ho camminato, c’era il sole, ed ho camminato tanto, fino a quando non ho più pensato a tutte queste cose[3].

Il sole era alto e bello, come può esserlo solo nelle terse mattine d’inverno, quando il suo calore è l’unica tregua alla fredda lama del vento, mi sono fermato davanti all’ex caserma, pronto per andare in studio, ma ho tirato dritto, perché non avevo parole da spendere con nessuno.

Ho camminato ancora ed ancora, fino a quando sollevando il capo ho incrociato due occhi scuri e densi come i fondi del caffè. Lì mi sono perso… e guardando dentro quell’emozione ho visto così tante cose[4], che ho fatto quello che volevo fare già da quella prima volta, mi sono avvicinato a quei segni allineati, affondati nel rosso della carne, ed ho saltato la staccionata bianca, poi ho smesso di pensare… ed anche tu, Julia.

 

Ci sono giorni che ti succhiano l’anima e che ti lasciano sfinito, svuotato; giorni dove devi trovare la forza di parecchi anni in sole ventiquattro ore, giorni come oggi.

 

Dopo aver lasciato Cassel, ci siamo diretti verso il bel portone del tuo palazzo, varcata la soglia ho seguito la tua coda di cavallo attraverso l’androne e poi sulle belle scale di marmo rosa, abbiamo percorso il pianerottolo dell’ammezzato, dove lucide targhe di ottone davano il nome ad una serie di portoncini di rovere tutti uguali e lustri. E’ bastata una rapida occhiata ai cognomi incisi, per capire che mi trovavo davanti ad una sfilata dei più noti professionisti della città. Chi non conosce, almeno di fama, i notai Calder, il vecchio barone universitario ed il riservatissimo figlio, custodi dell’upper class parigina; senza parlare di Ardant, cardiologo talmente famoso da ricevere clienti da tutta Europa?

“Alain? Che fai? Guarda che è già tardi, vedi di darti una mossa! E’ tardi!” la tua voce, secca e acida, mi richiama alla realtà. Siamo a metà settimana e sono quasi le sette ed un quarto, tra breve ci aspettano nei rispettivi uffici… effettivamente, non è forse il giorno migliore per “pagare il fio”.

Il tuo passo si affretta, agilmente fai gradini a due e due, in poco siamo al primo piano dove riconosco il portoncino del pasticcere e quello di suo figlio, più in là noto la targhetta “Ricci – Label” e ti supero arrestandomi davanti a quella porta, ti sorrido e penso: “Vedi siamo già arrivati!”.

Il solco sul mio viso piega, irrimediabilmente, verso il basso, mi sei passata davanti e con uno sguardo atroce mi hai superato, dirigendoti verso le scale. Mi hai gelato.

I nostri passi solcano velocemente i bei quadrati bianchi e rosa del pavimento, il marmo levigato è leggermente cerato ed ogni tuo passo è accompagnato dallo stridere delle suole di gomma. Ti fermi davanti al primo portoncino, il campanello recita: “Calder Roman – Label Liviane”, ti guardo con un grosso punto interrogativo dipinto sul viso, mentre tu liquidi il mio dubbio facendo spallucce ed aprendo la porta.

Davanti a noi si apre l’ingresso ovale e dal soffitto voltato, ai quadri bianchi e rosa del corridoio si sostituisce una candida distesa arricchita al centro di un motivo floreale realizzato con marmi policromi, di fronte si aprono due ampi archi ribassati che conducono nel salone. Sul lato destro sopra al camino, si trova un torso di Mitoraj e una sfera di Pomodoro, e davanti sono disposti tre divani chiari a C intorno ad un tavolino di palissandro dall’aria coloniale, i tendaggi abbondanti e cangianti rendono l’ambiente raffinato, ogni suppellettile è sapientemente disposta, ogni oggetto è un pezzo d’antiquariato o d’arte, mi sembra di essere finito dentro un servizio di AD.

Sono spiazzato e ti guardo, non vedo nessuna possibile connessione tra questa casa e quello che so di te.

“Alain, vieni di qua, la cucina è da questa parte” senza aggiungere altro mi prendi per la giacca, e mi conduci oltre una grande porta sul lato sinistro dell’ingresso. Qui si passa ad un ceratissimo parquet di rovere, davanti a me una consolle… di non so quale Luigi…ed un rugoso paesaggio romano illuminato da uno spot, mi salutano svogliatamente mentre mi trascini verso un’altra porta, stavolta di dimensioni standard.

Siamo in cucina: ambiente ampio e luminoso, i mobili sono di un delicato color crema dall’aria leggermente country, tutto è lindo ed ordinato, nulla è fuori posto, poco più in là si trova un gran tavolo di noce col ripiano di marmo di Carrara, sopra è apparecchiato un piccolo buffet di biscotti, cereali e frutta, ci sono anche delle tazze… una, due, tre, cinque tazze?

“Julia, non capisco… ma tu vivi qui? Ma quanti siete?” sorridendo ti lavi le mani nel lavello e le asciughi con il piccolo asciugamano appoggiato lì accanto, poi ti dirigi ad un pensile e tiri fuori un’altra tazza, bianca ed immacolata come le altre, dopo tocca al piattino ed al cucchiaio, apparecchi per me e poi…

“Beh Alain, con te oggi a colazione siamo in sei ufficialmente, poi in via ufficiosa si aggiungeranno altre tre persone!” mi sorridi con aria innocente.

Dopo continui, mentre metti sul fuoco l’acqua ed il latte: “Sai, ultimamente mi sono trasferita all’ultimo piano, solo che l’appartamento aveva bisogno di qualche modifica… poi mentre i lavori procedevano si è rotto un tubo del riscaldamento. Guarda un disastro! Mi si è gonfiato tutto il parquet e l’acqua è passata al piano di sotto, un macello. Così quello che doveva essere un lavoro di poco tempo, è diventato un trasloco… ed io mi sono trovata senza un tetto ed anche senza un pavimento. Così zia Livy mi ha ospitato e tuttora continua ad offrirmi asilo”.

Sorridendo mi porgi la tazza con la cioccolata, scosti una sedia e avvicini i biscotti, mi fai accomodare ed aggiungi: “Dopodomani dovrei rientrare in possesso di casa mia e togliere il disturbo da qui. Sai… non vale sempre il motto carpe diem…”

Ti guardo smarrito, mentre fingo di sorbire la bevanda e mentalmente mi do del brocco, tu tranquilla prosegui: “Scusa, lo so che non è buona educazione, ma tra breve dovremo uscire ed io non mi sono ancora preparata. Vado a fare la doccia, ti lascio solo per poco… tra breve arriveranno gli altri… non preoccuparti sanno chi sei. Ciao!” scappi lungo il corridoio di  rovere ed anch’io vorrei fuggire, ma sono inchiodato alla sedia.

Abbasso gli occhi e cerco di farmi coraggio, speravo in una tranquilla colazione a due ed invece mi trovo nel bel mezzo di una riunione familiare… sette parenti, tutti in un colpo, potrei non reggere. No!

Una strana vocina mi riporta alla realtà: “Ciao, tu devi essere Alain, vero? Lo sapevo che eri uno frettoloso, hai mangiato l’alfiere, vero? Errore gravissimo, hai giorni contati, due o tre poi perderai il re!”.

Davanti a me, due occhi chiari, cerchiati dal giallo di un paio d’occhiali, mi scrutano con fare attento, si tratta di un bambino di dieci anni circa, con una bella zazzera tra il biondo ed il castano, il nasino dalla punta arrotondata ed il sorriso di un furetto.

La vocina continua: “Ciao, non mi sono presentato, mi chiamo Jona e sono il cugino di Julia. Sai, Liviane, mia madre è la sorella di Roxanne, madre di Julia. Zia Rox era più grande di mia mamma e così Julia e Julian, che sono miei cugini, in realtà sembrano degli zii. Poi da sempre zia Ju  è zia Ju…”

Il torrente di parole del soldo di cacio occhialuto mi stordisce, mi sembra di annaspare ed allora lo fermo: “Scusa Jona, hai detto Julia e Julian?”

“Certo, zia Ju ha un fratello gemello, Julian. Si somigliano un sacco nell’aspetto, ma di carattere sono l’opposto. Poi, sai, ci sarebbero stati anche Xavier e Camille, che erano i fratelli più piccoli…”

Parlando il piccolo furetto si serve la cioccolata ed una buona manciata di biscotti, poi si accomoda di fianco a me. Ma una frase è rimasta a mezz’aria, data la loquacità del bambino non mi faccio scrupoli e chiedo.

“Scusa Jona, ma perché parli al passato? L’ho visto il portone di Julia, il campanello è quello Ricci – Label, vero?”

“Hai visto cosa? Il portone con il campanello. La casa è vuota da cinque anni, ormai sei. Parlo al passato perché gli zii non ci sono più! Sono morti nell’incidente, sono morti tutti sul colpo tranne Julia. Lei si è salvata, è stata in coma per tre mesi poi un giorno si è svegliata, alla faccia di quelli che la davano per spacciata. Io avevo quasi cinque anni, ho un ricordo vago di zio Enrico, di Roxanne, di Xavier e Camille” mi manca il fiato.

Adesso capisco il perché di quell’occhiata, ma io non sapevo, non potevo immaginare…

Alla vocina petulante si aggiunge un’altra persona.

“Jooonaaa, dai piantala di parlare! Accidenti! Sono solo le sette e trentacinque e già chiacchieri a tutto andare, ma non ti si secca mai la lingua!” mi giro e provo a sorridere.

“Ciao, tu sei Alain, vero? Io sono Margot, sorella del grillo parlante”.

Una ragazzina di quindicianni mi osserva ostile, o meglio mi squadra, assomiglia a Jona ma ha colori diversi, più scuri, indossa la divisa del Kinder College.

“Ciao Margot, piacere di conoscerti. Sono Alain, vi chiedo una cosa… è stata Julia ad avvisarvi della mia presenza qui, oggi?” azzardo con finta tranquillità.

“Ma allora sei proprio tonto! Certo che no! Zia Ju non lo farebbe mai, non chiamerebbe mai qualcuno in casa. E’ stato Cassel a raccontarci tutto, rimanendo la scacchiera al tavolo, chiunque può sapere come siete messi… e tu sei messo male!” incalza Margot, senza pietà.

Senza accorgermene penso ad alta voce: “Beh, non è certo così che pensavo di iniziare la giornata…”

“Vedi Margot, lo hai offeso… sei proprio una vipera! Non te la prendere Alain, Margot è in piena crisi di ribellione e tratta tutti a pesci in faccia” sono allibito, mi sto facendo consolare da un bimbo di dieci anni… decisamente, non è giornata.

“Buongiorno a tutti, ma guarda… allora hai mangiato l’alfiere! Ciao, io sono Elia, piacere di conoscerti, sei Alain, vero?” ma cos’è un ritornello???

“Sì, sono Alain, ho mangiato l’alfiere e tra due giorni perderò il re. Ciao Elia” rispondo ad un ragazzo alto, tanto alto, troppo alto, a cui non so dare un’età. Lo spilungone indossa anche lui la divisa del Kinder College, quindi dovrebbe essere all’ultimo anno e sicuramente apparterà a qualche circolo sportivo…

“Buongiorno a tutti, allora era vero! Tu sei Alain? Ahi, Ahi, hai mangiato l’alfiere, hai avuto troppa fretta, fretta… Beh! Io sono Luc, piacere d’incontrarti, mi sembra di conoscerti a furia di sentire le radiocronache di nonno Cassel. Attento, se ti comporti male con zia Ju, nonno ti mette nell’impastatrice, sapessi com’è geloso di lei!”

Rimango di stucco, sono capitato in una casa di pazzi scacchisti e di pasticceri/nonni spie…dal banco dei cioccolatini. Dov’è Julia?

“Ragazziiii, oh bene! Vedo che ci siete quasi tutti” annunciata dalla fragranza inconfondibile di Poison, arriva quella che presumo sia Liviane. Cacchio! Bella donna! Un sacco bella.

Alta, snella e soda avvolta in frusciante abito monogrammato C, capelli ondeggianti di un bel biondo rame e occhi chiari, bistrati di nero. Sembra appena uscita dal parrucchiere, trucco perfetto, manicure perfetta… ma come fa con tutti questi figli?

“Ciao, tu sei Alain vero? Piacere sono Liviane” mi alzo, la saluto e lei continua:  “avrai già conosciuto Jona e Margot, i miei bimbi, poi ci sono Elia Label e Luc Cassel, i cugini e poi ovviamente c’è Ju. Ma dov’è Ju?” comprendo a chi assomiglia il piccolo occhialuto.

“Doccia, mamma, Julia è nella doccia”.

“Grazie Jona, Ma non si lasciano gli ospiti soli, santa ragazza, ha il carattere di un orso…”

“Zia Liv, sono qui! Non iniziare a darmi dell’orso da subito. Avevo avvisato Alain! Dopo un’ora di corsa è necessaria la doccia, irrinunciabile!” arrivi con passo sicuro e già imbronciata… non resisto.

“Ciao, orso” aggrotti le sopraciglia e mi guardi torva, rincaro la dose: “permaloso…”

“Non sono un orso permaloso!” ribatti, un velo acida “Hai conosciuto la famigliola… ma manca Jul?” ti guardi intorno…

“Scusate il ritardo, Ciao… ma tu devi essere Alain? Hai mangiato l’alfiere, pessima mossa… con Ju bisogna avere i piedi di piombo, altrimenti ti massacra in due mosse” non ci credo, gli altri si girano e si aggiungono a me nel rispondere: “Sì sono Alain ed ho mangiato l’alfiere…” Jona aggiunge: “Tra due giorni perderò il re!” mi scappa da ridere.

Anzi ci scappa a tutti da ridere e lo facciamo, inizio a rilassarmi.

“Mi presento, sono Julian, fratello di Ju, sì siamo gemelli!” poi aggiunge con fare cameratesco: “Sai, per evitare di ripetere le stesse cose, di solito, cerchiamo di parlare quando ci siamo tutti, così… insomma detto una volta… basta a tutti. Essendo in tanti!”

La colazione prosegue tranquilla, tra un sorso ed un biscotto scopro un sacco di cose… intanto riesco a capire la genealogia Label, e non è poco.

Se ho capito bene: Liviane Label (dentista non esercitante) e Roman Calder (noto notaio) sono i genitori di Margot e Jona. Mentre, dal ramo Label Jaques (dentista esercitante) e Delphine Ardant (avvocato e figlia del cardiologo) deriva Elia, diciassette anni, giocatore di basket e pallanuoto, rubacuori a tempo perso. Passiamo alla linea Label Armand (dentista esercitante) e Cassel Costance (commercialista e figlia del pasticcere), da cui nasce Luc, diciassette anni, compagno di classe, sport e ragazze di Elia.

In fine, il ramo Ricci, il mio preferito: Julian, dentista esercitante, mentre Julia, dentista non esercitante, scrive come giornalista, scatta fotografie per sé e per il giornale e lavora in una radio come speaker… quest’ultimo impiego posso dire di conoscerlo bene!

Scopro anche che, fino a novembre, la ragazza faceva la spola tra Francia ed Italia, paese originario del padre e luogo in cui sono nati e cresciuti i gemelli fino ai dieci anni. Sempre in quel periodo ha deciso di trovare fissa dimora… poi, è successo tutto il resto: articolo, incontro, tubi impazziti ed oggi.

In pochi minuti riesco a raccogliere più informazioni di quanto non sia riuscito in un mese… incredibile, non immaginavo fosse così… insomma cosa ne so io di famiglie, da quando ho vent’anni la mia famiglia è André.

Eravamo in quattro, poi quando avevo cinque anni siamo rimasti in tre, a venti in due e dopo poco sono rimasto solo. André l’ho conosciuto, per caso, a quindici anni nella sala di scherma… siamo diventati amici e subito fratelli. A diciannove anni siamo andati ad abitare insieme, e dopo dodici anni, ormai tredici, viviamo ancora nella stessa casa, che era quella dei genitori di André e dove lui ha vissuto fino ai sei anni, quando rimasto orfano andò con la nonna a palazzo De Jarjayes e lì è cresciuto con Oscar, la sua Oscar.

Strano, ma quando ci siamo visti è stato come se ci riconoscessimo, o forse è stato il comune senso di mancanza ad avvicinarci, a me mancava il papà a lui entrambi i genitori. Poco importa, ci siamo riconosciuti e capiti ed abbiamo iniziato a camminare insieme. Oscar era gelosa, anzi è gelosa e lo sarà sempre, ed anch’io lo sono di lei, perché è parte di André, così come lui è parte di lei, sono cuciti uno sull’altra… appena se ne renderà conto, sono certo che tornerà per lui e da lui… e la nostra famiglia finirà… cambierà.

Adesso sono qui, in questo pollaio di voci, ho conosciuto anche il signor notaio, Roman un uomo simpatico, altissimo, calvo e discreto, con la moglie stanno per partire per un fine settimana lungo e lasceranno Julia a fare da “tata” alla prole, che non vede l’ora di godersi la zia… a dire il vero, me la vorrei godere anch’io la cara “zia Ju”, pazienza aspetterò.

La colazione è terminata, ovviamente è tardissimo, tutti scappano a lavarsi i denti… e quando tornano sembrano atleti pronti allo scatto.

Porco cane, ma sono pazzi! Corrono tutti come dei fulmini, per poco non volo per le scale, Julia che mi tira ed io che ho una certa età… rischio l’ennesima figuraccia. Per fortuna arrivo in fondo tutto intero, mentre la mandria di scalmanati attraversa l’androne verso il cortile interno, da cui s’intravedono alcune macchine parcheggiate. I vandali scompaiono dentro un monovolume nero e lucidissimo dai vetri fumé. Julia li deve portare tutti al Kinder College, in questo momento siamo soli e nonostante la furia della fretta, la ragazza mi concede uno dei suoi rarissimi sorrisi, un mezzo sorriso di chi sente d’averla combinata grossa.

Non resisto.

“Sei proprio una gran bastarda, proprio bastarda dentro!” mi sorride, ed al mezzo solco se ne aggiunge un altro.

“Se dici: stronza,  non mi offendo!” concisa ed efficace, tanto che ribatto: “Stronza!”

“Vedi che non sono permalosa… piuttosto cosa farai domani…”

“Ci vediamo alle sette da Cassel, vuoi?” io non mollo.

“Persisti, errare è umano ma perseverare è…”

“Persisto, dobbiamo finire la partita!” non cedo.

“E quando sarà finita?” mi chiede con occhi d’inchiostro.

“Vedremo…” e adesso ti tengo io sulle spine, ma non guardarmi così, perché ti avvicini?

Il tuo braccio sfiora il mio, non resisto chino il capo e le guance si sfiorano, sei vicina e…

“Alain è tardi, grazie della compagnia, ma ora dobbiamo andare…” schiacci il pulsante per  aprire la porta ed io mi ritrovo sul pianerottolo ad osservare il portone di rovere che si chiude.

  

DEVELOPING OUT PAPER

 

 

E’ venerdì sera e dopo la lettura alla radio di “cuore di tenebra”, Julia torna, mestamente, a palazzo delle corna, questa volta è esentata dal fare la “tata”. Margot dormirà da Ginevre, compagna di classe, in realtà, si tratta di un pigiama party a due in cui l’argomento principe sarà: “I cento colpi di spazzola” possibili sviluppi ed applicazioni; mentre Jona passerà la nottata con Leon a discutere sull’ultimo libro del mago Potter. Tranquillamente si dirige verso l’auto, Alain l’accompagna speranzoso di aggiungere punti al suo score, ha seguito la diretta in radio e si è gustato la lettura come fosse una serenata… peccato che le pagine parlassero di tutt’altro.

Julia non gli ha detto nulla e lui crede che a casa l’aspettino le due pesti… ed ha già messo in conto un, quasi, casto saluto sull’uscio di casa.

Lei è irrequieta, sembra aspettare qualcosa… anche se non ha capito ancora cosa, ma avverte quel prurito, quel pizzicore alle tempie che è sempre foriero di novità, non belle.

Prova a concentrarsi sul perché e sul per come, comprendendo che ha giocato una posta troppo alta, si è fatta coinvolgere, troppo! Non doveva accadere. Prima regola del buon giocatore: mantenersi distaccati, lucidi, non coinvolti. Lei quella l’aveva bellamente infranta nel momento in cui era entrata nello studio A.A.A., nell’attimo in cui si era guardata intorno ed aveva salutato i due intervistati, quando aveva incrociato lo sguardo con quella faccia da Corto Maltese di città alto due metri.

 

Mercoledì, dopo aver accompagnato i ragazzi, era corsa a rotta di collo al giornale, dove aveva parcheggiato, e invece di entrare in redazione si era diretta all’uscita verso il metrò. Sgusciata fuori e all’aria aperta era partita con passo deciso verso l’ex caserma, ad un certo punto aveva corso e poi si era fermata. Lui era lì, con una faccia di chi non ha più parole, lei si era avvicinata e l’aveva guardato… non riusciva a parlare, perché anche lei era senza… parole.

 

Poi era successo e lei non si era tirata indietro, tutt’altro.

Adesso iniziava il difficile.

 

Alain salutò Julia davanti al portone di rovere, fu un congedo lento, vellutato ed un poco arreso, anche se con una punta di speranza. Quando l’anta si richiuse, l’uomo si chiese se il suo posto fosse quello dello zerbino, poi serenamente si avviò alla vettura per tornare a casa. Il piano era chiaro: niente Julia fino a lunedì, poi gli spettava una cena… l’assedio procedeva.

Liquidato a malincuore il Corto Maltese parisien, lei si diresse speditamente verso le cantine.

Un tempo era il locale destinato alla caldaia, poi in seguito ad alcune ristrutturazioni quello spazio venne liberato e divenne il “sancta sanctorum” di Enrico, detto Erri, il padre di Julia: la camera oscura.

Composta di due stanze divise con una pesante tenda nera, nella prima si trovavano: l’armadietto con il rifornimento dei chimici da diluire, la scorta delle carte da stampare, il piccolo frigo con le pellicole, la smaltatrice per stirare le fotografie, un tavolone con la lavagna luminosa, uno sgabello di legno, l’attaccapanni con i grembiuli e due pendule lampadine, una rossa ed una bianca Sempre lì, si trovava il pallet con i cartoni pieni delle bottiglie dei liquidi esauriti, pronti da smaltire. Oltre la tenda, si accedeva alla vera e propria camera oscura, c’erano l’ingranditore poggiato sul tavolo, dove si trovavano il contasecondi, il focometro, alcuni fogli di carta nera, le schede dei tempi di sviluppo, sotto c’era la cassettiera con le scatole aperte delle carte, un mobiletto con le tank e le spirali per lo sviluppo dei negativi, dal lato opposto la lunga vasca, sotto la quale stavano una infinità di bacinelle di diverse misure, le bottiglie con i liquidi già diluiti e pronti all’uso sia per le pellicole che per le stampe, sopra la mensola stavano le pinze, i contenitori graduati per le soluzioni ed il termometro, poi c’era la cappa, col suo mesto ronzare, un orologio alla parete e la radio. Tutto così come l’aveva lasciato Erri… prima di quel giorno, quasi sei anni fa.

Julia aveva ripreso a stampare da tre anni, ormai quattro, ci era voluto molto tempo, prima che ne avesse la forza e il coraggio. Il primo rientro era stato un pugno nello stomaco, a causa dell’umidità del sotterraneo, tutto era velato da una leggera peluria, muffa ovunque sulle pareti, sugli arredi, nelle carte imbarcate. Dopo un mese, la camera oscura, aveva ripreso il suo funzionamento e Julia, finita a forza odontoiatria, aveva deciso d’iscriversi con gioia al D.A.M.S[5]. per inseguire le radici paterne. Enrico, laureato all’Alma Mater Studiorium in Lettere, insegnava prima d’iniziare a fare il giornalista e Julia, nata e cresciuta sotto le due torri, voleva tornare da nonna Zelmira, nella casa colonica sul colle dell’Osservanza.

Il corridoio per arrivare al sotterraneo era basso e stretto, con le pareti calcinate, il pavimento di cemento e nell’aria l’afrore dell’umidità, la chiave girò nella toppa e Julia entrando accese la lampadina bianca.

Un giramento di testa, poi un altro ed un altro ancora, in bocca il sapore della nausea e sulle tempie il solletico era diventato un martello, giusto il tempo di chiudersi dentro per crollare a terra.

 

La scena era sempre quella.

 

Una macchina famigliare stracolma di gente e roba, si dirigeva verso l’alta Savoia. La meta da raggiungere era il cottage della famiglia Label, dove abitavano il caro nonno Isidore con la moglie Brigitte; l’obiettivo era: trascorrere le vacanze di Natale tra una pista ed una cena, tutti insieme.

Al volante, Erri cercava chiacchierare con Rox, che seduta al suo fianco, ascoltava il chiasso della prole; Xavier, quindici anni di ribellione rockettara, annichiliva Camille, dodici anni di mascara, tulle e punte di gesso, mentre Julia, ventiquattro anni con gli esami in pari, fungeva da paciere.

Erri deciso a sedare il vociare, optò per una tregua musicale, poco dopo nell’abitacolo “Sound of Silence”, placò gli animi. Xavvi chiuso al mondo, con le sue orecchie e i pensieri inseguiva i Metallica, sparati ad un discreto volume nelle cuffie del walkman, Cam persa nei sogni di gloria, Ju rassegnata ad ascoltare per l’ennesima volta Paul Simon, che era la colonna sonora del quieto vivere oltre a quella della camera oscura.

Lo scorrere della sequenza si concentra sugli sguardi, che si scambiano Erri e Ju dallo specchietto retrovisore, lei coglie subito quella ruga, una in più che procede orizzontale e parallela alle sopraciglia sottili che sovrastano quegli occhi scuri, di quel nero dove non si trova la pupilla. Come i suoi.

Sono bastate due parole: “ex caserma”, per far piegare la fronte con un solco nuovo.

Da molto tempo, Erri stava lavorando al quartiere Pompose, da solo e per conto suo… il giornale non aveva gradito quel progetto, quel tipo di articolo… troppi nomi, troppo importanti, troppi “se” e “ma”. Julia lo aveva aiutato, e spesso era andata con lui a scattare qualche fotografia, fingendosi una sprovveduta turista. La vecchia Leica aveva registrato con il suo “inconscio meccanico” qualcosa… di questo Erri ne era certo.

Erano tre rullini, non ancora sviluppati, lasciati in camera oscura a Palazzo delle Corna. Tre Ilford HP5, 400 ASA. Julia li ricordava, sempre, quando li aveva scattati, quando li aveva appoggiati e quando erano spariti.

Uno sguardo, il sollevarsi del sopraciglio destro, l’arricciare della fronte, l’ultimo ricordo del padre.

Il respiro della madre, lo sbatter di ciglia della sorella, l’ondeggiare dei capelli lunghi e ribelli del fratello. Gli ultimi ricordi di tutti loro.

Poi… uno strano bagliore dal retro, qualcosa di rosso sul fianco sinistro dell’auto e dopo il buio.

Tutto buio, anche se a volte le sembrava di ricordare una strana prospettiva a volo d’uccello; dove alcuni uomini vestiti d’arancione si accanivano con un corpo, di questo si vedevano solo le braccia e le gambe che sussultavano come colpite dalla scossa. Accanto c’era un groviglio di lamiere e quattro teli argentati che sembravano appoggiati su qualche cosa… o qualcuno, erano coperte per dormire.

Il buio l’aveva accompagnata per un tempo assoluto, sentiva ma non riusciva a rispondere, poi era tornata la luce.

Verde e sfarfallante, il neon dell’ospedale sopra il suo letto. La prima sensazione era stata quella di soffocamento, colpa del sondino naso-gastrico, poi le braccia erano ferme e fredde come il granito, puntinate dagli aghi delle flebo, sul petto alcuni sensori tondi e garzati, le gambe come se non ci fossero, o meglio, come se mancasse un pezzo di corpo dalla vita in giù.

Dopo gli occhi, aveva ripreso la voce, che però non era la sua, non quella che conosceva.

Era come se si ascoltasse, come registrata, una voce estranea, ma di cui riusciva a modulare i toni come se ne possedesse il mixer. Il resto del corpo ritornò con tempi lunghi, anche se i medici lo considerarono un miracolo, piano riprese le funzioni più grossolane fino a quelle più fini, fu come tornare neonati ed imparare a sentire i propri confini. All’inizio e con fatica si sta seduti, e la radio ti aiuta, aiuta il morale con un lavoro capitato per caso, grazie alla voce che non senti più tua. Con dolore si torna a camminare, prima aiutate e poi da sole, le gambe ti riportano alla normalità e cancellano l’incubo della sedia con le ruote. Si ritorna a studiare, si lavora, si vive con il fratello, ma ci sente come la voce, diversa ed estranea. Nel frattempo cresce silente ed inesorabile, tra i ventricoli del muscolo involontario, un ospite ostile, orribile nell’aspetto, che ruggisce e si nutre dello stesso sangue: è la “bestia nel cuore”[6], forse un drago o un mostro…

Si tratta solo di una domanda: Perché?

Unico modo di placare la belva e di sopravvivere è correre, subito alle prime luci dopo le notti vuote, correre per sentire che il corpo c’è, così come il fiato ed il battito. L’unico modo di domare la bestia ed andare avanti.

 

Il respiro torna, la nausea passa e gli occhi sopportano appena il biancore della lampadina, la sequenza è passata. Erano giorni, forse anche un mese che non tornava… sempre uguale in ogni singolo fotogramma e sempre nuova in un particolare, prima assente.

 

Ormai Julia sapeva il perché, lo aveva scoperto una settimana prima, quando tornata da nonna Zelmira, aveva ricevuto da lei un cilindretto nero, con dentro un rullino, un TMAX 3200 ASA. L’aveva fatto sviluppare ed anche stampare, in un laboratorio per il bianco e nero a Bologna. Oggi, in ufficio era arrivata la busta con dentro le fotografie. Le era bastato guardare la prima per capire… Pellicola sensibile, grana grossa, quindi poca luce per un esterno… conosciuto e riconosciuto!

Voleva vederci chiaro, non capiva… non poteva ammettere, forse si sbagliava, ma i tre HP5 li aveva lasciati sulla mensola sopra la vasca e quando era tornata, non li aveva visti. Ma quella stanza sembrava non fosse mai stata aperta. Allora, come? Per sicurezza aveva fatto cambiare la serratura, senza dirlo, e l’unica copia di chiavi la teneva sempre con sé.

La mente di Julia era come la carta fotografica, una gelatina a sviluppo, dove l’immagine si compone sulla superficie grazie all’azione della luce sugli alogenuri d’argento, che fotosensibili iniziano la loro ossidazione con il contatto di una fonte luminosa. L’immagine latente ha bisogno di un bagno rivelatore, detto sviluppo, che è una soluzione di carbonato di potassio, idrochinone, sale sodico, solfato e bromuro di potassio miscelati con l’acqua, per attivare il processo di ossidazione dell’argento. Segue un bagno nell’acido acetico ed acqua, per bloccare la reazione e l’ultimo passaggio con il fissaggio, un bagno d’acqua e bisolfito di sodio, tiosolfato d’ammonio. Alla fine, l’immagine risulta essere stabile, duratura e quindi può essere lavata solo con acqua per eliminare ogni residuo dei chimici.

La fotografia, oltre ad essere la scrittura della luce, è anche alchimia e trasformazione degli elementi. Un tempo si cercava la trasmutazione del piombo in oro, nel Cinquecento[7] i pittori che si dedicavano all’incisione, all’acquaforte, venivano tacciati di perdere tempo… poi, in un altro tempo si riuscì a fissare e rendere stabile un’immagine catturata con la sola luce e il mondo cambiò il proprio modo di vedere.

A Julia serviva un blow-up,[8] un ingrandimento di alcune sezioni, per svelare quel particolare che casualmente e meccanicamente era stato registrato. Un viaggio nel tempo e nello spazio, tra la realtà, la sua percezione e le sue impressioni.

 

PUNTO E A CAPO

 

 

In quella sera della settimana che, come uno spartiacque, divide dalla metà a meno della metà, a mezzanotte la donna dai capelli biondi, avvolti nell’asciugamano di tessuto jacquard, si affacciò alla finestra convinta di trovare la risposta alla sua inquietudine.

Nello stesso momento l’uomo dagli occhi verdi decise di volgere lo sguardo altrove, si girò verso l’auto, abbandonando quel rettangolo di luce, la finestra scelta inconsciamente tra le tante del terzo piano. Aveva osservato a lungo quello spazio nella speranza di trovare qualcuno che, con la sua sola presenza, fosse in grado di placare la sua inquietudine.

Lei vide solo le sue spalle chinarsi, entrare in auto e sparire, lui non vide nulla ma avvertì il tendersi dei capelli all’attaccatura della nuca, non ci fece caso e si diresse a casa. Nell’auto, sul sedile di dietro giaceva la borsa di cuoio – il suo regalo di laurea, con l’incisione delle iniziali intrecciate ad una rosa – tra le varie carte contenute, c’era un piccolo tesoro, dalla copertina rossa e pieno di lei, che necessitava di attenzione. Lei rimase sola con una mano sul vetro ed una sulle labbra, ingenui tentativi di trovare tracce di lui, mentre la Renault Clio scura si allontanava.

 

Nella stanza 339, al terzo piano dell’Hotel Ritz, Oscar rimase ferma davanti al vetro, davanti a lei André era appena partito, tornato a casa, in un appartamento che divideva, da più di un decennio, con un suo amico, il suo più caro amico e non con lei.

“Mi manchi, non ti vedo e mi manchi. Mi basta sapere che sei altrove e che in quel posto non c’è più nulla di me, che mi manchi ancora di più. Adesso, sono io a non avere più nulla di tuo, non ho più neanche il quaderno…

E’stato la mia ancora, sai… senza non ci sarei riuscita. Come ho fatto a stare via per così tanto tempo, come ho fatto? Sai che ho iniziato a scrivere in aereo? Tremavo come una foglia, il mio vicino di posto era così preoccupato che chiamò l’hostess, mi sentivo morire, volevo solo scappare. Ho pianto, pianto, pianto in silenzio, chiusa nello spazio minimo della toilette, mi sono calmata solo quando mi sono ricordata di una cosa… anzi ho sperato che fosse rimasto un segno, così mi sono specchiata ed ho scostato il collo del lupetto, ho pregato sai… una traccia, ti prego! Una tua traccia! Per ricordarmi che non era stato tutto un sogno, e la traccia era lì, tra collo e spalla, piccola e rosata, bellissima. Poi ho pianto ancora, ma di gioia… perché anche io ti avevo lasciato una traccia, nello stesso punto. Uno scambio, un gioco, il nostro.

Dopo mi sono seduta al mio posto, ho tirato fuori il quaderno e l’ho accarezzato come avevi fatto tu, negli stessi punti, poi l’ho aperto ed ho iniziato a scriverti. Sì, scrivevo a te, proprio a te… non ad un diario, ad un’idea, no io scrivevo a te per poter finalmente dire tutto quello che volevo, che sapevo e non dicevo, per averti ancora e non lasciarti mai. Così per cinque anni ti ho scritto, a volte pochissimo… un solo rigo… un pensiero, ma bastava anche solo prenderlo in mano e sentire il ruvido e il morbido della copertina per calmarmi. Il quaderno era sempre con me, nella borsa, sotto il cuscino, sulla scrivania, sempre a portata di mano ma assolutamente invisibile ad occhi estranei. Era il mio segreto. Hansel non l’ha mai visto, nonostante abitassimo insieme, per poco ma è successo, così com’è successo che dividessimo lo stesso letto… un’agonia per entrambi. Avevi ragione tu, come il solito, quando mi dicesti: “la coppia peggio assortita del mondo”. 

Lui innamorato di una bellissima donna, io inconsciamente persa di te. Mi ricordo che quando vidi Hansel per la prima volta ne rimasi talmente stravolta, colpita, che tu mi ammonisti: “Stai attenta, gli uomini affascinanti e che sanno di esserlo sono molto più pericolosi delle donne!”

Avevi ragione, Hans è un uomo bello, indubbiamente affascinante ma anche consapevole di tutto ciò e ci sa giocare. Me ne sono resa conto solo dopo, con un oceano di mezzo, ho visto quello che tu avevi capito in due occhiate, a dir la verità anche Alain ti aveva dato man forte: “Chi quello? Ma Oscar sei scema del tutto? Quel tizio ha il vizio del naso e dello specchio e forse non solo. Dammi retta: hai preso lucciole per lanterne!”

Era un inverno di tanto tempo fa, avevo diciotto anni e voi diciannove, presto venti, vivevate insieme ed io, con un a scusa od un’altra, spesso vi piombavo in casa. Quella sera ero agitata, ci sarebbe stata una festa importante in un noto albergo, cena di gala tra banche ed aziende, andavo anch’io. Sapevo che ci sarebbe stato Hans e volevo essere splendida, così mi sono lasciata vezzeggiare da Nanny, che non stava nella pelle. Poi sono corsa da te… non aveva molto senso quello che facevo, però volevo avere la tua approvazione, c’era anche Alain in casa. Tu mi hai guardato in un modo che non dimenticherò mai, mi hai reso felice e contemporaneamente mi hai causato dolore, poi ci sono stati i commenti… Hansel era in televisione.

A New York ho conosciuto il vero Hans, ed ho incontrato anche il suo amore, il vero grande amore, quello che trovi una volta sola, se sei fortunato. Sono innamorati, semplicemente quello, ma non saranno mai liberi di mostrarsi. Una sera mi portò in un locale, “La Corte”, un posto strano dove buona musica si mescola a certi eccessi, tra questi alcune cantanti, di cui la più nota è conosciuta come “Queen Mary”. Si tratta di una bellissima donna, con una voce sublime, capacissima ballerina e mattatrice di palcoscenico, peccato che il suo vero nome sia Antonio. E’ l’ibrido più desiderato di tutta l’upper class della grande mela, è un gioco proibito e costosissimo. Tra un drink liscio ed un on the rocks, Hans mi ha raccontato la loro storia; si sono conosciuti per caso ad una festa con neve e full-optional, poi si sono rivisti e dopo si sono cercati. Fino a qui tutto bene, nel senso che nel mondo della finanza e del potere, tutto è accettato fino a quando rimane un vizio, se si travalica questo limite con quello dell’affetto ci si brucia. Alla fine per quanto gli si dica che è un donnaiolo, un libertino, Hans è fedele alla sua “Queen Mary”, tante donne servono a coprirne una, così il matrimonio con me era lo specchio per le allodole, serviva per il quieto vivere dell’azienda. Peccato che l’altro vizio lo abbia quasi ucciso. Quando l’ho spedito in comunità, ho mandato il biglietto aereo e l’indirizzo anche ad Antonio, finita la cura si sono presi una pausa con il mio benestare ed il mio silenzio. Quello che avevo reputato essere l’uomo della mia vita si era mostrato per quello che era, un uomo che mai mi avrebbe amato, è stata solo una scelta infelice, la mia.

 

Punto e a capo, quel che resta indietro non è tutto falso e inutile.[9]

 

Sai perché ti sono passata a prendere quel venerdì di quasi sei anni fa? Perché avevo bisogno di stare con te, di vederti, di parlarti, di guardarti e poi… perché volevo sapere che sapore avevi. Siamo cresciuti insieme e ti ho sempre dato per scontato, normale che tu ci fossi e che fossi disponibile per ogni mio capriccio… ma davanti a quel viaggio, deciso da me, mi ha assalito un’ansia incontrollata… stavo per andare via e tu non ci saresti più stato. Era una paura viscerale, fisica, diversa da quella che mi aveva preso quando mi dicesti “vado a vivere da solo”. Avevo pensato che sarebbe stata la fine… invece con quel gesto mi regalasti un rifugio da casa mia, perché il tuo appartamento era la mia tana, un luogo sicuro e dove mi sentivo accettata per quello che ero e basta. Quello spazio era la mia pausa e poi era pieno di te, avvertivo la tua presenza anche se tu in quel momento non c’eri, ma io sapevo che saresti tornato. Mi piaceva aspettarti.

Di te conoscevo tutto, così pensavo, eri il mio amico, fratello, semplicemente eri il mio André. Fianco a fianco[10].

Quel giorno, avevo un bisogno assoluto di te, tutti i cinque sensi volevano imprimersi a memoria la tua presenza: vista, udito, tatto, olfatto e gusto.

Sarebbe stato il mio addio, l’ultima volta insieme, forse questa consapevolezza mi spinse oltre alla barriera della logica, per cui tu eri solo un amico, mentre tutto l’irrazionale e l’istinto mi dicevano che tu eri André, il mio. E’ stata anche l’unica volta in cui ho fatto ciò che desideravo fare, veramente.

Tu sapevi del mio problema con il cibo e sei stato il primo a guardarmi in faccia e a dirmi la verità… con la tua dolce fermezza,  ma è la tenerezza la cosa che ci fa più paura[11], mi sbaglio… a me faceva paura.

Non ricordo come sia iniziata quella spirale, ma è iniziata.

Non avevo tempo da perdere, il pasto era una pausa che poteva essere occupata in modo più proficuo, poi lentamente era passata da necessità fisiologica a prova di bravura, dimostrazione della capacità di trattenersi e dunque di controllare e controllarsi. Competizione. Io volevo il controllo assoluto delle mie azioni. Ma non ero un’asceta, perché quando arrivava quella fame implacabile ed arrivava, sempre, io non riuscivo a controllarla. Pochi minuti di assoluta anarchia distruggevano il paziente lavoro di dominazione dell’istinto. Pochi minuti, in cui mi riempivo con rabbia e violenza… e così il cibo diveniva il materiale con cui colmare quella voragine non dello stomaco ma del cuore.

Dopo subentrava la crisi, la seconda crisi… la peggiore. Arrivava l’orrore, la delusione, l’amarezza di non aver saputo vincere, di non essermi dominata, di avere peccato. Unica possibilità di redenzione era l’espiazione tramite la punizione corporale. Il corpo aveva peccato, il corpo avrebbe pagato. Bastava qualche minuto di raccoglimento con il freddo del retro di una forchetta ed un momento di apnea… ecco l’assoluzione. Seguiva il fermo proponimento di mantenere una condotta irreprensibile, di non cedere più alla tentazione. Tutto ciò cadeva come un castello di carte davanti ad ogni piccola sconfitta, espressa nello sguardo di mio padre, nel raggiungimento di un obiettivo senza ottenere tutto quello che ci si era proposti, in un esame sine laude o condotto non come avrei voluto. Lo svolgersi della vita al di fuori della mia pianificazione veniva vissuto come sconfitta, a cui seguiva la mia caduta, il mio fallimento. Non ho mai saputo accettare gli sbagli, non li ho mai visti come possibilità di crescere e comprendere… per me erano solo errori dettati da negligenza o incapacità, così anche per mio padre.

Con te mai, mai quando stavo con te, quando mi rifugiavo a casa tua – con la scusa di studiare meglio – mai quando andavamo via per qualche giorno… mai con te perché tu mi hai sempre saziato il cuore e l’anima, bastava la tua presenza, un sorriso, una parola o una battuta ed io ero sazia per giorni interi.

Eri e sei nell’anima, in questo spazio indifeso[12] ed ingenuo come un bambino.

Al pensiero dell’Atlantico tra noi, di un marito benvoluto da mio padre - e non ti nascondo che anche io pensavo fosse meraviglioso – non ho resistito… inconsciamente avevo bisogno di te. Così sono passata a prenderti, ti ho accompagnato nelle tue commissioni, ci siamo bagnati come pulcini per colpa di un improvviso piovasco… Benedico quell’acqua! Chissà se mi avresti portato lo stesso a casa tua, chissà se ci saremmo fatti quella cioccolata in tazza…

E’ stato il ricordo più bello, anzi lo è ancora. Io seduta sul piano di fianco al fornello che ti allungo i biscotti, ti imbocco, mentre tu mescoli la cioccolata. Avevi i capelli bagnati e l’asciugamano appoggiato sulle spalle, la fruit nera un po’ dentro e un po’ fuori dei jeans slavati. Mi sgridavi perché sbriciolavo dentro il pentolino - sei sempre stato pignolo - io che ribattevo che tanto l’avremmo mangiata in ogni modo. Ogni biscotto era una scusa per toccarti le labbra e chiudere quella sensazione nella mia cassaforte, poi ti ho sfiorato i denti. Li ho sentiti lisci e piatti, era un vecchio gioco come quello che si fa ai neonati per sentire se si stanno inossando le gengive. L’indice piegato a gancio chiuso tra i tuoi incisivi, la fiducia del padrone del dito che il padrone dei denti non farà male. Poi il tuo indice tra i miei incisivi. Lo stesso gioco da bambini, vince chi resiste di più alla morsa dell’altro.

Da bambini giocavamo anche a darci dei morsi sui polsi a ‘mo di orologio, io so riconoscere l’impronta della tua arcata dentale. Conosco benissimo il segno dei tuoi incisivi, canini, premolari e molari, come tu il mio.

La cioccolata è rimasta sul fornello, spento, noi siamo finiti in camera tua e ci siamo chiusi dentro.

Prima di lasciare la cucina, aggrappata alle tue spalle ho dato uno sguardo veloce all’orologio erano le 14.32 dopo non ho più pensato a nulla che non fossi tu. Carne e fiato[13].

L’aereo partiva alle 22.45, l’ho preso al volo, giusto il tempo di una corsa a casa, una doccia e di recuperare il trolley già chiuso, poi l’autista mi ha accompagnato all’aeroporto, intanto tremavo, perché il cuore l’avevo lasciato a bersi la cioccolata a casa tua”.

 

I viali illuminati erano quasi deserti, poche macchine si allontanavano dalla città e qualcuna di più le si avvicinava. Sulla tangenziale s’incrociavano scie luminose bianche e rosse sotto l’alone giallo dei lampioni. Ordinari paesaggi urbani.

André guidava tamburellando le dita nervose sulla pelle del volante, dalla stazione radio, ormai familiare, la nuova hit riempiva l’abitacolo del pizzicato di una chitarra e del frusciare della batteria, seguiva l’inconfondibile voce di Bono che duettava con Mary J. Blige: One.

Il pollice automaticamente si pose sui comandi alla guida per alzare il volume, le labbra si mossero e lasciarono uscire quella voce che, come una stilettata  in pieno petto, aveva colpito l’altra metà del cielo, facendo scorrere più sangue dove la carne è più tenera.

Alle parole si mescolarono i ricordi, la strada divenne uno schermo dove si proiettava quella sequenza custodita nei recessi del cuore tra dolore, rabbia e… altro.

 

La Clio nera procedeva verso il quartiere residenziale, dove ordinate file di palazzine a tre piani con piccoli giardini si affacciavano sul nastro grigio dell’asfalto.

Il cancello automatico si aprì lasciando passare la vettura che, lentamente si appostò davanti al proprio garage, questi la salutò alzando il portone, in modo da farla entrare. La rimessa era grande, doppia, sfruttata in ogni centimetro, lì dentro erano concentrate le vite di due uomini e delle loro passioni. C’erano gli sci con le loro racchette ed i rispettivi scarponi, poggiati su una mensola insieme agli snowboard, le due mountain bike appese per la ruota davanti, il canestro ed una serie infinita di palloni, l’attrezzatura da hockey, i pattini, le due motociclette scure e lucide e con la batteria sotto carica. Nulla era abbandonato, semplicemente era sistemato in modo da essere reperibile al momento giusto, oggetti di passioni sportive che ciclicamente e stagionalmente venivano utilizzati. Era il garage di due uomini senza donne, o meglio che ne avevano avute tante – quindi nessuna – ma a cui mancava quella giusta: la e non una donna. Questione non solo di articoli.

André salì le scale con passo stanco, tra poco la “lettrice” avrebbe concluso: “Come un romanzo” di Pennac, per quella sera lui avrebbe avuto altro da fare… ma Julia non la voleva perdere, poteva registrarla e non era la prima volta che accadeva, anche se il più accanito era Alain, quasi maniacale nel conservare le tracce di quella voce.

Entrato in casa poggiò la borsa sulla panca di legno, le chiavi nella ciotola della consolle, si tolse il cappotto e lo sistemò nel guardaroba dell’ingresso poi si levò le scarpe. I soliti gesti, il solito rituale del rientro a casa. Alain non c’era, ma al suo posto c’era un biglietto… non proprio un piccolo… anzi era un foglio A3 infilato nella cornice dello specchio, quello dell’ingresso. A caratteri cubitali, scritto in maiuscolo e più volte sottolineato:

ACCOMPAGNO JU IN RADIO

NON MI ASPETTARE ALZATO

OGGI HO FATTO “SCACCO”… E VAI!!!

Poi ti dico

P.S. incrocia le dita… e speriamo bene

A.”

 

Ormai non aveva più dubbi.

“Caro buon vecchio “sciupafemmine”, Alain hai preso una di quelle cantonate dalla quale non ci si riprende, perso, sei straperso ed anche un po’ rincoglionito. Sei così innamorato da essere quasi imbarazzante, stento a riconoscerti. Ma probabilmente non dovrei nemmeno parlare, speriamo solo che sia quella giusta e che sia il momento, quello giusto. In bocca… vecchio mio, non mi deludere!

Dai è una fortuna che tu sia in buona compagnia, stasera sarei stato di una noia mortale… ho altro a cui pensare”.

André si diresse in camera sua, prese il cambio e andò in bagno, una doccia bollente gli sembrava l’unico modo per poter iniziare quella che sarebbe stata una lunghissima notte, difficile come quella che aveva trascorso sei anni prima.

 

Quel venerdì in mattinata era passato Reynier per congratularsi, loro avevano avuto l’approvazione per il progetto Pompose, mentre lo studio del padre di Oscar aveva perso. Il “generale” aveva sempre avuto un buon rapporto con André, lo stimava e nel contempo lo temeva, quel bambino era sveglio, acuto, dotato di un’intelligenza sottile e machiavellica, paziente e tenace, era l’avversario perfetto, il peggior nemico a scacchi e il miglior amico di sua figlia. Il problema era che non era proprio, solo, amico, essendo cresciuti insieme come fratelli, il legame era viscerale, quasi un cordone ombelicale, andava oltre al semplice affetto. Di questo se n’era accorto André, che da tempo vedeva Oscar sotto un’altra luce ed aveva preferito staccarsi per lasciarle lo spazio di capire, ed anche il generale che pur stimando il ragazzo, aveva altre mire per la figlia.

 

“Stasera partirà per andare da Hansel, l’hanno presa nei quadri dirigenziali e da gennaio lavorerà al consiglio d’amministrazione” una pausa per sottolineare il fatto più importante, “dovrebbero sposarsi in estate, lei non vede l’ora”.

“Se è così perché usa il condizionale? Poi non credo sia felice, forse lo sembra… ma osservandola attentamente, direi che è in trappola, rassegnata”

“Verrà a salutarti…non credi? Cosa farai?”

“Questo non lo so, non credo che mi dirà della partenza a lei non piacciano gli addii”

“Se verrà, cosa farai… cosa farete?”

“Se verrà, non farò nulla che non vorrà fare anche lei”.

 

Lei era passata, poco prima del pranzo, poi con assoluta normalità l’aveva accompagnato nelle sue faccende… ma non era tranquilla. Lo guardava con avidità e cercava il contatto fisico, la mano, la spalla, il braccio… André aveva capito, quello che lei cercava ancora di dissimulare.

Poi alla fine dei giri erano stati sorpresi da un piovasco e mentre stavano per attraversare la strada, una macchina aveva sollevato un ventaglio d’acqua tale, da lasciarli zuppi da metà coscia fino ai piedi. Non erano lontani dalla casa di André e così si erano diretti lì per asciugarsi. Infreddoliti e fradici si erano cambiati, ad Oscar aveva offerto un paio di pantaloni della tuta da sostituire a suoi. Erano finiti in cucina, come sempre quando erano da André, lui a mescolare la cioccolata, lei ad allungargli i biscotti. Solo che stavolta i gesti erano carichi di un’intensità palpabile.

 

“Fissavo il pentolino per non guardarti, mi concentravo sul cucchiaio di legno per resistere, ma tu continuavi e ogni volta ti facevi più audace.

Fino a quando ho ceduto, ma l’ho fatto solo perché avevo capito che quello era il tuo modo di chiederlo. Forse fino ai dieci anni poteva essere un semplice gioco, magari violento… nel senso che ci facevamo anche male… soprattutto tu a me, dato che non hai mai avuto tanto giudizio e che quando morsicavi, stringevi sul serio. Arrivati ai venticinque quel gesto assumeva un altro significato, era qualcosa di talmente intimo da essere quasi imbarazzante… forse per gli altri, ma non per noi. Io ti ho risposto, concedendoti il mio indice nel tuo morso, tu hai stretto come ho stretto io… poi è stato altro. Ancora lucido, devo aver farfugliato qualcosa sulla cioccolata che si doveva freddare, ho spento il fuoco e mi sono avvicinato a te. Avevi la biscottiera di alluminio poggiata tra le gambe, l’ho presa e l’ho spostata ed ho preso io il suo posto. Tu ti sei avvicinata e chinata su di me, dopo eravamo così stretti da non capire chi fosse l’uno e chi l’altra, ti ho portato in camera e ci siamo chiusi dentro. Ci siamo nascosti al mondo, sotto le coltri come fossero una tenda…come la tenda del campeggio in Grecia. Mi sono ricordato della spiaggia di Mirthòs e di quell’onda affrontata insieme, dove avevamo sperimentato in parte la forza della natura. Quel venerdì abbiamo sperimentato insieme un altro aspetto di quella forza. Ci siamo persi e ritrovati, ed io speravo che dopo tutto quello che stava accadendo, tu non saresti partita. Ti ho detto quelle parole che si dovrebbero usare con parsimonia, tu mi hai risposto solo di sì. Avevi solo due parole, di cui una era il mio nome, che invocavi con toni nuovi, e quel sì ripetuto all’infinito. Ho sperato che veramente avessi capito che il tuo posto era solo con me, ma tu sei andata via. Mi hai lasciato solo”

 

André ripresosi da quelle scene fisse nella mente si apprestò a leggere il diario, lo lesse tutto. Ogni pagina era un dialogo, in ogni riga c’era la spiegazione di quel viaggio, di quella lontananza. Certi passi facevano male, provocavano un dolore acuto… poi sapere com’era vivere con Hansel. In quel dialogo Oscar gli raccontava del suo calvario, del suo dolore ma anche della voglia di uscire da quel tunnel; l’incontro con Anne, analista, la scelta della terapia, la conquista di una consapevolezza e l’accettazione dei propri limiti, la serenità di ammettere che amava un uomo con cui era cresciuta ma che non era un fratello, era come un fratello… anzi non solo. L’incontro con i quadri, che lui aveva dipinto nella speranza che lei li trovasse, e lei che li cercava li aveva trovati. Le vicende in azienda con la corruzione a tutti i livelli, mentre in lei cresceva la voglia di rinnovare. Poi l’incidente di Hansel e la nuova responsabilità, vissuta come l’opportunità di chiudere una faccenda, di saldare il conto. La vera storia di Hans e del suo amore. La decisione di partire, di tornare e ricominciare senza paura, la voglia di chiamare le cose col loro nome, il bisogno di lui.

Punto e a capo.

Continua

 

pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2006

 

mail to: tania.t@inwind.it

 

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[1] Vasco Rossi, “Senza parole” da “Buoni o cattivi, live”.

[2] Idem.

[3] Idem.

[4] Idem.

[5] Corso di laurea, Discipline Arte Musica Spettacolo,  della facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna.  Nasce nei primi anni settanta e si caratterizza per l’innovativo punto di vista promosso dai sui fondatori: Barilli, Arcangeli, Volpi, Toscano. In questo corso Umberto Eco insegna semiologia delle arti.

L’università del capoluogo emiliano è la più antica di tutta Europa, venne fondata nel 1088, e si fregia del titolo  di “Alma Mater Studiorum”.

[6] “La bestia nel cuore” di Cristina Comencini (it.  2005, film drammatico). Ho preso in prestito il titolo del film con Giovanna Mezzogiorno, anche se qui non mi riferisco agli abusi subiti dai bambini, ma semplicemente al tarlo di una domanda senza risposta. Nessuna espressione mi sembrava più calzante.

[7] Giorgio Vasari, “ Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue a’ tempi nostri”, 1568, seconda edizione.

[8] “Blow up”, di Michelangelo Antonioni (Italia/G. B., 1966) liberamente ispirato dal racconto “La bava del diavolo” di Julio Cortazar.

[9] Gianna Nannini, “Sei nell’anima”, dall’album “Grazie”, 2006.

[10] Idem.

[11] Idem.

[12] Idem.

[13] Idem.