Camelot

Parte II

 

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La webmaster ringrazia Assunta per il lavoro di revisione.

 

TRE MINUTI

 

La luce passando dalle finestre lasciava l’ufficio in un rilassante alone bluastro, dalla radio i Rolling Stones accompagnavano con “rain fall down” le gocce di pioggia, grosse come biglie[1], nel loro infrangersi contro i vetri, tutti gli altri erano già usciti o si apprestavano a farlo, tutti, tranne lui.

Nei pensieri dei colleghi era ovvio che lui si trattenesse, le cose da fare nello studio A.A.A. erano sempre tantissime e lui era una di quelle A., per cui il responsabile, inoltre era dato per assodato che per lui il tempo scorresse in modo diverso.

André sempre così calmo, costante, conciliante, era detto “le tre C.”, oltre ad essere creativo e produttivo; tutta l’altra metà del cielo, impiegata nell’ex caserma, l’aveva tacitamente soprannominato “faccia d’angelo” accompagnando il nomignolo ad una serie di pensieri poco casti e poco professionali.

Rimasto solo si chiuse nel suo studio, che era stato quello del comandante delle guardie metropolitane nel settecento, un camino e due stanze collegate da una porta a doppio battente, nella prima lavorava André architetto, mentre nella seconda si sfogava il provetto ”artista”.

L’uomo dagli occhi verdi era perso nel corso dei suoi pensieri, ultimamente tortuosi come quelli di un adolescente e tristi come quelli di un centenario, tutta colpa della lettera.

Era arrivata già da due settimane e da quindici giorni giaceva intonsa sulla mensola del camino, gli era bastato osservare la grafia per capire che era sua; ma non c’era solo la busta, c’era anche quel pacco grande quanto un quaderno… e quello era.

Con la mano malferma prese la busta e l’aprì, strappando la carta con dita nervose, gli rimasero in mano un paio di fogli, le parole s’inseguivano veloci con un segno spigoloso e proiettato tutto a destra, come se si tuffasse in avanti, alla ricerca di un futuro, tipico indizio di chi spera, ancora.

André prese fiato, accomodandosi sulla sua poltrona, chiuse gli occhi per un attimo, poi accese la luce da tavolo, sperando  di uscirne con il cuore ancora intero o per lo meno non del tutto a pezzi, iniziò a leggere. L’orologio segnava le 20.14.

 

Tre minuti[2].

Dammi tre minuti…

André ti chiedo ancora solo tre minuti del tuo tempo, della tua vita che ho già rovinato.

Prima che tu possa buttare tutto, prima che stracci questi fogli, ti prego… aspetta!

Leggi queste righe e poi fai quello che vuoi, ma prima leggi!

Lo so che sono stata assolutamente imperdonabile nel mio agire, nel modo in cui ti ho trattato e lasciato. Prima di fare ammenda, io devo assolutamente dirti: GRAZIE!

Perché senza il nostro vissuto, i nostri vent’anni insieme non avrei resistito a questo lustro di separazione…

Grazie.

Grazie, perché centellinando i nostri ricordi sono riuscita a sopravvivere, ma soprattutto ho capito che quello che non funzionava… non era il mondo… ma ero io… e che tutto dipendeva solo da me.

Scusa .

Perdonami, ancora, se puoi, per non averti dato retta, per non averti ascoltato quando mi dicevi la pura e semplice verità… Tu avevi ragione e io non volevo ammettere che ero… malata, faccio ancora fatica a chiamarla così. Malattia d’affetto, mal d’amore mancato, squilibrio alimentare e affettivo…”

 

Un leggero sorriso dolce amaro increspò le labbra di André ed un pensiero gli strinse il cuore:

“Cara Françoise, mia cara Oscar non cambierai mai… sei bravissima a rimandare le cose che ti riguardano in prima persona… ci sono voluti cinque anni, ben cinque anni, per farti dire grazie e scusa… per chiamare le cose con il loro nome”.

 

Lui l’aveva sempre saputo, o meglio l’aveva capito, che davanti a tanta corazza c’era il bisogno di sentirsi accettati, amati e che l’eccellenza ottenuta negli studi e poi nel lavoro erano la merce con cui cercava di comprare la stima e l’affetto di quell’uomo così esigente, che avendo avuto solo una figlia[3] l’aveva cresciuta come il maschio mancato. Nel cuore di bimba di Oscar si erano attorcigliati tutti i sentimenti e tutti i riferimenti, si sentiva respinta dal padre che voleva fosse orgoglioso di lei, mentre l’erbaccia cattiva del sentirsi il “figlio cambiato”[4] l’avvelenava di rabbia nei confronti dello stesso padre. Tale miscela aveva dato le fiamme ad un carattere impulsivo nell’infanzia, con l’arrivo dell’adolescenza le cose si erano fatte più difficili, per scoppiare definitivamente a venticinque anni. L’anno degli addii… dell’unica volta[5].

Scacciò con rabbia la scena che rapidamente gli si dipinse nella mente, si trattava di un’immagine latente, che c’era sempre e che necessitava di un rivelatore per mostrarsi chiaramente.

“Non ora!”.

Riprese la lettura, cercando di concentrarsi il più possibile sulla grafia, sul significato di quei segni e quando terminò, riuscii a respirare con la mente sgombra.

L’orologio segnava le 20.17.

“Tre minuti hai chiesto e tre minuti hai preso”.

Davanti a lui, avvolto nella carta marrone dei pacchi postali, il pegno che gli lasciava, tutto il tempo che aveva vissuto lontano da lui chiuso in quell’involucro, si trattava di carta, solo di carta al posto di carne e voce, al posto di lei.

Tutto quello che era successo da quel venerdì di cinque anni prima, era chiuso lì dentro, perché prima di prendere quel volo verso la Grande Mela, lei gli aveva “fregato” quel quaderno, comprato insieme poche ore prima di amalgamarsi come latte caldo, farina, zucchero e cacao in una tazza di cioccolata.

Con un colpo secco aprì il pacco ed estrasse il quaderno; la ricordava ancora quella copertina rigida, rivestita di carta riciclata rossa dalla superficie scabra e morbida al tempo stesso, le pagine di grana grossa si presentavano con il filo della carta ruvido ed il loro colore tra il grigio e l’ocra, un tempo sgombro da ogni segno, era ora vergato in ogni spazio sul fronte e sul retro.

 

“Sei vigliacca Oscar, una gran vigliacca, non hai il coraggio di guardarmi in faccia e pretendi che io possa rileggere questi anni con i tuoi occhi… e sai che… nonostante tutto lo farò…” in quello stesso momento il telefono trillò, una, due, tre volte, André non aveva voglia di parlare con nessuno e poi a quell’ora lo studio era già chiuso da un pezzo.

 

“Ma chi rompe a quest’ora, se è un cliente sarà una scocciatura. Non rispondo! Aspetta, potrebbe essere quella gran “gatta morta” di Alain. La “volpe” che con la scusa degli scacchi alle sette di mattina ci prova con Julia, come se lei non avesse capito… Maggiorenne e vaccinato, l’ho avvisato di starci attento. Perché non mi chiama sul cellulare? Magari è nei guai” malvolentieri e sospirando, senza osservare il numero sul display, André alzò la cornetta.

 

“Pronto, Alain sei tu? Cos’hai combinato questa volta?” rispose tutto di un fiato, era ormai pronto a sentire le scuse più fantasiose.

 

 “… Beh… Ciao, mi spiace deluderti ma non sono quella faccia da schiaffi di Alain. Come sta?

Ciao André, sono Oscar, tutto bene? Sai sono tornata, sto prendendo casa ed avrei tanto bisogno di un architetto! ”

  

MIRTOS BAY E L’ONDA PERFETTA

  

 La spiaggia di Mirtòs[6] si mostrava ai loro occhi in tutta la sua bellezza, una lingua di sabbia e ciottoli bianchi chiusa tra l’azzurro opalescente del mare e lo strapiombo di roccia ed ulivi. Spettacolare, meravigliosa nel ricamo bianco delle onde, ad Oscar mancavano le parole per definire tanta magnificenza ma anche per razionalizzare la gioia immensa che stava provando in quel viaggio. Il loro viaggio, pensato e programmato per mesi, per riuscire a convincere il “generale”, ovvero suo padre, che poteva affrontare una vacanza con lo zaino in spalla, senza infangare il buon nome della famiglia, accontentandosi di un sacco a pelo e di una gavetta per mangiare e poi non era sola, c’era André.

Il generale avrebbe lasciato andare la figlia anche in Siberia, con solo un paio di bermuda, a patto che fosse André ad accompagnarla. Lei, non vedeva l’ora che arrivasse quell’estate, non riusciva più a far finta di niente, a dirsi che non era importante e da quando lui se n’era andato dalla casa in cui erano cresciuti che si sentiva triste, anzi molto più di triste, anche se avrebbe preferito ingoiare un topo con tutto il pelo e la coda piuttosto che ammetterlo davanti a lui. Era passato un anno scolastico da quel giorno.

André, finito lo scientifico, si era iscritto al Politecnico ed aveva lasciato la loro casa: ad agosto avrebbe compiuto diciannove anni.

 

“Non me la sento di continuare ad essere ospite, non sono più un bambino e devo iniziare ad assumere le mie responsabilità. Vado a vivere da solo… - a quelle parole perse molto di più di un respiro, di un battito e dieci anni di vita -  Sai… ho già trovato casa ed anche un lavoro. Poi col denaro lasciato dai miei posso tranquillamente pagare la retta d’iscrizione e viverci in pace. Poi… non sono proprio solo, c’è Alain con me! ”.

 

Gelosa fino allo sfinimento di Alain, lo era sempre stata, perché quel ragazzone aveva la capacità di tirare fuori da André aspetti che lei nemmeno immaginava. Da quando si erano conosciuti alla sala di scherma, aveva iniziato a dividere il “suo” André con lui.

A Mirtòs c’era anche Alain, ma non solo, c’era pure Bernard, quest’aspetto era stato taciuto al generale e per un po’ anche a lei, che si era illusa di non dover spartire il suo amico con nessuno.

Ora si trovavano tutti e quattro lassù, pronti a scendere, con quel catorcio di Seat Marbella, dalla carreggiata che li avrebbe portati davanti alla spiaggia; la pendenza era decisamente imbarazzante come lo stato dell’auto e già da lì si poteva chiaramente sentire l’odore di ferodo di chi li aveva preceduti.

La discesa fu un‘avventura sobbalzante tra le buche e la polvere bianca, Alain al volante era concentratissimo nel modulare freno, frizione, marce e freno a mano ad ogni tornante, ma alla fine, forse aiutati da San Cristoforo, arrivarono.          

 

Oscar si guardò allo specchio velato di un sottile strato di vapore, si tolse i vestiti e rimase davanti al suo riflesso.

 

“Che strano ripensare alla vacanza dei diciotto anni proprio adesso che ho passato la boa dei trenta. In realtà, ci penso spesso, ma non a noi quattro su  quella scalcagnata macchina… la costante è l’onda. Quell’onda affrontata insieme e poi …la mia prima onda, l’onda perfetta” l’immagine nello specchio sparì.

 

Oscar saggiò la temperatura dell’acqua nella vasca, calda al punto giusto, accostò lo sgabello con l’accappatoio in tessuto jacquard con lo stemma Hotel Ritz Paris[7] e s’immerse completamente, facendo scomparire il viso sotto un sottile strato d’acqua.

 

“Come posso dimenticare quel giorno, credevo foste tre pazzi scalmanati che si divertivano a farsi sbattere a faccia in giù dai “cavalloni”.

Ero allibita dal vostro correre nell’acqua spumosa per incunearvi nella risacca, passando sotto l’arco di un’onda in arrivo per poi rispuntare in quella zona franca, dove la corrente non è così pericolosa … per fare cosa dopo… aspettare l’onda giusta e abbandonarsi alla sua rabbia e farsi schiacciare sulla ghiaia del fondo e riemergere senza fiato.

Senza che potessi reclamare mi sono trovata chiusa, le mie braccia tra le tue, sollevata da terra. Il respiro mi si è mozzato un po’ per il freddo della tua stretta che sapeva di mare, rispetto alla mia pelle bruciata dal sole ed un po’ per quel contatto, quasi dimenticato. Mi hai spinto a forza nell’acqua.

 

-         Dai non aver paura, vedrai che ti piacerà…  -

 

Sapevi che non amavo il mare riottoso, soprattutto dopo aver rischiato di affogare in un laghetto e che qualsiasi increspatura dell’acqua mi gelava il fiato, ma non te ne sei curato.

Mi hai stretto più forte e trascinato lottando con la risacca, contro la corrente che rendeva difficile il solo stare in piedi, ma tu sei riuscito a spingerti oltre quei muri d’acqua che ci schiacciavano.

 

-         Prendi fiato, adesso!

 

Ho preso tutta l’aria che potevo, poi ho chiuso gli occhi e quando li ho riaperti ci trovavamo al di là delle creste impazzite, in quello spazio di mare dove senti l’onda dolce che ti solleva e ti abbassa, senza fare male.

 

-Beh, hai visto, non c’è niente di cui aver paura. Adesso aspettiamo quella giusta. –

 

Ma quale sarebbe stata quella giusta? Come facevi a saperlo tu? Non capivo bene, avevo paura perché se ero al sicuro in quella zona franca, non potevo rimanere a mollo lì tutta la giornata.

E’ stato tutto rapidissimo e tremendamente lento nello stesso momento, eri con me, vicino tanto da dover stare attenti a non calciarci sotto l’acqua e poi… poi la corrente è arrivata prima lenta e stanca e poi si è stretta con forza su di noi, tu mi hai preso per mano e lei ci ha trascinato sulla cresta dell’onda, acqua e cielo.

Dopo si è arricciata tirandoci giù, verso il fondo, il suo arrotolarsi coincideva col spingerci sempre più giù, solo acqua e niente aria. L’onda scaricava tutta la sua forza sul fondale,  piantandoci tra la sabbia e la ghiaia impazzita che ci schiaffeggiava, senza pietà.

Persi completamente il senso dell’orientamento; in quel buio liquido non sapevo più dove mi trovavo e dove stava il cielo, però, all’improvviso mi sono sentita strattonare. Eri tu che mi tiravi e mi chiamavi, ma io non potevo sentirti tanto era forte il mugghiare dei flutti, poi è arrivata l’aria l’ho percepita nonostante i capelli si fossero incollati sul viso oscurandomi la visuale, ma la corrente era forte e la risacca mi tagliava le gambe impedendomi di stare in piedi.

Cadevo e ricadevo e tutte le volte che ero giù una coltre d’acqua capricciosa mi avvolgeva. Non ho capito come e perché, ma sei riuscito a tirarmi fuori e quando ho spostato i capelli, pesanti come alghe, non avevo più parole, la gola e gli occhi bruciavano per il sale dello Ionio e ci trovavamo lontani dal punto da cui eravamo partiti, ma tu mi guardavi... Eri ansante e i capelli ti si erano appiccicati quasi a coprirti il viso, li ha tirati indietro e da quella tenda scura è riapparso il tuo sguardo brillante, di un verde cangiante come le foglie degli ulivi. Eri emozionato e tremavamo entrambi, forse per l’acqua o per l’aria, ma io credo che fosse per altro…

Lì, lontano dagli altri, solo noi sbattuti dall’acqua come sassolini, occhi negli occhi, la tua mano sul mio braccio e l’altra sulla mia vita. Un attimo lunghissimo prima del tuo sorriso e della tua risata, mi hai trascinato sulla sabbia lontano dall’acqua, dopo siamo caduti a terra, esausti… ed abbiamo riso, riso, fino a piangere.  

La prima onda…”

 

Oscar riemerse per prendere fiato, l’acqua calda era rilassante e ricordando quei momenti le si era sciolto l’animo in una strana malinconia. Già, da qualche tempo, aveva deciso cosa fare ed ogni giorno passato lontano da André era la riprova che si era definitivamente “bevuta il cervello”, questo il commento di Anne, una volta vista la foto sulla rivista di architettura… in realtà aveva anche aggiunto:

 

“Ma ci sei? Cos’hai in quella testa… le pigne??? Vedi di fare immediatamente i bagagli, partire e correre da lui, prima che si accasi con qualcuna più furba di te!”.

 

Alla fine di tutto, era riuscita, senza causare troppo danno all’azienda ed anche con il bene placido di Hansel, ad abbandonare quella città. Con la fine del mese di dicembre si era trovata a riorganizzare del tutto la propria vita, era tornata a Parigi da donna libera, libera da un ruolo che la soffocava, da un quasi marito che non amava e non avrebbe mai amato e da tante fisime che le avevano soffocato il cuore.

Non aveva avvisato nessuno… beh! Nessuno tranne lui… insomma la lettera ed il resto li aveva spediti per sondare il terreno… ma lui aveva taciuto. In quelle settimane era riuscita a canalizzare quell’ansia divorante nella progettazione di una nuova vita. Alloggiata in modo temporaneo al Ritz, si era detta che - non era disdicevole usufruire dei benefit aziendali e poi fino alla fine del mese lei era un dirigente - quasi per caso, aveva anche trovato la casa dei sogni, un appartamento abbastanza grande  per due o …tre persone, all’ultimo piano di un bel palazzo liberty, con pasticceria annessa. Un sogno, ma anche una buona scusa, per trovare il coraggio di chiamarlo. Miracolosamente aveva risposto, credendo che fosse Alain, però aveva risposto … ed anche accettato un aperitivo, mezza cena e due passi per parlare un po’.

Poi era arrivata l’ora dei saluti, alle undici erano nell’hall, lui l’aveva riaccompagnata.

Lei lo aveva invitato per il giorno dopo, perché doveva assolutamente vedere la casa… poi bloccata dal fermo riserbo di lui si era congedata, per pentirsene subito dopo e corrergli dietro per schiocchiargli un bacio sulla guancia con un “grazie” detto a fior di labbra.

Ora nella vasca, dopo tutta quella giornata, ma soprattutto dopo averlo rivisto e risentito le tornava in mente, in modo chiaro e assolutamente lampante, tutta la follia di quel venerdì di cinque, ormai sei, anni prima. Il giorno degli addii… della prima onda perfetta.

 

“Non posso dimenticare quel giorno in cui il passato e il presente si sono sovrapposti in modo perfetto. Forse anche tu ti sei chiesto se fosse possibile, rivivere la stessa emozione, la stessa sensazione, dopo sette anni. Non eravamo a Mirtòs, ma eravamo a casa tua, non c’erano Alain e Bernard nei paraggi, ma eravamo soli e doppiamente esclusi dal mondo esterno, sbarrata la porta d’ingresso e chiusa a chiave quella della tua camera. Non c’era l’acqua ma le lenzuola e non c’era nemmeno il sole cocente e la brezza salmastra, ma solo lame di luce filtrate dalle persiane. L’unica cosa che c’era… era l’onda. Come allora si è presentata lenta e stanca, cullandoci  silenziosamente ci ha trascinato sempre di più, di più fino a quel punto dove s’incontrano il cielo e l’acqua, quando l’onda inizia ad incresparsi e regala la possibilità di volare sulla sua sommità, poi da gentile e generosa si è trasformata  in forte e possessiva ed allora ci ha preso e schiacciato,  senza lasciarci la forza di pensare.

Un’onda assoluta, che rende la bocca incapace di respirare e parlare, gli occhi sbarrati incapaci di vedere e che lascia come unica salvezza possibile lo stringersi. Così mi sono aggrappata a te, ho allacciato con più forza le gambe intorno ai tuoi fianchi, serrando le ginocchia per non perderti, ti ho graffiato stringendo la tua schiena con una mano mentre l’altra si chiudeva sulla spalla. Mi sono persa nell’incavo del collo ed ho soffocato il mio fiato sulla tua pelle.

Eravamo lì, persi l’uno nell’altra, schiacciati come ciottoli sulla spiaggia dalla furia dell’onda.

Poi ci siamo guardati ed è stato come allora, ansanti, stremati, emozionati, solo che non abbiamo riso… ma ci siamo tuffati per cercare un’altra onda.

Dopo altre, ci siamo addormentati e quando mi sono svegliata ti ho lasciato, solo, su quel letto, che per noi si era fatto mare, mi sono rivestita, ho rubato il tuo quaderno rosso e sono sparita per cinque anni.

Fino ad oggi”.

 

 IL PALAZZO “DELLE CORNA”

 

Costruito nel Settecento, aveva attraversato il XVIII secolo abitato da una nobile famiglia prospera e felice, era sopravissuto senza troppa fatica alla Rivoluzione, al Terrore, a Napoleone ed anche alla Restaurazione. Durante il XIX secolo il bel verde pistacchio della facciata aveva lasciato il posto al grigio dell’intonaco ed al rosso dei laterizi, mentre gli eredi della famiglia scialacquavano allegramente il resto delle proprietà. L’ultimo di questi nobili perse l’edificio ad una mano di poker, contro un imprenditore poco convenzionale e molto superstizioso, il borghese ritenne che tanta fortuna fosse da attribuire ad una particolare accompagnatrice della sala, una donna piacente e dotata di una singolare sensibilità verso gli uomini e gli accadimenti del futuro, che senza battere ciglio accettò la proposta di matrimonio dell’imprenditore, fattale la sera stessa della vincita. Lo sposalizio, improvvisato da quella circostanza, fruttò all’uomo quanto la scoperta di una miniera d’oro; infatti, la moglie possedeva un’innata capacità di prevedere alcuni avvenimenti, tale dote si applicava benissimo ai nomi dei cavalli da corsa, ai numeri della roulette, oltre che a titoli del nascente mercato azionario. L’uomo ripagò la moglie donandole oltre a tutto ciò che materialmente poteva, anche un’assoluta libertà, purché prestasse le sue consulenze al momento opportuno. La donna da parte sua stimava il marito per il suo coraggio e trovava piacevole condividere parte della vita, ma preferiva dividere il talamo con ragazzi giovani ed attraenti.

Il palazzo necessitava di una ristrutturazione, ormai decadente venne completamente sventrato, ad ogni adulterio era aggiunto un piano o annesso un altro immobile. Alla fine, quello che all’inizio era stata una sobria dimora nobiliare settecentesca divenne un grande palazzo a quattro piani, con due magazzini e due cortili interni con annesse rimesse. Tutte le modifiche, eseguite in un breve intervallo di tempo, lo trasformarono in uno dei più bei esempi di architettura liberty della città.

Oltre a questi cambiamenti, l’edificio mutò il suo nome e abbandonato l’altisonante cognome di nobili origini, acquisì il meno onorifico: “palazzo delle corna”, in memoria degli adulterini incontri della moglie dell’imprenditore.

La coppia, ormai anziana, che abitava nel palazzo, ad un certo punto si vide costretta a vendere alcuni appartamenti, a causa dell’assoluta mancanza di eredi; tra i primi acquirenti ci furono due amici: Isac Label, del fu Mathias di professione barbiere e cavadenti; Claude Cassel, del fu Marc padrone di un mulino ed di un forno.

La coppia di uomini aveva lasciato quella via dal nome di torta per accasarsi nel nuovo fabbricato, considerando la nuova zona strategica per i loro affari. Isac e Claude possedevano lo stesso naso fino e occhio lungo per gli affari, in poco tempo riuscirono a creare una piccola fortuna; oltre agli interessi comuni, i due amici amavano le stesse donne, tant’è che si sposarono con una coppia di gemelle, non lo stesso giorno e nemmeno lo stesso anno.

Marelle, detta Mare, e Mirelle, detta Mire, erano piccole e docili creature dai capelli castani e gli occhi color del cioccolato al latte; Isac sposò Mare e Claude Mire, presto le giovani coppie furono allietate dall’arrivo della prole, mentre quell’anziana si spense.

Label e Cassel riuscirono ad acquistare gran parte degli appartamenti, in modo da garantirsi un futuro prospero e tranquillo.

L’influsso della donna adultera, che aveva regalato tanta fortuna al marito “becco”, aleggiava nel palazzo e spingeva gli inquilini a poco convenzionali incontri; gli amici oltre a scambiarsi favori e clienti si passavano anche le mogli, creando uno strano passaggio di cromosomi da una famiglia all’altra, al primo biondo ed azzimato arrivarono figli e poi nipoti minuti e dai capelli rossi, al secondo, che aveva la chioma color del rame ed il corpo proporzionato ma piccolo, giunsero nipoti alti e dai capelli color del grano. La mescolanza era tale, che a distanza di due generazioni e grazie  anche all’alta percentuale di parti gemellari, i Label e i Cassel mostravano, pressoché, tutti le stesse caratteristiche, con alcune leggere variabili.

Dopo quattro generazioni ed ormai nel XXI secolo, a chiunque fosse capitato d’incontrare tutti i discendenti delle due famiglie, residenti nel “palazzo delle corna”, sarebbe parso di vederci doppio e di soffrire di una leggera vertigine.

In uno dei magazzini aveva trovato collocazione, dal 1905, la pasticceria di Cassel, e di generazione in generazione il figlio maschio perpetuava l’attività; mentre il palazzo al suo interno si presentava come il piano di una scacchiera, dove al posto dei bianchi e dei neri, si alternavano i cognomi.

Al piano rialzato si trovava lo studio dentistico Label, gestito dai numerosi discendenti di Isac; oltre a tale attività, si trovavano anche lo studio un avvocato, quello di un commercialista, quello di un cardiologo e quello di un notaio. Al primo piano abitavano i Cassel proprietari  della pasticceria ed  il giovane che avrebbe continuato l’attività, rimanevano vuoti due appartamenti a nome Ricci – Label. Al secondo stavano i Label – Ardant, i Calder – Label, i Label – Cassel, oltre al cardiologo; all’ultimo piano abitava da poco una piccola Label che di cognome faceva Ricci, al lato opposto della scala suo fratello Julian e così rimanevano due appartamenti da affittare, di cui uno già in trattativa con una bella donna dai capelli biondi.

Questi erano gli inquilini del “palazzo delle corna”.

 

Continua

 

pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2006

 

mail to: tania.t@inwind.it

 

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[1] Jeanette Walls, Il castello di cristallo, pag. 34.

[2] Negramaro, “Solo 3min” dall’album “Mentre tutto scorre”.

[3] Ho modificato lo stato di famiglia, figlia unica invece che ultima di sei femmine per sottolineare la pressione esercitata dalle aspettative paterne e l’ansia che ne deriva.

[4] Mi riferisco a Pirandello, al libro scritto da Camilleri, “Biografia del figlio cambiato”.

[5] Tra le tante ff lette, “Vile chi l’abbandona”  mi ha particolarmente segnata… scritta ed illustrata splendidamente, qui ritorna nella scelta di Oscar e Fersen “sposi” lontani, ma soprattutto nel mettere André e Oscar insieme prima che tutto si compia. Omaggio ancora l’autrice, consapevole di non possedere il suo tocco nello scrivere.

[6] Splendida spiaggia di Cefalonia.

[7] Dan Brown, Il codice da Vinci, pag. 15.