Il baule

parte 1

 

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È normale per niente strano, solo banale, come tornare in quel luogo in cui si è vissuti possa risultare malinconico. Tutto sembra stretto, più piccolo, ogni angolo appare inesorabilmente legato ad un avvenimento - lieto o triste poco importa - e le cose che vedi, senti, nell’immediato sembrano pesare il doppio o anche il triplo. C’è un carico superiore a ciò che si prova nel presente, c’è un passato ed un trapassato, tutto lì insieme in quel momento, in quello spazio.

La città in parte cambiata, così come le persone per come sono vestite, pure loro, anche se certi segni sul viso rimangono costanti in tutti i tempi.

Sembra quasi irreale, impossibile, che in quelle piazze sia colato talmente tanto sangue da renderne rosse le pietre, mentre ora sono grigie e lucide. Il colore rimane la costante.

 

La casa è nuova, appena costruita secondo i moderni canoni dell’abitare più pratici, o forse solo più democratici… forse.

Non c’è molto in quel villino a due piani. Appunto. Solo due piani. Un piccolo giardino sul fronte  e sul retro uno più grande. Niente a che vedere con i parchi e i boschi del passato, in questi due fazzoletti di verde l’unica cosa capace di correre potrebbe essere una pulce.

Già! Anche questo parassita gode di uno spazio nella memoria capace di pizzicare la mente.

Le pareti sono intonacate di un bel giallo paglierino e la pietra grigia segue ed ammorbidisce le orbite delle finestre, delle porte, poi accucciandosi al terreno permette l‘ingresso dal portone di noce. Tre gradini. Nulla confronto ai mille scalini di candido marmo di quel tempo passato. Nulla.

La ringhiera poggia su un muretto basso, il ferro si piega in sobrie ed altere volute poco più alte di una persona, al centro s’apre un piccolo cancello. Il vialetto non è altro che uno stretto corridoio acciottolato tra due aiuole. Sembra tutto stretto, riassunto, semplificato.

Entrando, in casa si sente l’inconfondibile odore delle cose nuove ed è un sapore polveroso di pareti dipinte da poco, di legno, di cera, di vuoto ed assenza.

Il bagaglio è appoggiato ai piedi della scala di rovere, che s’avvolge verso il piano superiore. Ci sono tanti bauli, casse e borse, forse in numero maggiore di quanto, effettivamente, possa permettersi quel piccolo ingresso. Alcuni mobili sono già stati sistemati, ma portano ancora quel manto bianco, che tanto ricorda un sudario.

Perché alla fine si torna sempre in quei luoghi?

E perché, nonostante tutto, tentando di percorrere una strada ancora diversa, si scopre che in fondo ha il sapore del destino che t'insegue fino alla fine dei tuoi giorni?[1]

 

1809

 

Non ci si accorge subito che qualcosa non funziona, non direttamente o consapevolmente, per lo meno non all’inizio; ma, di certo, c’è sempre un dettaglio che stona, qualcosa che attira l’attenzione, cosa che spesso non si è disposti a concedere e che si seppellisce subito dietro la noncuranza.

Così in quell’ordinata confusione ai piedi degli scalini si trova quel particolare discordante, l’errore, il dettaglio fuori luogo. Solo che non è ancora giunto il momento.

 

Nell’atrio, dopo pochi minuti, compaiono due ragazzette, dall’aria gioviale e dai capelli scuri chiusi in candide cuffiette. Senza tante parole, iniziano a manovrare i bagagli, spostandoli con relativa facilità nelle stanze deputate. Tutto in silenzio. Già, perché quando la “signora” ha quella faccia è meglio non distrarla con sciocche chiacchiere.

Alta e dritta, nonostante l’età, per le giovani la “signora” è sempre un mistero. Zitella. Questo di sicuro; anche se, da giovane, doveva essere stata una bella donna, probabilmente avrà avuto un carattere terribile per non trovare nessun “barbagianni” che se la pigliasse. Allora sarebbe il caso di chiamarla “signorina”, ma in questo modo si accentuerebbe ancor di più il suo stato, chissà forse in tempi futuri il fatto di non essere sposate, o vedove, sarà indicato in modo meno spregiativo, e magari… diverrà pure un vanto… chissà!

Fatto sta che nel XIX secolo avere più di cinquanta anni, essere donna e senza marito, nel pensiero comune significava solo una cosa. Appunto quella.

La “signora” per le ragazze, da poco al suo servizio, godeva dello stesso fascino della sfinge - ovvio che le gentili signorine non avevano mai visto la possente creatura - ma avevano arguito che la loro “signora” diceva ben poche parole ed il più delle volte dotate di un doppio senso, inoltre aveva vissuto molto più di loro e sempre con quel tono di superiorità, che si riconosceva nella voce, nel modo di tenere alta la testa, nell’ammiccare dello sguardo.

 

Quando giunsero al suo servizio non vi arrivarono inconsciamente, sapevano benissimo che si sarebbe trattato di una piccola guerra di logoramento. Era noto quanto fosse difficile reggerle, da un minimo di tre ore ad un massimo di tre anni. Ciò era da considerarsi il record, nessuna ragazza era riuscita a sopportarla quanto la giovane Ivonne, che a detta di tutti era mansueta come una mucca nella stalla, oltre che paziente come Giobbe.

Marie e Luise appena arrivate, avevano subito preparato il trasloco ed ora si trovavano, veramente, a dover vivere con la “signora”.

Agli occhi di chi lavora da quando è nato, certi atteggiamenti paiono ridicoli, si potrebbe quasi pensare che sia tratti d’invidia, ma a volte è semplicemente il punto di vista di chi ha vissuto preoccuopandosi dell’essenziale, della sostanza e poco della forma. Ovviamente, essere il personale di servizio in casa di famiglie facoltose, implica che ci sia una sorta d’educazione, o sgrossatura, e che quindi ci si attenga ad una determinata forma, la più conveniente agli occhi del padrone.

Marie e Luise come educande si erano piegate alle regole di casa, niente di strano o pericoloso, semplicemente avevano a che fare con una persona rigida, fredda, severa e formale.

Inoltre, è noto come ad una certa età le abitudini siano fondamentali ed alcuni lati del carattere diventino affilati come rasoi.

Le due giovani erano ben consapevoli della loro fortuna, riassumibile in: un tetto, del cibo, vestiti (ma soprattutto nel fatto che non correvano il rischio di dover soddisfare “particolari” richieste di un qualche “signore” troppo attento alla sua servitù).

Figurarsi un uomo in casa della “signora”… beh… in realtà, non è che ricevesse molte visite, anzi proprio nessuna. O meglio, le uniche persone che varcavano la soglia, lo facevano perché erano state invitate per discutere… d’affari. Non c’era altro, nessuna visita di cortesia o piacere.

Niente parenti, niente amici.

Strano vivere con una donna così diversa, così particolare, certamente qualche stravaganza le era concessa in nome dell’età e della posizione sociale.

Ridurre a tutto ciò la complessità di questa “signora”, a dire il vero, pareva ingiusto anche alle due giovani servette, che alla fine di tutto, ne subivano l’indiscusso fascino.

 

Cos’è una donna d’affari nel 1809? Come può una donna disporre così liberamente di denaro e libertà?

Non è solo questione di famiglia, anche perché la “signora” sembra non possederne una d’origine e nemmeno una successiva, sembra essere sola, come un albero trapiantato, come uno di quegli ulivi circondanti da un basso muro a secco, isolato nel bel mezzo della terra brulla e spazzata dal vento.

 

Le ragazze erano cresciute in un piccolo paese, una gemma verde abbastanza lontana dagli orrori della città e dalla follia degli uomini. Terra di mezzo, confinante tra due monasteri. Uno di vecchio retaggio cluniacense e l’altro cistercense. Come dire… in mezzo a due regole di vita, sulla strada che portava a Santiago. Quella terra era da sempre nota come produttrice di vino, non un semplice liquido, ma qualcosa d’eccezionale e straordinario. Purtroppo, per vari motivi la produzione cessò, e si compì il delitto di pianare i filari dimenticandosi del rubino, relegando il tutto in un passato lontano ed inavicinabile.

Fino a quando, in piena Rivoluzione, non arrivò questa donna, che con pazienza, si mise a coltivare la terra e gli uomini. Recuperò dal ricordo di quella gente, che in parte era anche suo, il colore dell’uva.

Sulla questione della proprietà della terra, sull’esproprio agli ordini monastici, e su tutte le altre questioni rimase sempre un dubbio… Come fece?

Alla fine la vite ricoprì i pendii delle colline, rigogliosa e fronzuta circondata dai meli, di cui conservava il profumo.

In quella terra ritornò il rubino e con lui l’abbondanza, come una grazia, come una possibilità.

 

Questa certo era la prima stranezza: che una donna si occupasse di vino in prima persona, altra stravaganza e che queste bottiglie fossero così richieste e ricercate da superare i confini della nazione, e che questa donna ne facesse apertamente commercio.

Il vino la rese ancora più ricca e facoltosa rispetto alla media del paese, certamente più del dottore, del farmacista e pure di quell’avvocato e del notaio, che abitavano poco lontano.

Certo che, una situazione del genere aveva permesso il moltiplicarsi di tante voci, di pettegolezzi, di chiacchiere tra comari. La più incensata era la seguente: qualcosa ci deve essere… avrà venduto l’anima al diavolo…

Poco edificante come commento, ma se s’intende l’anima come la capacità di manifestare i sentimenti, tutti quanti, allora si potrà comprendere il rapporto tra l’algida presenza di questa donna ed il dubbio della gente.

Mutilata dell’affetto, monca di tenerezza, priva di dolcezza, senza malinconia. Per lei non c’era dolcezza nel ricordo, non c’era e basta.

Forse sì, era quasi logico pensare che avesse ceduto tutto ciò per arrivare ad avere terre e vino, o quella libertà d’azione e comportamento, per essere la “signora”.

A ricordo di tutti i paesani non era mai stata cattiva, anzi cercava l’equità. Non era mai triste e non era mai felice.

 

È Luise che si accorge di un bauletto di cuoio. Ai piedi della scala, sotto i raggi di un sole mielato, lo guarda un po’ perplessa.

Questo non lo ricordo, che cosa ci sarà dentro? Dove lo porto?

“Marie, scusa questo lo hai preparato tu? Ti ricordi cosa contiene?”

“Eh? No, non lo so. Abbiamo chiuso tutto insieme”.

La voce arriva da un’altra stanza, un po’ affannata e scocciata.

 

2

Il filo di Arianna

 

La carrozza culla con il suo incedere i pensieri, mescolandoli tra loro creando una sospensione senza nome, colore, odore, in cui tutto si perde. Quando si viaggia da troppe ore la mente si sfilaccia, s’intorpidisce.

Arianne, accucciata, si è rannicchiata in quell’angolo per cercare di stare ferma, per non ballare troppo ad ogni scossone, per cercare di arrivare ancora capace di intendere e volere. Sola. La solitudine l’inquieta, l’ha sempre messa a disagio. Adesso è ancora più sola, nonostante tutto quel viaggio, tutta quella distanza che c’era tra loro… c’era…

Adesso non c’è più nemmeno quella, perché manca uno di quei punti… se prima c’era una linea che da A arrivava ad S, ora c’è solo una A che non ha più quell’S a cui tendere.

Sibille.

Quando il postiglione frena lei crolla definitivamente a testa in giù, ingarbugliata nelle vesti, ridestandosi di colpo con i sensi a rovescio come lo stomaco.

“Signorina, si sente bene?” è premuroso il cocchiere, paterno verso questa ragazza.

“Sì, grazie” e poi con quel piglio ritrovato da chissà dove, che presto abbandona davanti alla faccia larga e buona, oltre che polverosa, dell’uomo, riesce solo a pensare: veramente sono Signora.

Il cerchiolino d’oro brilla, nuovo fiammante o quasi, all’anulare sottile di quella giovane mano, sì può bastare come segno, non servono le parole.

 

Cocciuta e testarda non ha desistito.

Voleva arrivare prima di tutti. Già, perché, l’intrepida viaggiatrice non è altro che la moglie di quel dottore, arrivato qualche mese addietro, nel nuovo quartiere residenziale. Il Dottor Grenoble, Albert Grenoble, di anni trenta, noto e stimato ma soprattutto ben voluto dalle persone.

Lei è Arianne, di anni diciannove, sposata al dottore, di cui prima, da quasi un anno.

 

Dopo aver pagato il cocchiere e scaricato il leggero bagaglio nell’ingresso, senza perdere tempo si precipita a controllare che il resto sia arrivato.

Le cose erano filate lisce fino a due terzi del viaggio, ma arrivati a Marsiglia i ritardi si erano succeduti e così i piccoli malintesi.

Alla fine, era riuscita a trovare solo un posto, gli altri avrebbero atteso il giorno successivo, aggiungendone così due all’arrivo.

Perché le coincidenze si chiamano così quando non coincidono mai!

Doveva arrivare assolutamente entro il 15 aprile, per riuscire a ritirare quell’ennesima stranezza inviatale dalla madre, donna che faceva trasparire in ogni piega del carattere il suo nome. Sibille.

 

La delusione preme contro il petto, come una lastra di marmo con i caratteri incisi. Tutto è stato vano. La corsa, l’affanno, il dividersi. Tutto vano. Dalle pieghe della fodera Arianne recupera l’ultimo biglietto, l’ultimo sibillino lasciatole dalla madre.

“Mi dispiace mamma, questa volta non ci sarà un’altra possibilità. I tuoi sibillini non hanno retto. Il dado è stato perso”.

Una lacrima chiara e salata riga il viso, bagna la pelle di pesco e scivola sulla fossetta al centro del labbro superiore.

Il bauletto non c’è, non ve n’è traccia e lei è arrivata con un giorno di ritardo. Nonostante tutto.

Rimane quel sibillino tutto striminzito a ricordarle quella donna così speciale, a cui somiglia tanto.

 

Mio piccolo tesoro,

lo so che sei grande e pure sposata, che sei  una donna ed una anche moglie, ma per me sei il mio piccolo tesoro e sempre lo sarai.

Questo è il mio ultimo sibillino, così come li chiama quell’uomo splendido che è tuo padre, e per fortuna mio marito.

Tesoro, ho fatto un gioco, ancora una volta… tanto per cambiare. Ti ho spedito un baule all’indirizzo della nuova casa, tua e di Albert. Dentro c’è l’altro mio tesoro e segreto… sì ne ho tanti, ma questo non è fatto di carne e di ossa, ma di fatti avvenuti, di coincidenze, di volontà.

L’ho custodito, anzi l’abbiamo custodito lontano dai tuoi occhi, ma non dal tuo cuore.

Tu conosci la storia che ha portato “la testarda Sibille” al suo “principe che aveva dimenticato come si sorride”, te l’abbiamo raccontata tante volte. D’accordo col papà riceverai questo sibillino solo ed esclusivamente il … del  mese di  … del 1809. Il baule arriverà a Parigi il 15 aprile di quello stesso anno e tu dovrai riceverlo. Poi sarà tuo e dovrai decidere.

Ricordati, tesoro mio, che la mamma ti vuole bene sempre e comunque ed anche da ogni dove.

 

P.S. Se lo dovesse ritirare un’altra persona… allora le apparterrà, e tu lo potrai riavere solo se sarà lei a riconsegnartelo in piena libertà, senza costrizioni… ricatti o giochetti vari… (guarda che ti conosco ed immagino benissimo cosa saresti capace di fare!)

Il dado è stato lanciato.

 

Sibille

 

Arianne lo rilegge ancora, ancora e poi un’altra volta, come se in quelle righe ci fosse la soluzione. Già, perché quei bigliettini di carta, quelle parole vaganti hanno sempre un senso, piccoli enigmi con la soluzione nascosta tra le righe. Ma in questo giorno d’aprile, col sole stanco all’orizzonte, la bimba sveglia e maliziosa non riesce a collegare nulla. Con l’animo fiacco si mette a gironzolare per casa, la sua reggia e la sua tana. I giorni di lontananza hanno lasciato il loro polveroso segno su ogni cosa. Certo che, un mese può essere breve, come lunghissimo. Il giardino sembra dormire. Il suo adorato giardino, con tutte le sue piante ed erbe, con quella piccola serra talmente minuta da sembrare una casa per le bambole. Questa primavera tarda, a metà d’aprile il cielo è ancora gonfio e grigio ed il sole tenta timidamente di farsi spazio tra i lunghi cirri. La vita riposa. Distratta dal pensiero dei suoi bulbi, quelli bianchi e gli altri colorati, della magnolia, del gelsomino, degli agrumi, delle ginestre, del tiglio e dell’acero, delle rose e delle margherite, alla fine di tutto si accorge che la casa di fianco è aperta.

Sembra un fulmine a ciel sereno.

“No, non ci posso credere… vuoi vedere che…” i pensieri si susseguono uno dinnanzi all’altro, come i passi svelti, nonostante il fango trattenga le suole.

C’è un punto all’angolo con la siepe che permette di osservare meglio, e lì si accuccia come un leprotto, con le mani si fa spazio tra i rami e piano, piano riesce ad aprirsi un varco.

La casa è effettivamente aperta, le finestre, le luci, il fumo dai comignoli. Il villino giallo è abitato, quindi… ci sono dei vicini, gli unici, considerando che la villetta rossa di Grenoble è l’ultima del viale dei tigli.

La posizione è strategica e non manca di portare i suoi risultati, ecco, infatti, che dall’uscita secondaria sgusciano fuori due cameriere. Sembrano agitate e parlano gesticolando, hanno un fagotto in mano e se lo passano come se scottasse.

Alla fine, si siedono sui gradini, la più alta lo tiene in grembo e lo svolge dal panno.

Un piccolo baule di cuoio.

“Grazie! Grazie! Grazie! Lo sapevo… insomma, no, lo speravo. Cara Sibille, ha ragione papà quando dice che ne sai sempre una in più…” e nel cervello già si festeggia, perché il baule è certamente quello, anche se non si è avuto modo di appurarlo di persona… ma ci sarà presto l’occasione, o meglio bisognerà crearla.

Rialzatasi dal suo nascondiglio, Arianne prende a passeggiare tenendo l’orecchio ben teso… gira attorno all’isolato seguendo il vento che da contrario le si fa amico, portandole l’eco delle ragazze.

“Che guaio… come facciamo! No, non è possibile, proprio adesso”.

“Dici che è così terribile, e se le dicessimo la verità… che cosa abbiamo fatto di così sbagliato?”

“Ma non capisci, abbiamo trascurato una parte importante del lavoro, questo non è suo… è stato portato per sbaglio… ma da chi? Vuol dire che qualcuno, che non era uno dei facchini che abbiamo pagato lo ha sistemato in casa, quindi un estraneo è entrato e noi non ce ne siamo accorte!!! Se invece, lo ha messo lei… è pure peggio, perché ci sta mettendo alla prova e se le diciamo qualcosa e capacissima di tenderci un tranello, e se non le diciamo nulla potrebbe pure essere peggio!”

“Dici??? Proviamo a dire la verità! Mettendo via il bagaglio ci siamo imbattuti in questo. I facchini hanno caricato e poi sono venuti qui da soli, c’è stato il custode ad aprire… magari è stato lui…”

“Cosa? Ad aggiungere un baule? Perché?”

“Proviamo, così stiamo perdendo solo tempo… e lei ci ha detto di sistemare tutto per il suo rientro, se ci trova qui sulle scale a parlare è capace di lasciarci direttamente fuori di casa, senza lavoro”.

 

3

La valle si apre e l’aria si scalda[2]

 

Il cielo è una lastra compatta di nuvole, solo pochi raggi riescono ad oltrepassarla come sparuti viandanti, è un cielo che non offre consolazioni, che non regala scuse. Fermo e silenzioso.

All’Auberge de la Poste le persone aspettano la coincidenza che li porterà in altri luoghi, ed anche quel gruppetto di persone aspetta la carrozza giusta.

 

Per un periodo della sua vita non aveva viaggiato, ed era rimasto affascinato dai racconti del Grand Tour di quel giovanotto svedese, con una punta d’invidia per tante altre cose. Credeva di essere uno stanziale, ma non si può mai dire…

Lì davanti a quel vetro, nel silenzio di una stanza che non è quella di casa, riesce quasi a vedere la sua vita come una mela, divisa in spicchi di diversa grandezza.

Un tempo pensava che quella parte fosse il tutto, ma poi era giunto un altro momento, o meglio si erano avvicendati altri attimi, altri respiri che con la forza del vento lo avevano condotto altrove.

Adesso è solo, si sente solo, ed è una sensazione che credeva di aver dimenticato, o che per lo meno sperava di non dover più provare. Come quando era scomparsa la madre, e poi il padre e così per tutte le persone a cui aveva voluto bene; anche, quando l’aveva lasciato l’esperto, si era sentito così. Ormai, dopo tante avventure, lo pensava immortale ed onnipresente come la terra che si calpesta e che lui conosceva nelle sue parti più nascoste e impenetrabili. In quell’occasione lei c’era, col sorriso che scaldava e gli occhi dorati, che brillavano come due soli. Lei c’era, ed era strabiliante ripensare a quel loro primo incontro…

 

Lo ricordava esattamente quel momento, l’istante, il passaggio.

La valle si apriva, allargandosi da quella stretta gola che l’aveva accompagnato fino ad allora, ed era lì, in quel preciso momento, che si poteva avvertire sul viso che l’aria si scaldava. Era piacevole e sorprendente.

 

E così fu con quel sorriso, garbato, delicato e sconvolgente, per chi credeva di aver dimenticato che potesse esserci ancora qualcosa capace di scaldare in profondo, senza bruciare, senza devastare.

Così a quel sole giallo aveva alzato il viso, chiuso gli occhi e stirato le lebbra in una piega gaia, lasciando che quel tepore passasse dalla pelle infreddolita e segnata dal gelo allo strato sottostante, ai muscoli ed alle ossa.

Come davanti all’astro di carne aveva lasciato penetrare il calore oltre quella scorza dura, oltre a quel callo indurito dalla vita; era un sorriso da bambini, schietto, senza timori e senza fine.

E lì iniziò, veramente, un'altra via, un’altra storia.

L’altra vita del signor Grandier.

Prima di allora c’erano state altre scelte, altre vie percorse all’inizio per stanchezza e rassegnazione, poi con rinnovato entusiasmo, soprattutto intellettuale e poi… Sibille.

Andando con ordine: il primo segnale lo ebbe in una chiesetta, ai margini della tenuta nobiliare, davanti a dei discorsi che sapevano poco di sermoni incensati. In mezzo ad uomini intabarrati, seri e attenti si era accorto di quell’ometto, smilzo. Poche parole, si erano scambiati qualche parere, ma non era riuscito a capire di dove fosse. Aveva nel modo di sciogliere lettere una dopo l’altra la cadenza di chi ha viaggiato e porta con sé i ricordi di diversi paesi.

Anche a corte gli era parso di vederlo, un attimo, ma in quel momento non ne era stato del tutto convinto, solo dopo alcuni anni, davanti ad un camino lo stesso uomo gli avrebbe confermato quel dubbio. Più volte all’osteria, quando affogava nell’alcol… a volte lo sentiva, o meglio lo percepiva a certi crocicchi, ma non come una presenza malvagia o pericolosa, ma piuttosto come un custode.

Ed alla fine il giorno dopo, quel 15 luglio 1789, all’angolo di una strada, dove lo aspettava in una carrozza, e lui sapeva che l’avrebbe trovato lì. Stanco, sporco, ricucito non aveva esitato ad entrare, al muoversi delle tendine, mentre la mano guantata gli apriva lo sportello. Era salito e la piccola vettura nera era corsa via come trainata dal vento.

Pochi giorni prima aveva detto “NO” a lei, a quella donna che aveva creduto essere l’unica, ma che non avrebbe mai trovato spazio per lui. Avrebbe dovuto accompagnarla a casa, ma non lo fece, preferì i suoi compagni, il cameratismo di chi sa che il giorno dopo sarà carne da macello. Lei era rimasta perplessa e forse anche commossa, o forse solo sorpresa di fronte al suo un rifiuto, lui che non le aveva mai negato nulla. Provò ad insistere, gli prese anche la mano, ma lui la chiuse tra le sue e la riportò lungo i suoi fianchi, vicino alla spada, dove era giusto che stesse.

Poi si congedò, come ogni sottoposto fa davanti ad un suo superiore.

Il giorno seguente combatterono per la stessa causa, ma su fronti diversi, e si videro un attimo a sera fatta. Il 14 luglio cadde la Bastiglia, venne preso il simbolo dell’oppressione borbonica da parte del popolo in rivolta, e loro stavano da quella parte… ormai uguali. Non si parlarono, d’altro canto erano anni che non lo facevano più, avevano dimenticato entrambi come si faceva. Per parlare bisogna essere in due, come a fare altre cose, ma per il primo verbo il tempo era passato e per il secondo non c’era mai stato.

La recise da sé, strappò via un po’ di carne, sanguinò per molto tempo e poi cicatrizzò. Abbandonò tutti quei sentimenti che spingono un uomo a dire che ama una donna, allontanò la passione e si concentrò su altro.

Divenne l’uomo di fiducia dell’esperto, viaggiò, imparò viaggiare con lui, il che era molto diverso dai racconti di quel nordico slavato. L’esperto era veloce, conosceva esattamente dove, come e quando fermarsi e soprattutto da chi. Ma chi era e cosa faceva?

Era l’esperto più richiesto sull’ecumene, dai governi illuminati, dai sovrani dispotici, da nobili e facoltosi borghesi. Una sua valutazione, un suo expertise influiva pesantemente nei bilanci di grandi, medi e piccoli stati. Lui conosceva la terra nei suoi segreti, la capiva, la leggeva e si faceva pagare per questo servizio. Nell’arco della sua vita aveva guadagnato diversi quarti di sangue nobile da tutte le maggiori casate europee, oltre che a terre, anche un’isola, e partecipazioni a certe manifatture. Era l’eminenza grigia che si chiamava per risollevare un bilancio, il suo rapporto era capace di suscitare una guerra. Lui sapeva leggere la terra, e rispondeva alla follia degli uomini senza mezzi termini.

“La miniera produrrà per soli tre anni, al ritmo di … d’oro al giorno”.

“I diamanti potranno essere estratti solo fino a … piedi”.

“La zolfatara ha una falda contaminata”.

E così via, dai metalli per gli utensili, all’oro e all’argento fino alle pietre preziose, la sua capacità non conosceva limiti. La sua attendibilità non conosceva smacchi. Era capace di risalire fiumi, trovare foci, seguire falde e scovare nuovi giacimenti, entrare nella terra per capire, per sentire.

Fiutava, assaggiava, toccava, il suo era un contatto fisico e totale. Ma era anche capace di vedere ciò che gli altri ignoravano, un cambiamento di colore nell’erba, un avvallamento, un’ombra, una curva, un riflesso. Ascoltava e guardava.

Era temuto e rispettato, anche perché quei pochi che cercarono di imbrogliarlo, pagarono in modo atroce. Ebbero tutti delle fini orrende, ma non imputabili a vendette dirette, sembravano, piuttosto, delle “giustizie” causate da un fato beffardo.

Così alla sua bravura si aggiunse anche la paura, il che non guastava.

Era stato lui ad affidargli il compito di andare a prendere il “suo” più grande tesoro. E lui, da solo, ormai esperto e capace di muoversi senza incappare in briganti, o in vari ed eventuali cattivi incontri, era partito. Sapeva dove fermarsi, quando, e da chi, sapeva cosa doveva dire e come lo doveva dire, non lasciava traccia.

Il “tesoro” era custodito presso il monastero di Nostra Madre della Buona Salute, arroccato tra gli abeti e le alte cime delle Alpi, in una terra al confine del mondo, tra le ultime propaggini della terra, innalzate come robuste dita di una mano, e il cielo. C’era ancora della neve, rimasta all’ombra degli alberi che già profumavano di resina, nelle gole meno esposte al sole, quelle a nord.

L’aria pungeva come fosse fatta solo di spilli, ma appena si arrivava presso la valle tutto cambiava.

Abbandonato lo stretto percorso, si poteva godere della natura, delle sfumature di verde sui campi appena gemmati, delle cime rosate che orlavano questi laghi d’erba.

Glielo aveva detto anche il pastore senza bestiame:

“Dopo… la valle si apre e l’aria si scalda”.

E così era stato.

 

Fine I parte


 
 

pubblicazione sul sito Little Corner del novembre 2007

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mail to: tania.t@inwind.it

 

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[1] Grazie Luana.

[2] Questa frase, anche se non ricordo perfettamente la traduzione, dovrebbe appartenere:

J.W. Goethe, Viaggio in Italia.

Perdonate la memoria da antologia delle scuole medie, si tratta di un ricordo molto lontano.