At my own Risk

part 4

 

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In questi sprazzi generosi di luce concessa dalla luna nuova, vedo i suoi tre quarti splenderti addosso, mentre l’ombra del mio corpo sul tuo inquadra l’espressione languida, emozionata, del tuo viso. Dovrei ringraziare per questo supplemento, davvero, non ci contavo.

Abbiamo lasciato poco spazio al corteggiamento formale. Ti ho fatto il filo per tanto tempo, mentre tu mi hai sedotto nell’arco di un respiro. Sotto la luce stellare che ti copre con il suo velo invisibile. Andiamo giù, più a fondo, mentre il tempo si cancella assieme  allo spazio, e noi rapiti nell’incanto della carne.

So che, mentre sono in te, recupero il posto che è sempre stato mio: speravo fosse così, ma chi sono io per pretendere che tu sia sempre rimasta fedele ai tuoi principi? Io non l’ ho fatto e come un dannato maniaco sono andato alla ricerca di altro per spegnere l’incendio che certi pensieri provocavano nella mia mente, che rischiavano di lasciare altra terra bruciata intorno a noi. Quando ho preso il sesso di altre non pensavo a te, nemmeno a me. Sentivo il mio corpo placarsi nei loro liquidi; liquidi che mi sono scivolati addosso, ma che non ho mai assaporato. Ho preso sempre precauzioni, svilivo le altre nel momento sublime accanendomi a controllare che di me non ci fosse nulla, che non restasse niente del tradimento accurato che perpetravo a danno nostro.[1] Continuavo a pensare di noi come se un noi, un giorno o l’altro fosse stato possibile. Non so nemmeno se il verbo giusto da coniugare sia questo, però, ho continuato a massacrare il cervello con i miei voli arditi , ma le mie speranze, ali di cera come quelle di Icaro, si dissolvevano in prossimità del sole. Dentro di te, dentro di noi, vivo il nostro scambio e ti lascio condurre il gioco, perché, a differenza tua, non ho paura e non devo vendicarmi di niente. Lascio che tu faccia ciò che vuoi e sono sicuro che saprai come condurre la partita. Il mio corpo si annulla dentro il tuo, mi sento fluidificato e potente e ti scorro, inondandoti, annidandomi in ogni recesso di te. Sono tuo, ti appartengo e tu lo sai. Vorrei restare con te fino alla fine di questo tempo mobile, vedere scorrere gli anni e le stagioni.

 

 

Io non sapevo di questa necessità di dividere per essere. L’avremmo scoperto anche se André non avesse avuto bisogno della mia voce per sapere del mondo? Sì. Sono sicura.

 

 

Ed io gli chiesi, svagata e innamorata, se gli andava di sposarmi.

Quante espressioni ha il viso di André?

Quante ne conosco?

Me lo domandavo mentre, di colpo, avevo cominciato a dare peso e forma alle parole che mi erano scappate, stiracchiandomi come una gatta su di lui.

Quante cose sarei stata capace di fare e dire da quel momento in poi? La presente situazione lasciava me perplessa, mentre il mio adorabile ragazzo sembrava godersi la quiete della nostra intimità. Ho sempre supposto che la mia proverbiale timidezza avrebbe impedito di affrontare in maniera rilassata una possibile quanto improbabile storia d’amore. Quando mi era capitato di pensarci, avevo sempre immaginato cosa avrei fatto io, ma ciò che l’altro sarebbe stato capace di fare a me… non ero mai riuscita a visualizzarlo.

E’ strano come un viso, familiare e amico, amato in ogni legittima sfaccettatura, possieda quella variazione, ignota e necessaria della scoperta straordinaria.

Sollevai uno sguardo imbarazzato a lui che teneva gli occhi chiusi. Fissai la forma delle sua labbra e mi persi nel movimento che compirono nel momento in cui, la sua voce, mi attraversò dentro, come  una corrente

“E’ la cosa che più desidero…”

“Ah, bene…” sussurrai con una voce che voce non era. Misurai l’effetto del mio stesso sbigottimento, mentre mi ritrovavo a pensare che quella risposta aveva cambiato definitivamente la mia vita.

Vorrei, desidero… erano verbi che la voce di André non aveva mai coniugato, parole che mai gli avevo ascoltato e che mai avrei voluto ascoltargli, perché, nella mia assoluta incoscienza e follia, speravo, volevo e desideravo che lui fosse e restasse solo mio.

Sì, va bene, so che André è un po’ matto e anni fa, quasi con sadico accanimento, mi chiedevo che tipo di ragazza avrebbe fatto breccia nel suo cuore e, nel momento in cui la figuravo, mi ritrovavo nervosa e depressa, come se qualcuno fosse venuto di punto in bianco a disturbare la mia quiete. Un giorno mi sono ritrovata nei suoi pensieri, mi vedeva come fossi la cosa più bella su questo mondo – e il mio umorismo mi porta a ricordargli che non è difficile vista la qualità del mondo… - ma, de gustibus… ho tentato di fargli capire, fino a quando mi sono arresa e mi sono assicurata il suo amore totale. L’ ho riscattato dopo una vita, ma è stata una forma di investimento lungimirante, mi sentivo soddisfatta di essere sempre stata innamorata di lui e non averglielo fatto sapere prima, perché, conoscendomi, avrei finito col rovinare qualcosa di bello. Ero troppo presa dalla quiete improvvisa che si era fermata nella mia vita e non avrei permesso a niente e nessuno di rovinarmi i progetti. E’ strano svegliarsi, un mattino, e sapere che hai una ragione per essere contenta, e non ti senti in colpa se sulle labbra perdura un sorriso soddisfatto. Mi sentivo in sintonia con il resto delle cose, finite ed infinite, dentro di me avevo assaporato la profondità della pace.

 

 

Il giorno dopo essere stati insieme, ci siamo incontrati nel salone, circondati da tutto quel resto che non faceva parte di noi.

 

Sono entrato nel tuo corpo e ho dimenticato l’ inferno. Ieri.

Vorrei sapere come ti senti. Oggi.

Come stai. Adesso.

 

Lo capivo dal suo modo di guardarmi, quando tutto ti sorprende e non ti appartiene ancora.[2]

Mi sono sentita persa, improvvisamente fredda. Osservavo il suo sorriso e credevo che fosse troppo per uno che avrebbe desiderato stare solo con me e invece non poteva farlo. Ho temuto di trovare una realtà amara, come se, dopo quella notte, avessi dovuto dannarmi per avere vissuto un solo giorno d’amore.

Non si può sopravvivere al suo amore.

 

“Hai tempo prima di andartene?…” ha bisbigliato approfittando della momentanea distrazione del Signor Padre.

“Dietro le scuderie, tra cinque minuti…” gli ho risposto senza guardarlo, e le ginocchia si piegavano mentre il suo dito mi sfiorava il palmo della mano.

 

Avrei sopportato quella visita obbligatoria dalla regina, perché sapevo che al ritorno avrei avuto la ricompensa per essere stata lontana da lui, il primo giorno della nostra vita.

Se n’è andato così come era venuto. Il signor padre non si è accorto di nulla.

E’ invecchiato parecchio… Ma io sono ancora giovane e non mi mummificherò con lui, per lui, in questa casa.

Le braccia conserte, una gamba a fare da perno contro l’albero verso cui si era addossato.

 

Il ricordo di lui dentro di me… il brivido.

 

Nel suo sguardo c’era il sole.

Nel mio sguardo c’era lui e pensai a quante sfumature verdi circondavano il mio mondo.

Pensai che quello era il mio colore.

Un passo da lui, ho attentamente valutato.

 

Ci sarò quando si sarà fatto scuro dentro i tuoi occhi…

 

La mia schiena contro la corteccia dell’albero: il suo vantaggio su di me.

Le mie mani sotto la sua camicia: il mio vantaggio su di lui.

Labbra, bocca, lingua, baci: battaglia persa o cominciata. Per tutti e due.

 

Non possiamo andare avanti illudendoci che tutto vada bene…

 

Gli accarezzai il viso con entrambe la mani. “Devo darmi una mossa…”, gli dissi appropriandomi di un altro bacio

 

Le sue braccia intorno alla vita mi sorreggevano, mentre, io, col capo reclinato all’indietro e le sue labbra sul collo, ridevo e osservavo il chiarore del cielo spiegato sopra di noi, come una coperta soffice e calda.

“Stringi meglio i lacci della camicia…” fece con un’aria seria che creava strane suggestioni.

Cosa? Ero davvero sbalordita, avevo cominciato a fare i conti con quella parte di André che non avrei mai immaginato. O considerato.

Era geloso? Sì. Tanto.

Non so nemmeno io cosa ho provato a quell’apparenza di rimprovero. Forse era agitazione, ma, in ogni caso, mi sono sentita catapultata in una specie di mondo parallelo, dove, Oscar, ubbidiente ma disinvolta, lo prendeva in giro facendogli notare che:

“Sopra ci va la giacca e… metterò il mantello: a giugno ci vuole!”

“Per me ci starebbe anche un cappello con veletta nera…”

“Perché non vai a farti una lunga cavalcata, Grandier?”

“Mi ci mandi?”

“Mica sono gelosa, io!”

 

Risponderò quando chiamerai. Ascolterò i tuoi sogni…

 

 

“Non siete più venuta a trovarmi…” nella voce di Maria Antonietta c’era sempre un tenue, schietto, accenno di rimprovero. Ci accomodammo nel salottino, una volta tanto non affollato dalla chiassosa e snervante presenza dei reali fanciulli. Bevemmo del cognac. Ed io pensai a come mi vedeva la regina, se percepiva in me qualcosa di diverso. Un po’ sotto pressione, ero in quella giornata nuova. Se avessi potuto, a quel giorno, avrei attribuito un nome diverso che non fosse lunedì, e la mente vagava alla ricerca del sinonimo adatto, uno che fosse capace di contenere tutto il mio stupore, la magia creata da me e André, quella che eravamo stati capaci di farci senza dover scavare in repertori precostituiti. Ci siamo amati, semplicemente. Abbiamo fatto l’amore, semplicemente. Naturale, unico, indispensabile momento di condivisione. Sapevo che da allora in poi non sarei potuta tornare indietro. E se anche l’indomani avessi trovato una dura realtà a parlarmi crudamente, sarei stata felice di aver dato a lui la mia essenza, così come lui aveva dato a me la sua.

Non credevo che l’amore di qualcuno per noi avesse un odore. Io sentivo quello di André dentro di me, lo sentivo mio, ma la cosa sorprendente e che a fatica potevo considerare senza che il cuore prendesse a guizzare come una scheggia impazzita, era che io fossi sua. Parte di qualcuno, che non è la corrispondenza reciproca tra persone dello stesso sangue, ma qualcuno che ti accetta e ti vuole con sé perché sei la parte che manca. La parte che completa. E non mi sentivo sola.

Gli avevo consegnato la mia vita, lui avrebbe saputo averne cura.

“Cosa avete amica mia?” Madame la Réine richiuse lo splendido ventaglio di seta dai colori tizianeschi. Mi sentivo fregata, e quasi temevo che il mio viso fosse diventato una pagina stampata da tutte le parole che pronunciava la mia mente e dalle immagini che continuava a rimandarmi. Imbarazzante. Molto.

“Nulla, vi assicuro Maestà…” vano tentativo di tenere la sua curiosità a freno. Rischiai.

“Sapete…” il preambolo seguito da un sorriso furbo e intrigante mi stava mettendo in crisi, fuori rotta “… avete un’aria così serena oggi…”

Mannaggia… e ora cosa mi invento?

“Una piccola pausa aiuta sempre…” era una mezza verità. Inequivocabile; mi ero presa una pausa, anzi, per dirla tutta, mi ero separata dai dubbi, sebbene ne seguitassero altri, ma, almeno, sapevo che avrei potuto condividerli con la mia metà - che avevo spedito a farsi una cavalcata… -

Lui, a differenza mia, sembrava non averne mai. Almeno per quello che riguardava noi due.

O, forse, li aveva e li nascondeva bene.

Ma, questo, l’avrei scoperto solo dopo. Quando dalla realtà dell’inganno avrei preso solo la parte che mi concedeva di ricominciare la mia vita.

 

 

La stanchezza si piazza sempre alla base del collo, medita André mentre armeggia con gli arnesi nella rimessa. Pensa che loro due sono come le volpi che corrono nel prato e si vanno a rifugiare nella tana lasciando incaute tracce del loro passaggio al cacciatore.[3] La fine è vicina, ma quasi l’aspettano; hanno dato indicazione e tutti si affanneranno a guardare lo striminzito alberello e non la sconfinata foresta. Penseranno alla follia di Oscar, le getteranno veleno addosso, le diranno che si è fatta sedurre dal plebeo traditore accolto in casa come un figlio, educato ed istruito come tale.

Suo padre l’ammazzerà, e lui lo ucciderà.

Finirà in vacca tutto se non prendono subito una decisione.

E’ un po’ penoso per lui stare lì, a nascondersi dalla sua vita.

Lascia cadere gli attrezzi: il generale non gliene vorrà di certo se, per una volta, tarderà a montare una nuova mensola alla libreria. L’ha schivato per un pelo, non ha molta voglia di incontrarlo. E’ strano in questi giorni, quasi gli tiene il fiato sul collo come se avesse da dirgli qualcosa di vitale importanza. Sente odore di guai in giro. Qualche ora fa si è fermato nelle scuderie, gli ha chiesto come va, quando riprenderà servizio in caserma, ma che è tranquillo quando torna a casa, almeno può occuparsi delle scuderie, giacché, il ragazzo nuovo non ne capisce di cavalli. |

“Sono certo che tu sai cosa passa  per la testa di mia figlia…” gli ha detto come un vecchio amico in vena di confessioni.

“E’ difficile intuire cosa passa per la testa delle donne” era da tanto che desiderava dirgli quella frase. Ha sollevato un sopracciglio. André è stupito, quasi sente di stare con le spalle al muro in attesa dell’affondo decisivo. E a lui, che cosa salta in mente? Mancava che desse al generale una gomitata amichevole aggiungendo  Ehilà, Jarjayes, meglio tardi che mai: che mi combini, vecchio mio? Hai deciso di ritrattare e liquidare tua figlia?

Tra tutte le stranezze, l’atmosfera cordiale e il generale che parla dei suoi guai; uno in comune che si chiama Oscar, pensa. Uno in comune che si chiama R. de Jarjayes, pensa André.

Nelle scuderie ci entrava di tanto in tanto, qualche volta a controllare che i suoi cavalli stessero bene, a volte senza nemmeno salutare. E perché avrebbe dovuto: non si salutano mica le cose che si possiedono. Cose, oggetti, e persone valutati con lo stesso criterio. L’età passa per tutti e la morte incombe. L’inventario delle buone azioni che pesano sempre meno sul piatto della bilancia. L’idea che da qualche tempo gli aveva tolto il sonno. Se avesse fatto le cose per bene, se solo all’epoca fosse stato più attento, avrebbe adottato André. Gli avrebbe dato in sposa quella figlia ribelle e adesso avrebbe avuto un nipote, bello, forte e maschio, nelle fila dell’esercito di sua maestà. Sarebbe stato un ragazzo di quattordici anni, circa. Sarebbe stato perfetto. E lui tranquillo.

Oscar pure.

Lei ha sempre voluto tanto bene  a André. Formano una bella coppia. Già. Sarebbero stati molto felici.

Lui l’avrebbe resa felice.

Trattiene il fiato quando gli è accanto.

Lei evita di guardarlo e adesso ha capito perché.

 

 

Loro non sanno che io sono qui, dietro la porta, a dieci passi da loro.

 

 

Torno indietro. Vado in città. Dal dottor Lassonne.

 

“C’ è tanto da fare…” indica pazientemente posando lo stetoscopio sulla scrivania. Gli do le spalle e mi sento strana. “… ma il tempo è dalla nostra parte. State tranquilla” dichiara, accingendosi a scrivere. Il pennino graffia sulla carta e, all’improvviso, diventa l’unico suono nella stanza. Contagio, contagio… la parola mi assilla, e l’urgenza di fare domande dettate dall’istinto, prevale sul mio pudore.

“Potrei contagiare qualcuno?” il dottore solleva uno sguardo serio su di me. Rimane con la penna a mezz’aria, poi, sfila gli occhiali e posa due dita sulle palpebre.

“E’ un rischio che si corre, sì…” Benissimo. La franchezza è la dote che apprezzo nel genere umano.

“Come posso evitarlo?”

“I contatti intimi favoriscono la trasmissione della malattia… tenetelo a mente.”

Chino la testa, sconfitta. E’ la mia ammissione. Il dottore lo capisce. Sa che vivo.

“Il vostro compagno potrebbe…”

“André” chiudo subito la faccenda, non voglio perdere altro tempo.

“Mandatelo da me, gli farò un controllo” eppure l’ho visto sorridere. Ma non mi ero accorta di nulla solo io?

 

Non era così che avrei voluto cominciasse la nostra vita.

 

La casa dorme quando rientro. Imbocco il corridoio e sono dietro la sua porta.

Piano. Toc. Piano. Toc. Forte: TOC!

Apre un poco la porta e sbircia, e sorride. Entro. Prova a baciarmi, gli offro la guancia. Solleva un sopracciglio, ha capito che sto sul piede di guerra. Si allontana e continua ad asciugarsi i capelli. E’ tardi, solo adesso me ne rendo conto. Lo squadro e intimamente approvo la sua tenuta da camera. L’asciugamani dietro il collo, i capelli bagnati. I pantaloni non sono chiusi a dovere, glielo faccio notare.

“Mi sono appena lavato… mi stavo rivestendo.”

“Perché, dove devi andare?” Neanche mi hai chiesto dove sono stata. Deficiente!

“…”

Che cos’ hai stasera? Non replichi. Non hai voglia di farmi scaricare la tensione?

“Scusa…” gli faccio mentre crollo sulla sedia accanto la scrivania “… giornataccia.”

Lancia su uno sgabello l’asciugamani, si avvicina a me, si flette sulle ginocchia posandomi lo sguardo verde e cristallino dritto negli occhi.

Mi sfiora le gambe, abbassa le ciglia.

Stranamente entro in allerta, quella sua mimica contiene disquisizioni inutili, strane, ma mi piace rendere mie tutte quelle cose di lui che fino a qualche tempo fa mi incuriosivano. Spesso mi spaventavano, ma adesso posso gestire i pensieri senza preoccupazioni inutili, perché la fonte delle mie risposte senza domande sta qui, vicino a me.

Allungo la mano verso di lui, gli carezzo i capelli lasciandoli passare attraverso le dita.

Sono morbidi.

“Dove sei stata?” la voce risuona tranquilla per uno che tenta di nascondere la preoccupazione. Presa.

Glielo dico.

Che ci vuole?

“A Versailles…” la carezza sul fianco si ferma. Ne sento la mancanza. Le sue ciglia rimangono basse. E’ seccato. Lo capisco da come si sono allargate le narici. “… prima…” aggiungo, con molta calma. Gli carezzo le spalle e conto i brividi sulla sua pelle nuda. 

Si solleva in piedi trascinandomi con sé.

 

“E poi?” continua, ma con molta calma.

 

Stretta, mi tiene stretta e il suo viso affonda nell’incavo del mio collo, lo sfiora con le labbra. Fosse dipeso da me, sarei rimasta sulla sedia, cercando di non dare ascolto al mio istinto scellerato che proponeva di concedersi qualche bacio con lui. Fortuna che il mio André ha spirito di intraprendenza ed io sono un’incosciente, perché non posso.

Sento le sue dita sotto la camicia, mi sfiorano il seno. Che sensazione sublime.

Abbassa il viso e mi fissa, un bacio sulla tempia. Uno sullo zigomo.

Quanto sei bello amore mio…

Dietro l’orecchio. Le ginocchia cedono, e lui aumenta la pressione dei nostri corpi.

“Ti sono mancata parecchio…” e medito che ho sempre cercato distrazioni di altro genere per scaricare la tensione e affogare la paura. E non avevo consolazione, ma solitudine e angoscia.

“Anni, oserei dire” ed io sto zitta ad ascoltarlo e mi confonde, e dovrei dirgli di smettere… perché non devo. La mia camicia scivola sulla poltrona. Osservo il contrasto delle nostre pelli. Mi accende.

“… Dove sei stata?” un’ istanza che celebra la sua gelosia. Lo guardo e seguo il lampo di desiderio che riempie il suo sguardo. E’ trasparente, sereno, mi inganna ed io non riesco a credere che solo uno è l’occhio che vede. E tra poco si spegnerà. Oddio cosa farà?! Che faremo? Cosa ne sarà di noi?

Lo bacio.

Disperata.

Quanto ho approfittato del mio André innamorato, considero più o meno coerentemente.

So baciarlo.

Ho la prova cha mai nessuna l’ha baciato così. Sono tentata di domandarglielo ma preferisco riscuotere le conseguenze delle mie attuali azioni piuttosto che andare a scavare in distanze che, ora, non tracciano più nessuna meta.

Prima di ieri, dopo di oggi, ho tenuto a mente il nostro primo bacio,  quello di tanto tempo fa.

 

Un grido di estasi quello che mi sfugge, quando mi spinge sul suo letto. Le mie caviglie incrociate dietro la sua schiena.

 

Lo sento. Tutto. Dentro di me.

 

E’ un attimo ma non mi stringe più come prima. Lo chiamo. Silenzio. La finestra aperta sulla notte, l’alito del vento più deciso è penetrato nella stanza. Le candele si sono spente. Lui non l’ ha capito.

Si è irrigidito nel nostro abbraccio.

“Oscar” mi chiama e afferro lo smarrimento attraverso la sua voce. Tiene gli occhi chiusi.

Leggo il terrore sul suo viso, in penombra.

“Si sono solo spente le candele, amore…” gli dico accarezzandogli i capelli. Il mio desiderio mi provoca imbarazzo, ma il corpo prosegue e prende i residui di quel piacere che all’improvviso gli è stato sottratto. André, il suo respiro accelerato. Il sudore freddo sulla sua pelle. E non resisto, le mie carezze si fanno protettive. Ho bisogno di rassicurarlo. Ne ho bisogno, per me. Non voglio sentirlo più, mai più disperato, solo. Lontano.

Si gira sulla schiena, e mi porta con sè. Le sue dita tra i miei capelli. Le labbra sul mio capo.

“Scusa…” bisbiglia, poi serra la bocca. Gli carezzo le braccia, raggiungo le sue mani. Le avvicino alle labbra, bacio le nocche

“Come ti senti?” le sue mani sono calde, adesso.

“Sto bene, non ti preoccupare…” il chiaro dei suoi occhi ritorna ad illuminarmi.

Amore mio…come farò senza tutto questo?

“Cosa vedi, ora?” gli domando.

Esita, ma vuole descrivermi con precisione ciò che i suoi occhi percepiscono. Nella drammaticità della circostanza, avverto l’importanza che ho per lui, sento di essere parte di lui. Condivide se stesso con me. Lo fa con naturalezza, ed è la prima volta che lo sento tanto vicino. Si fida di me.

Ed io di lui.

“Ombre… e qualche riflesso, discontinuo.” Dice. Accarezza la schiena, mi bacia la fronte. Il suo sguardo ritrovato si precipita sul mio viso, attraverso i miei occhi. La fragile luce stellare ci copre e aspetta fino a quando ci immergiamo ancora una volta in quella corrente creata dai nostri corpi uniti. Lo guardo sorridere e la mia bocca è più veloce della tentazione che mi suggeriva di baciarlo. Lo guido dentro di me e lui solleva la testa dai cuscini. Le mani salde sul materasso, il suo gemito, carnale, trattenuto a stento in mezzo ai nostri baci. Le sue mani su di me, le mie su di lui. E lo sento capitolare, e morire. Di piacere. E vedere lui tremante, e sentire me stessa appagata. Perché, le promesse da noi accumulate oggi le conterrà il tempo. Gli sfioro la fronte e lo accompagno nel sonno. Vorrei tanto riuscire a dormire anch’io. Sono stanca, ma ho troppi pensieri, una varietà infinita, ognuno a reclamare la mia attenzione.

Sarò capace di occuparmi di lui? Sì. Sono troppo gelosa e possessiva, non permetterei a nessuno di stargli vicino. Impazzirei di rabbia. Puerile… ma non posso ignorare questo mio aspetto. Conosco bene André, so che certe apprensioni gli darebbero fastidio. Poco dopo l’incidente era nervoso, sua nonna più di tutti ha fatto i conti con l’aspetto irascibile di André… chi l’avrebbe immaginato mai…

“Andiamo… state montando una tragedia. Sto bene cazzo!” Nanny ed io ci scambiammo un’occhiata stupita rimanendo, pericolosamente, senza nulla da dirci. Pochi istanti dopo, dalla finestra, lo vedemmo spaccare ciocchi di legna nel cortile con sistematica precisione. Colpi secchi e decisi. Sul volto un’espressione calma. Mi rasserenai di fronte a quella determinazione, credendo che, in fondo, avesse ragione. Riusciva a adattarsi allo stato di cose. Lentamente tutto è precipitato nel buio… Quanti eventi hanno accelerato il nostro processo autodistruttivo? Se ci fossimo infilati nella rete volontaria dell’indifferenza, a quest’ora, io e lui saremmo proiettati ciascuno nelle rispettive vite fatte di miseri intenti. E’ Alain che dobbiamo ringraziare o il sentimento che, malgrado noi, ci unisce?

Dovremmo cercarci una casa nostra, ma con gli affitti non si ragiona e le spese sarebbero davvero troppe. E poi, io a Parigi non voglio restarci, anche se l’adoro, ma ho bisogno di vivere in un posto salubre, lontana dai guai… La Provenza mi affascina e lui, anni fa, diceva che gli sarebbe piaciuto invecchiare lì, su qualche spiaggia, in compagnia di gabbiani e albatros.

 

 

“Riaccompagno lei in caserma e poi ce ne andiamo a fare la guardia…”

Che sia Alain il testimone di tanto ardire non è cosa semplice, ma sarebbe peggio rimanere senza parole. Loro due, una sera di estate pigra, mentre tutto intorno sfocia nel disastro senza limiti e a Parigi si aprono le fauci dell’inferno, lo chiamano in disparte, mentre Alain de Soisson, consumato veterano dei campi di battaglia mentali di tale André Grandier, ha capito che il suo ‘vecchio’ ha ingranato e la donzella c’è cascata.

Era ora!

Vecchia volpe di una vecchia volpe; il Grandier saprebbe convincere la montagna ad andare da  Maometto…

“Dai, Alain, perché non vieni con noi?”

Riporta uno sguardo annebbiato da un’intera bottiglia di rhum, sapientemente spartita in tre, sul viso della fulgida bionda seduta di fronte a lui. Un triangolo strano e lui fa da vertice, ma non si sente come il tizio che regge il moccolo, anzi, ad un certo punto è stata Oscar a domandare se, per caso, non disturbava troppo… E lui, André, che l’attirava a sé schioccandole un bacio, per carità, castissimo, sulle labbra, ma che aveva un concentrato di intrinseco erotismo, che quasi ad Alain gli sono ritornate alla mente immagini oniriche adolescenziali di un rapporto a tre. Certo, lui con due donne, ma sa per certo che Oscar non ci starebbe mai senza il suo André…

Sogni infranti. Once again...

 Ma quando la pianti di pensare certe stronzate??

“E guardarvi mentre vi sbaciucchiate sul portone?”

“…”

“…!”

“Non fare quella faccia, Grandier!”

“Quale faccia, scusa?”

“Dell’innocentino…”risposta a due voci.

Guarda ancora lei, Alain, e capisce che quei due nelle ore morte si danno un bel da fare…

Innegabile invidia, la necessità di scopare quando e quanto ti pare con una donna che ti ama, perché Oscar ama André: è una teoria consolidata da tanto, forse troppo tempo. E quei due sono talmente belli che non si può immaginare nessun altro accanto a loro. Vecchio esteta a sprazzi romantico, si è giocato la puntata buona che lo sa, avrebbe messo su un bel po’ di grana se avesse scommesso su di loro vincenti. Ne riscuote l’onere e si sente felice per loro, magari farà da testimone alle loro nozze…

“Ma quando vi sposate?” ha domandato loro scatenando reazioni di panico. Aspetta e guarda si era detto il vecchio Alain, che sarebbe stato bello assaporare la vittoria.

“Ufficialmente, appena sarà possibile…” quello scriteriato di André guarda la sua donna e la vezzeggia con un’espressione che gli viene voglia di imparare, perché, a quanto pare, è la dolcezza che piace alle donne. Lei non dice nulla, ma lo guarda e sembra che quella risposta le abbia aperto i cancelli del Paradiso.

Ufficialmente.

 

 

Siamo rientrati dopo una giornata inconcludente a farci trattare come indesiderati dall’esercito che assedia la città. Alain ha menato le mani ed era soddisfatto di come ha fatto valere le sue teorie. Oscar era seria questa mattina, un po’ stanca e aveva la febbre. Le ho suggerito di tornarsene a casa,  che avremmo provveduto io e Alain a comunicarlo al comando. Mi ha guardato come se avessi detto un’eresia se l’è presa e non riuscivo a capire il perché. Ha proseguito da sola per un pezzetto di strada, poi, mi sono scusato con Alain e l’ ho raggiunta. Ho passato un braccio sotto il suo e l’ho sentita trasalire. Uno sguardo fermo, immobile ed eterno in cui non leggevo nulla, né noia né stupore.[4] Siamo rimasti in silenzio ed io sentivo il suo corpo camminare accanto al mio, seguivo l’andatura e credevo che tutto potesse fermarsi a quegli istanti di vuoto assoluto, tra le strade vuote e l’eco dei nostri passi. Miei e suoi. Nostri e soltanto nostri, niente in mezzo a noi, nemmeno le parole. Le persiane delle case si richiudevano sul tramonto e qualche stella appariva all’orizzonte, e noi due in quel cammino distratto avevamo una sola vita da vivere. Un angolo, un vicolo, io e lei, fermi. La sua schiena poggiata contro il muro e il viso basso a cercare, tra i rigagnoli d’acqua piovana, i ricordi e le risposte.

 

“Che c’è?” la domanda è rimasta sospesa tra di noi, mentre i suoi occhi, all’improvviso, bruciano di orgoglio ferito.

 

Le scosta i capelli dalla fronte, posandovi le labbra. E’ spaventata.

 

“Ti devo dire una cosa…” e trema, mentre si passa due dita veloci sotto gli occhi. Si scosta da lui e va a sedersi sulla scalinata di un portone. Porta le ginocchia al petto, i capelli le ricadono sul viso, coprendolo del tutto. Lui la raggiunge, un attimo a sistemare la fondina della pistola sul fianco e le siede accanto. Osserva i gesti di André, la sua calma, almeno apparente, e avverte un senso di pace infinita.

 

“Allora?” quasi la prega perché non riesce a sopportare quel silenzio.

 

Passa un’ombra sul viso di André e lo sguardo si fa serio. Lei se ne accorge, eppure non riesce a trovare la forza di dirgli che non è accaduto nulla che riguardi loro due. Abbassa di nuovo lo sguardo ed è più spaventata di prima, il terrore prende strane forme nella mente e sedimenta nelle vene, rallentando il deflusso del sangue. E’ qualcosa che riguarda loro due invece, lo sa bene. L’ennesimo tradimento, ma questo è il peggiore.

“Sono stata dal medico…” la voce è soffice, medita tra sé; in certi casi viene fuori così per attutire il colpo inesorabile e violento delle rivelazioni, delle verità indiscutibili di cui lui, che ama più della sua vita, dovrà farsi carico. In quella tonalità tenue si compiono i peggiori reati, e André fa un excursus su quelle che potrebbero essere le ragioni che l’hanno portata al consulto medico. Prima fra tutte, si fa largo a spintoni contro le altre più o meno legittime: l’ha messa incinta? La voce si blocca poco prima di giungere alla meta o è solo l’imbarazzo di doverglielo chiedere rischiando una figuraccia: ci sono stati attenti, lui è stato attento a non lasciarsi incantare da certe proposte sciagurate di Oscar, perché Oscar non può permettersi il lusso di dimenticarsi chi è, prima di tutto e, solo da poco ha capito cosa vuole. E lui non saprebbe da dove cominciare, cosa fare, dire e la fiumana di dubbi e paure scorre fino a quando, la soffice sfumatura della sua voce arriva a tranquillizzarlo, per un secondo “… non sono incinta, ma…” e su quel ‘ma’ cadono le sue difese e si ergono, come erbe spontanee e velenose, le angosce.

“… Forse credevo che il destino si potesse aggirare con previdenza…”[5] inizia a parlare e la sua voce sembra correre parallela al suono del vento che li accarezza nella metà sera di un’estate fredda. Le mani congiunte si rifugiano tra le ginocchia, mentre il petto sembra portare un peso assurdo che la piega.

“… Invece mi aspettava al varco” solleva gli occhi su di lui che trattiene il respiro, lo sguardo che cerca appiglio nel suo, una risposta o una domanda, ma che gli dica qualcosa di più per la miseria!

 

Va bene Oscar, hai avuto la tua parte di sfogo, adesso raccontagli la verità…

 

“Il dottore dice che ho la tubercolosi, André…”

 

Il viso assume una sola espressione di fronte al dolore degli altri, alla paura, e gli occhi si spengono e si accendono nello stesso istante in cui si incontrano la collera e la pace, l’odio e l’amore. Scende il velo della rassegnazione che è disperazione sul viso di André, adesso coperto da entrambe le mani in un gesto nervoso e carico di rabbia. Gli occhi lucidi e la bocca serrata, mentre si domanda cosa vorrebbe fare prima, se stringerla o prendere a calci un muro.

La prende per le spalle e la stringe a sé. Forte, sempre più forte e la vuole sentire dentro di sé e vuole proteggerla e correre lontano. Che nessuno la tocchi, che nessuno la guardi. 

Sente le sue mani strette attorno alla schiena e si aggrappa a lui, annientata. Piange fino a quando gli chiede di aiutarla.

“Io non voglio separarmi da te…” le parole risuonano chiare e disperate in mezzo alla voce incerta, e lui sente di essere già morto.

“Devi guarire, amore…”  la voce di André appare poco più di un sussurro e penetra in lei donandole la pace.

“Ho paura, non mi lasciare…”la stringe forte a sé, l’avvolge tutta mentre continua a baciarle il viso, a sussurrarle parole segrete che la fanno sorridere e piangere.

 

pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2006

Mail to mariassunta.paolillo@virgilio.it

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[1] Lo scambio di idee è la parte più esaltante del lavoro di scrittura e, con Laura, si parlava dell’onestà di André, del suo carattere fermo, equilibrato, coscienzioso. Da qui l’idea comune di vederlo come una persona cauta che sa gestire la sua sessualità, ed evita, a priori, i rischi derivanti da rapporti occasionali con fanciulle consenzienti. Sarebbe il Testimonial perfetto per una campagna educativa sull’uso dei contraccettivi…

[2] Un piccolo prestito dall’ultima canzone di Niccolò Fabi.

[3] E’ lo stralcio di una lettera di Michel Foucault indirizzata al suo compagno di vita.

[4] “Né gioia né dolore” Nomadi - Le Strade, Gli Amici, Il Concerto-  Album live 1997.

[5] ”Lyman King”, Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.