Una notte a Parigi
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Tu non sai le domande E non rispondere
Lascia fare ai tuoi occhi, alle mani
Rimanere così, annaspare nel niente Custodire i ricordi, carezzare le età, è uno stallo, un rifiuto crudele e incosciente del diritto alla felicità
Esser tutto, un momento, ma, dentro di te, aver tutto ma non il domani
E siamo qui, spogli, in questa stagione che unisce tutto ciò che sta fermo, tutto ciò che si muove.
F. Guccini – Canzone delle domande consuete
|
Stanco dorato tramonto* (sulla torre, da ep. 28)
lascia farlo ai tuoi occhi, alle mani...." (F.Guccini, Canzone delle domande consuete)
Un momento solo. Aspetta. Che si calmi l’eco di questo silenzio, il mio – non il tuo – che mi incrina. Tu non devi sentire, non ora, non qui. Non capiresti. Non sai. Non voglio che tu sappia. Quanto amo guardarti. Quanto guardo non amarti. Quanto non potrò guardarti. |
Io che con gli occhi soli ti parlo. E mi è voce il tuo viso, da sempre nel tuo tacere te stessa, e tenerti lontana da chi ti è vicino, per paura che ti ascolti. Come ti ascolto. Sempre. E lo farò sempre, se non nei tuoi occhi, nell’aria che muovi. Ti sarò accanto, e tornerò sempre perché tu non mi lasci. Adesso vengo, aspetta. Vengo a parlarti, a zittire il mio silenzio assordante di parole normali. I nostri gusci. Ma intanto lasciami stare distante, perché tu non senta. Lasciami un attimo solo stare via, a pensare quanto non ci diciamo mentre stiamo parlando, quanto ti chiamo mentre ti sto guardando, quanto ti amo mentre non ti sto amando. Silvia Signorini, 2011 |
A Silvia, che me l’ha ispirato
Mille sere di solitudine.
Mille sere di guerra.
La guerra, è la paura.
Anche quando è lontana.
Perché pensi a qualcuno.
Qualcuno che ha la tua età, ed è lì.
Ha avuto le palle per partire. E tu no.
Te ne stai a casa. Casa? Cos’è casa? Casa per me è lei, ma non è casa mia. Casa mia non esiste più da quando ero bambino. Casa mia non è qui, però è lei.[1]
Si riscuote, giusto un attimo, dai pensieri in cui si è annegato, e il brandy si agita, liquido, ambrato. E le sue dita, attraverso il vetro sottile. E il calore del camino e la pioggia che, lentamente, si è spenta, là fuori. Nel mondo.
Svaporando.
Lasciando la terra bagnata.
I passi attutiti.
E l’erba spessa, pesante.
I verdi più intensi. I rossi delle corolle. Gli azzurri dell’ardesia. I grigi delle pietre, lavati dai torrenti d’acqua. Come se, dopo, tutto fosse un po’ nuovo.
Si alza, un po’ pigro, e le versa altro brandy, una punta di zucchero. Un buon metodo per sbronzarsi prima. O per dimenticare. O scaldarsi.
Alza su di lui due occhi dolcissimi, pieni di gratitudine che gli sembra quasi affetto. Gli sembrerebbe amore, se non si considerasse irrimediabilmente illuso.
E un sorriso. Triste, dolce, che gli scioglie il cuore.
Come si fa a viverle accanto senza morirne? Come si fa a non innamorarsi dei suoi gesti. Dei toni della sua voce. Di quei pensieri che, a volte, tace. E lui sa.
Di quelle occhiate intensissime. Brevi. In cui lui legge tutto. O, almeno, crede.
Uno sguardo così lo rende vivo. Gli fa venire voglia di uscire, con lei, e camminare, camminare, abbracciandola. Posare gli occhi solo su lei, tutta sua. E comprendere tutto con lo sguardo, ogni attimo. Luce. Riflesso. Vita. Portarla via. Rubarla. Sua. Condividere con lei. Questo, per lui, è possedere il mondo. Amare. Poter scegliere.
Azzarderebbe una carezza, a scompigliarle un po’ i capelli, tanto sono scompigliati comunque. Ma non osa, la mano si ferma lì, e lei sembra osservare, noncurante, giusto di sfuggita, quel polso delicato, la pelle chiara, il candore della camicia. Magari sogna di prenderlo, di portarsi la mano alla guancia, di avere un po’ di calore anche lei. Ma resta lì. Totale. Immota. Una sfida. Un muro. O un’immensità da scoprire.
Soli, tutti e due, a lacerarsi e farsi compagnia per non morire dei presunti, rispettivi, mali.
È un po’ di tempo che, gli pare, non si tormenta con quel cretino svedese.
Gli sembra più serena.
Riflettendoci, forse, il cretino le resterà sempre in un angolo di cuore. Riflettendoci, forse è normale.
È una brava persona. In fondo.
Cretino che non capisci le tue fortune.
La scruta, in tralice, davanti al caminetto, il bicchiere in mano.
In questa sera di quasi estate.[2]
Queste sere sempre uguali di noia.
Di ingratitudine per questa pace da vecchi sposini.
Se davvero potesse annoiarsi una vita intera, tutta insieme a lei… pensare, tra vent’anni, di leggere un libro, la sera, con lei accanto. Annoiati per davvero. Sarebbe un sogno. Che molti hanno e neanche se ne rendono conto.
Quanti anni, giorno per giorno…[3]
Se fossimo sposati, oserei annoiarmi, di ognuna di queste sere? Sarei capace di stupirmi, ogni volta, del miracolo di averti, di esserci trovati, o, nella mia infinita superbia, per essermi innamorato di te, ritrovati?
Di riconoscere la tua voce. I chiaroscuri. Trovarla bella, profonda, e stupirmene?
Non lo so, non lo so, perché la vita è strana e ti innamori, ci credi, e poi ti perdi, perdi il senso, dimentichi quello che sei, chi hai di fronte, accanto, e le ragioni, cosa siete stati, e tutto tende a smarrirsi perché la vita fa strani scherzi.
Ne fa anche di peggiori.
Li fa anche l’alcool, Grandier, credimi… molla quel cazzo di brandy, che sei a digiuno.
Scopatela. O invitala fuori.
La guarda, sa che non è né bellissima, né perfetta. Ma a lui sembra esattamente così.
E sa come sarebbe, se stessero insieme.
Vorrebbe lei. Lei sola. Tutta per sé. Loro due, qualche gatto, cane. Una casetta, piccola, bellissima, con tanto spazio per i libri e un bel letto, comodo, caldo d’inverno e fresco d’estate, per fare tanto, tantissimo sano sesso.
Allunga la mano verso di lei.
E resta lì, sospesa.
Intercettata dal suo sguardo azzurro. Cinico. A cui è difficile nascondere qualcosa. A parte che non vede, non riesce assolutamente a distinguere, l’evidente innamoramento, anzi, amore, che André prova per lei. Quello, proprio no.
Interrogativa.
Sarcastica?
No. Solo pungente. Appena il giusto.
Ma ritiene sia più prudente conculcarsi nella lettura.
Quindi, ripiomba forsennata e fintamente ignara nelle pagine del libro.
Oscar, se tu sapessi cosa mi passa per la testa, in questo pomeriggio di quasi estate, se tu sapessi com’è egoista l’amore e come ti fa arrivare a sperare di coinvolgere nei tuoi, privatissimi, sogni una persona innocente e (quasi) ignara. Il tu generico sarei io. L’ignara, tu.
Quasi, perché io credo che non sia possibile che tu non ti sia accorta di niente. Se ne sono accorti tutti, o, forse, invece, è normale. Lo sa Fersen, lo sa la regina. Tutti, lo sanno.
Anche il tuo cavallo mi guarda con occhi innamorati.
E non perché io, ogni santo giorno, lo striglio e accudisco e smammolo.[4] Anche, certo. Ma, chiaro, lui sa che io ti amo e quindi mi vuole bene. Tutti l’hanno capito.
Tranne te.
Ma, dimmi, mia Oscar, mia meravigliosa, mia adorata, che, forse, neanche fra vent’anni d’amore – sempre che me li concedessi – riuscirò a parlarti così, usciresti con me, stasera?
“Scusa?” Solleva lo sguardo dal libro, sorpresa, la mente ancora persa nel latino.
“…” non si è neanche reso conto di aver parlato.
“Dicevi di uscire…”
Con un gesto annoiato molla il libro.
“Andiamo…”, si alza.
Oddio.
Oddio, che altro ho detto? Oddiomio.
“Eh?”
“Hai cambiato idea?” Mentre ha preso dal vestibolo il mantello, e se lo getta sulle spalle, noncurante.
Ti guardo, di nascosto, di sfuggita, nel tramonto. E sei così bella. Le redini tra le dita. Lo sguardo distante. Persa nei tuoi pensieri. Una vita, mille immagini, dietro i tuoi occhi. Mi astengo, perché non voglio entrare anche in questo, che è una cosa tutta tua. Solo tua.
Scivolo con lo sguardo lungo le gambe, belle.
“Sei silenzioso…”
“Scusa?”
“Stasera… sei strano. Non parli…”
Gli lancia un’occhiata in tralice. “Sei diverso…” Un’immagine le resta impressa, come, anni prima, quella di lui, bambino. Gli occhi luminosi, un sorriso fiducioso.
Decido di fermarci. Amo questa zona, antica, in pietra, gli edifici tozzi e squadrati. Le vecchie strade da camminare e i cafè.
“Guarda!” Istintivamente l’ha presa per mano, indicandole un comignolo.
Lei si è illuminata “Dove?” Lasciando la mano in quella di lui.
Che, subito, accortosi del misfatto, molla la presa.
Delusa, quasi ne sente la mancanza.
“Cos’era…” E si avvicina. Lo sfiora, col mantello, la mano contro la sua.
E lui manca un battito.
“Forse mi sono sbagliato…”
“Ma cos’era…”
“Niente…”
Ma ormai le farfalle nello stomaco sono partite alla grande.
“Dove mi porti?”
“Eh?”
Stasera sembra peggio che distratto. “Bettola? Taverna? Digiuno ascetico? Sbronza triste?” Se la ride, la terribile Oscar. Padrona e signora. Si fa per dire. Del di lui cuore, ovviamente.
“Cenetta a due. Che ne dici?”
“Che su quello non avevo dubbi.” Una pausa. “O hai altri invitati?” Feroce. Implacabile.
“Intendevo una cena carina solo noi due. Con qualcosa di piacevole.”
“Ora sì che iniziamo a ragionare”, approva lei.
Da Monsieur Boulanger, in rue Bailleul il menù è leggero. Osserva André. Non le pare il solito.
“Ehi”, gli sfiora il braccio. “Che ti prende?”
“In che senso?”
Gli indica il piatto. “Non sei al tuo solito…”
Sorride. Stanato. “Ma… è che… non voglio mangiare troppo.”
Strano. “Perché?”
“Voglio godermi la serata”. Un po’ troppo candido. Arrossisce.
Impavida e ignara “Sei qui apposta. Se mangi ti godi la cena.”
Poggia la posata. La guarda. “È diverso”. Come fosse ovvio.
Un sorriso strano. “Vuoi dire che vuoi goderti la mia compagnia?”
E, di rimando, uno sguardo pieno di sottintesi. “Perché no?”
Uno pari. Ora vediamo.
Si alzano, dopo il dolce.
“Andiamo a bere qualcosa”, non ne ha voglia, ma di prolungare le parole, gli sguardi, di non lasciar finire nel niente quella serata, sì.
Prova una sensazione strana, stasera. Vorrebbe restare lì, all’infinito, perché è stato bene. Senza imbarazzi. Con naturalezza e leggerezza. Eppure, è felice e vorrebbe camminare ancora, e portarla ancora con sé, farle vedere quello che ama, e imparare a conoscere con lei.
Le ha fatto strada, lungo le strade.
Alcuni locali ancora illuminati.
Quasi avvolgendola, col suo mantello, come a coinvolgerla nella sua Parigi segreta, la conduce verso il Canale.
Si sente bene. Si gode la sua compagnia. Una volta tanto, non sta lì a pensare.
Mia, mia, mia, irrimediabilmente mia! Che non ti sposerei per egoismo, ma per amore. Per stare tutta la vita con te. Con te sola. Per vivere, tutta la vita, ogni volta, ogni vita, ogni volta che ci ritroveremo in un’altra vita – perché io lo so che sarà così, perché noi ci siamo eletti –, con te, noi due, noi due infinitamente soli, me and you, just us two,[5] noi due soli, soli, soli, io tutto per te, tu tutta per me.
Oscar, ci staresti?
Potresti accettarlo?
Io non chiederei altro. Io voglio te e tutto il resto niente.
P.S. Ovviamente, ti sposerei anche per scoparti.
E penso che ci divertiremmo!
Sembra strano, stasera, André.
Come se, infine – o, finalmente –, si fosse deciso.
A volte, si domanda quanti pensieri si porti dentro, vivendo, tacendo, parlando di niente e fingendo. Alcune cose non vorrebbe neanche averle intuite. Sarebbe solo più comodo, fingere, e dimenticare.
Quante cose vive, senza di lei. E conosce.
Quasi si sente strappata, un enorme vuoto, dentro, alla consapevolezza di quella diversa esistenza. Del fatto che non tutto, di lui, sa. Eppure, se ci pensa, è normale.
Lo osserva. E le piace. Le sfugge un sorriso, mentre lascia scivolare gli occhi su di lui. Mento. Spalla. Braccio. Mano.
André, come sarebbe stare insieme?
Ho paura.
“Dove mi porti?” divertita. Ma un brivido, in basso, nella voce.
La mano che, ora, sfiora la sua. E, le sembra strano, è fredda.
Il cuore sobbalza.
Ho paura.
Una paura fottuta.
Sei bello.
Conosce poco questa parte della città.
Entrano in un caffè, si siedono, incuranti. Che li guardino. O, magari, neanche li notino.
“Cosa prendi?”
Si alza, va ad ordinare. Mentre lei si guarda attorno, perché non sa che fare. Come comportarsi. O, forse, basta, la cosa migliore è esserci. Il resto verrà.
Ho capito che mi piaci. Da tanto tempo.
Si guarda le dita, intrecciate, sul legno del tavolo.
Accavalla nervosa le gambe.
Si chiede se sia seduta bene. Se gli sembri carina.
Che il cuore salta e mi si gelano le mani, quando ti vedo. Da anni.
Ma come sarebbe? Dovrei cambiare tutta la mia vita? O capiresti, perché sei tu, e mi lasceresti viverla e mi staresti vicino senza invadermi?
“Ehi…” con un dito le sfiora una guancia.
Arrossisce. Lui, che ha osato. Lei, anche. Sorridono.
Gli occhi le si sciolgono, finalmente, luminosi. Il perdono del gesto di avvicinamento. La resa.
S’illumina anche lui.
“Cioccolato e cannella…” bello speziato.
“E tu? Come va il tuo?”
“Non male…”
“Domani ci torniamo e proviamo qualcos’altro…”
Magari, magari fosse così… se durasse per sempre…
Continua a camminare al suo fianco. Stesso passo.
André tace. E lei pensa che, forse, non dovrebbe. Che, forse, è persa l’occasione. Che non ricapiterà. Che non torneranno, la sera successiva, a provare l’altra parte di menù, per gioco e compagnia. Per scherzo e per amore.
Perché non dici niente?
Perché è così difficile, capirmi?
Ti faccio paura?
È così impossibile avere pietà per me stessa e comprendere che, in fondo, amo questa vita che è più libera di quella di una donna. O, meglio, più direttamente libera. Una donna si prende libertà surrettizie fingendosi moglie e madre. Io mi prendo la mia vita e non mi nascondo. André, perché è così difficile, perché mi sembra quasi di chiederti un sacrificio, ad amarmi, a capirmi? A starmi vicino? Così, come sono. Semplicemente io, tu. Noi due. Noi due come siamo. Coi cambiamenti che verranno, ma senza smarrirci, senza perderci a noi stessi. In qualche modo, coerenti.
Perché devo sentirmi egoista se ti amo e ti chiedo di condividere la mia vita, solo perché voglio amarti e vivere libera e scegliere e continuare così?
Eppure, forse tu sei più oltre e riuscirai a comprendermi e a non chiedermi di conformarmi a schemi.
Forse tu riuscirai ad amarmi per quello che sono. O che mi hanno fatto. O reso.
C’è una svolta, là davanti. Una scalinata in pietra.
Da un lato, il vicolo. Buio.
Le prende la mano. Osa. La mano di lei rimane nella sua.
“Resta così”. Non dice altro. Non ce ne è bisogno.
Si ferma.
Il tempo si ferma assieme a lui.
Si volta.
È come se la realtà si rivelasse e tutto si fermasse, in quel singolo, infinito istante. Infinito. Come lo sguardo che le pianta negli occhi. Sul viso.
Non l’ha mai visto così serio.
Tutto sembra sospeso.
Sospesa, la mano che, lenta, inesorabile, le scalda, ora la guancia.
Sospeso il tempo.
La voce di lui, che quasi non ode.
E i suoi movimenti. I gesti lentissimi. Quasi inesistenti.
Sente le labbra morbide.
Calde.
Sente le ciglia di lui sotto le sue dita.
La pelle fresca. Liscia.
Sente le mani di lui che la serrano. E sono forti. E delicate. E le pare impossibile, eppure accade.
“Oscar…”
No, non dirlo.
“Ti voglio bene.”
Oddio…
Oddio…
E se divenisse troppo tardi?
Sente le pietre a secco, dietro di sé. L’umidità del muro. L’odore della notte. Lui, che la bacia.
Il canale scorre, pigramente.
La luna, alta, riflessa.
C’è una luna alta, stanotte, tra i tetti, nel cielo. Lontana, qualche nube. Come quella notte in cui si misero insieme.
La serra nella sua stretta. Una mano salda sulla spalla. Una camminata folle, nei loro luoghi. Quelli di anni prima. Quelli di ora. Mentre Parigi brucia e loro disertano. E, come folli, escono, in fuga da tutto, nei momenti prima della battaglia.
Sei ancora mia, Oscar. Come sempre.
Volevo tornare con te, qui. Dove tutto è cominciato. Dove siamo tornati spesso, e, forse, stanotte, per l’ultima volta.
Ora che tutto, davvero comincia.
In questa notte d’estate.
Di battaglia.
Di Senna che scorre e lucciole.
Il fiume scorre. Come la vita. E ci porta via.
Il canale, vicino al quale ci mettemmo insieme. E, ora, potrebbe diventare il nostro rifugio di disertori. Domani, nella battaglia.
Io, non voglio morire.
Non ora.
Io voglio vivere.
Qui. Per sempre.
Come sempre.
Solo noi due.
Con te, Oscar.
Laura, agosto 2011, pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2011
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] Questo lo devo ad Audrey. È una cosa molto bella, un pensiero molto intimo che, leggendolo assieme ad Alessandra, ho trovato nel suo testo che mi ha dedicato. Spero non le dispiaccia se la cito, volutamente.
[2] F. GUCCINI, Cencio.
[3] F: GUCCINI, Van Loon.
[4] So che non esiste, ma ci voleva. È un neologismo.
[5] Citazione da Sex and the City movie 2.