Community
 
Aggiungi lista preferiti Aggiungi lista nera Invia ad un amico
------------------

Crea

Profilo
Blog
Video
Sito
Foto
Amici
   
 
 

Ricordi sbagliati – Un altro tempo.

 

Warning!!!

 

Before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission.

Prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso!

 

Copyright:
The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k. All Rights Reserved Worldwide.
The Copyright to the fanfics, fanarts, essays, pictures and all original works belongs, in its entirety to each respective ff-fa author, as identified in each individual work. All Rights Reserved Worldwide.


Policy:
Any and all authors on this website have agreed to post their files on Little Corner and have granted their permission to the webmaster to edit such works as required by Little Corner's rules and policies. The author's express permission is in each case requested for use of any content, situations, characters, quotes, entire works/stories and files belonging to such author.

Before using ANY of the content on this website, we require in all cases that you request prior written permission from us. If and when we have granted permission, you may add a link to our homepage or any other page as requested.
Additionally, solely upon prior written permission from us, you are also required to add a link to our disclaimers and another link to our email address.

The rules of copyright also apply and are enforced for the use of printed material containing works belonging to our authors, such as fanfics, fanarts, doujinshi or fanart calendars.

 

A Luana. A Silvia. A Sonia.

A zia M.

 

 

Ha gli occhi scuri.

I capelli, lisci, forti. Gli occhi ridenti, allungati.

Con le mani chiare carezza il metallo. Pensa che, un giorno, sarà usurato. Ora è nuovo. Come lei.

In questo giorno in cui è entrata in Accademia.

 

Oscar serra, nervosa, l’elsa della spada, compagna di tanti anni. Ha controllato le munizioni. Le armi.

Ha impartito gli ultimi ordini. Ha delineato la strategia, le alternative. Le mappe dei reggimenti, la topografia. Le vie di fuga. Soprattutto i rifugi. I medici per i feriti.

I soldati, ormai disertori, sono radunati. Pronti a partire.

Nella piazza d’armi il nervosismo è palpabile. Ma c’è anche un senso di sollievo, ora che la decisione è presa.

 

Sola.

Ma ha un bel carattere. Resisterà. Non è scontato. Niente lo è mai stato. Se una nasce femmina e deve vivere da donna nel secolo dei Lumi, ma vorrebbe vivere come ha vissuto Oscar. Se Oscar in famiglia non si può più nominare. Lei, la traditrice.

 

André è pallido, stringe gli occhi, si passa una mano sulla fronte, come a scacciare un pensiero nero. La aspetta defilato, nelle sue stanze.

Lo cerca con lo sguardo, nel cono di luce e pulviscolo contro il legno della scrivania. Il legno che lui, un po’ per volta, ha reso lucido. Con piccoli gesti. Cure quotidiane. Nella stanza che era nuova, per lei e, anno dopo anno, ha reso più sua, personalizzandola.

Uno sguardo all’acquerello tra le due finestre.

Al pastello dietro la scrivania.[1]

Le si stringe il cuore.

Pensare che forse non tornerà mai più lì. E in assoluto.

Perderlo.

Perdersi.

Serra le dita.

Non ha senso, riordinare, ora, le carte. Ma ci pensa, ogni volta, e non vuole lasciarle in disordine, casomai qualcuno dovesse metterci le mai, dopo. Come, ogni volta, lascia in un certo modo le sue stanze, la casa, da quando, ormai da tempo, se ne è andata, con lui.

Non ha senso costringersi a morire.

Lo cerca, con lo sguardo quasi febbrile, ora, che può permettersi di rivelarsi a lui, e gli vola tra le braccia, e lui l’accoglie, e la sente respirare, addosso a sé, e sente i capelli, sotto le dita, così lunghi, belli.

“Ti amo.” Lo stringe più forte. “Non sai quanto ti amo.”

 

Perché sente questa pena terribile, anche amando? Perché sente questo dolore, dentro, una malinconia inspiegabile, come se osservasse, distante e da lontano, e non potesse meritare un po’ di felicità, di serenità?

Vuole vivere. Con tutte le sue forze. Eppure, anche quell’amore, non l’ha curata.

 

Sa già sparare. Usare la spada. Gliel’ha insegnato il nonno, lontano, in esilio. Lei, invece, è tornata.

Legata da un ricordo quasi sparito. Che gli altri vorrebbero cancellare. Ma lei, non ha dimenticato.

 

Sulla scrivania, ha lasciato delle lettere.

Una è per lei.

Non sa se gliela daranno.

Così, ha scritto anche a suo padre e a sua madre.

 

Quasi svaniscono, i ricordi. Ma non è scontato, né, a volte, facile cancellare.

Di quando era bambina ricorda fin troppo. Anche se non aveva potere. Era fragile. Nelle mani degli adulti.

Prigioniera di cosa ci si aspettava da lei. Dei genitori. Delle famiglie.

Di come la volevano. Di come avrebbe dovuto essere. Crescere indottrinata. Percorrere i passi doverosi. Non deviare.

Non osare una deriva dalla china predeterminata.

Eppure, comprendeva. Conserva ancora la memoria.

Amava. Eleggeva.

E, infine, aveva scelto.

 

Proprio quello che loro non volevano.

 

Io la ricordo. Sorride, nel rievocare sprazzi di scena.

Carezza la spada, al pensiero.

Loro pensano di no. Ma io la ricordo quasi bene.

Lascia spaziare lo sguardo nella piazza d’armi, deserta, al tramonto. C’è una lieve brezza che solleva la terra e muove qualche filo d’erba che resiste, tra le pietre.

Il sudore le cola sulla guancia. Segue la caduta della goccia. Nota distratta gli stivali impolverati. Poi, di scatto, risolleva lo sguardo.

Veniva a trovarmi al tramonto.

 

Oscar pensa a lei.

Lei che non rivedrà e che ha visto poco.

Che l’avrà dimenticata. E non la ricorderà.

 

Era la sua caserma, questa? L’ultima, quella da cui partì e guidò la rivolta?

Abbassa lo sguardo sulle pietre consunte. Sulle crepe del muro di cinta ingiallito.

In casa non se ne parla e lei non ha quasi nessuno a cui chiedere. Troppe domande mute e, comunque, senza risposta. Domande che mai ha osato articolare. Eppure, le conosce, una per una. Le ripete, a volte, a se stessa.

Un groppo le sale in gola. Come se volesse piangere.

Ma non ci riesce.

Non c’è più quasi niente di spontaneo, nell’adulta che sta diventando, che ha imparato presto a soffocare le risate e i lampi nello sguardo. Che parla poco, per difendersi, e perché, tanto, qualsiasi cosa dica, viene usata per giudicarla, zittirla, schernirla, e, soprattutto, diventa un’arma che le ritorcono contro.

Ad un certo punto, ha smesso di essere se stessa di fronte all’esterno e ha iniziato a tacere.

 

Una volta, mi portò una piccola spada.

A pensarci, ora non sa dove l’avesse presa e non crede neanche che avesse incaricato André di cercargliela. Quei piccoli lavoretti sporchi, li faceva da sola. Erano, probabilmente – vuole illudersi, ma sente che è così –, cose tra loro due sole.

Gliela diede, e le raccomandò di stare attenta, mostrandole come sfilarla. Come impugnarla.

Sorprendendosi perché le veniva naturale.

 

Ero contenta. Felice.

Volavo tra le sue braccia.

Lei era tutta per me, in quei momenti. Non esisteva il resto della sua vita. Era tutta per me. Mia.

Le sottrassero subito la spada. La punirono. Come fosse colpa sua. O dovesse capire che davano a lei la colpa.

La spada la buttarono in soffitta.

Dove dormono i servi e stanno i topi.

Dove lei saliva a giocare. E loro non lo sapevano. Perché erano lunghe le ore in cui non c’erano. E lassù si era costruita la sua casa. Un suo mondo.

 

Pensavano, con quelle punizioni, con quelle privazioni (a me e, anche, a lei, in fondo), che io smettessi di essere felice di vederla. Pensavano di farmi capire che non erano d’accordo. Pensavano di farmela dimenticare. Io non la dimenticavo. Lei attendeva un po’ e poi tornava.

 

Ricorda la vetrina dell’artigiano. Quella mattina, ci sono passati durante un sopralluogo di Haroncourt. Aveva lanciato un’occhiata distratta, poi era scivolata via, prima che André notasse qualcosa.

Ovviamente, se ne era accorto. Aveva sorriso. Aveva cercato, tra le pieghe del mantello, la sua mano e l'aveva stretta. Chinato, giusto un attimo, la testa verso la sua, sfiorandole la guancia.

Oscar, di soppiatto, prima di sera, manco stesse commettendo un crimine, era sgattaiolata via, e si era infilata nella bottega. Ne era uscita con un piccolo involto.

Incidentalmente, con quel piccolo involto si è difesa da un’aggressione improvvisa. Così ora la spada in miniatura ha anche una storia. L’ha nascosta nel bagaglio.

Tornata a casa, è sparita. Missione speciale. Con annesso racconto d’avventura.

Da cui è rientrata con un sorriso che tenta invano di nascondere.

André sa benissimo dov’era andata.

 

Un’uniforme, un’altra volta. E un abito da ballo. Par condicio.

Mia madre, sua sorella, li fece sparire. O a pezzi. Appena il tempo di essere sorpresa, di avvicinarli a me con le mani, contenta per il colore, perché erano come i suoi ed erano belli. Toccare la stoffa. Immaginarmeli addosso. Strappati.

Però si sorprese quando le domandai di insegnarmi a usare la spada. S’illuminò, felice, perché io non avevo dimenticato che una volta me l’aveva promesso.

Mia madre forse la odiava.

Per una bambina la madre è tutto. Cerca di fare quello che lei vuole. Compiacerla. Di essere quello che lei è. Dipende dalla madre. Sua madre la odiava, quando capiva che le voleva bene, quando notava quanto fosse felice di vederla. Come si reagisce a una madre che ti odia? Cerchi di capirla. Cerchi di essere tu l’adulta. Di capire la sua gelosia. Il suo sentirsi inferiore per qualche ragione.

Per cosa, poi? Non essere stata la prescelta? Aver avuto un dote e un marito e una famiglia? Aver avuto lei e le sue sorelle?

Eppure, non bastava, e già a metà giornata era partita con piccole dosi di alcol, che teneva nascosto. Diventava nervosa. Cattiva.

Forse erano queste le ragioni degli schiaffi. Degli strattoni con cui, con violenza, la tirava su. Degli sguardi furibondi che le riservava e di come, poi, vergognandosi, tentava di blandirla.

Però la madre le voleva bene quando non la nominava. Durava poco, ma era già qualcosa.

 

Oscar è felice, con André, e ha paura. Non capisce certa malvagità.

L’essere punita per le proprie scelte. Che non ledono nessuno.

L’essere punita per come è-

La giudicano, e non va mai bene. Non è mai abbastanza. Si sono sempre arrogati il diritto di farlo e, semplicemente, continuano.

Vorrebbero tarparla. Schiacciarla.

Ora che è andata via, non gliela lasceranno più incontrare?

Non fa più male alla bambina vedere i genitori che si alterano, che la sgridano a causa della sua presenza, piuttosto che non incontrarla affatto? Starle lontana. Non pensarci più. Chiudere.

Eppure, non sono cose che si pianificano. La nipote la cerca. Lei stessa, per quanto si sforzi, a volte non può fare a meno di correre da lei.

 

Venne un soldato, a casa. E lei era morta.

 

Se ci pensa, probabilmente Oscar intuiva, sapeva quello che accadeva dietro le quinte. Lei voleva bene ad Oscar, Oscar continuava a volergliene. Spuntava con un dolce, qualcosa. C’era come un pudore, nei sentimenti. Ma non riusciva a trattenere la gioia, nel pensare quelle cose per lei. Nel venire da lei.

Non riusciva a nascondersi. A nascondere la luce.

Nonostante tutto.

 

Si sente come se volesse piangere, senza riuscirci. Sono anni che vorrebbe piangerla, davvero.

Le mani lungo il corpo, abbandonate. Rabbia. Nervosismo. Quel senso di ingiustizia, di sopruso. Di negazione del giusto, che l’accompagna, quando ci pensa.

 

La ricorda. Compariva, con quei regali nelle mani. E le piacevano, perché non erano finti, le cose da bambini che emulano quelle da grandi, no, erano cose vere.

E lei era contenta di farglieli. S’illuminava. La guardava usarli. La bambina sapeva che sparivano. Lo sapeva anche lei. Sapeva di dover smettere. Non smetteva.

Sapeva che sua sorella non era d’accordo. Che non apprezzava.

Sapeva che la bambina aveva dei genitori che decidevano per lei.

Ma che male c’era, come potevano i genitori essere scontenti se la figlia riceveva un surplus di affetto?

Eppure, non era così.

 

Si è accorta che André non vede quasi più. Una cappa di dolore le è piombata addosso.

L’ha solo sospettato, prima. Quasi incredula. Stupita. Poi, quando la consapevolezza, la realtà le è piombata addosso, ha sentito come un’angoscia terribile, le gambe farsi di pietra, paralizzata dal dolore.

Non sa come aiutarlo. Sa che non può fare quasi più niente.

Quando ci si muove, si è abituati a gesti fatti senza guardare, usando la visione periferica. André lo ha nascosto bene, ma in certi momenti non è proprio più in grado, e lo vede perso, nei gesti nel vuoto, nell’espressione smarrita, come dispiaciuta per aver deluso chissà quali aspettative.

Loro due stanno correndo a precipizio verso la rovina. Eppure, non riescono ad evitarlo. Andare avanti. Vivere, comunque. Vivere.

André, con te io voglio continuare a vivere…

 

Tutto sembra stia precipitando verso la rovina.

Ci sono disordini. La città non è più sicura.

Il governo prende decisioni impopolari. Assurde.

Sembra non volersi rendere conto della situazione reale. Ignora come vive la gente. Arroccato nel privilegio di casta. Arrogante. Potente. Inutile peso per chi lavora. Una zavorra di privilegi e privilegiati.

C’è rabbia e malcontento. Quello che, da troppi anni si accumula, sembra aver preso, in questi ultimi lunghi istanti di anni, una direzione meno evanescente. Uno sbocco concreto.

Non sarà una semplice rivolta.

 

Si sente persa. E, insieme, sa qual è la strada.

Stranamente, nei momenti di crisi, non ha mai avuto dubbi sulla direzione.

 

Ha il cuore pesante, stavolta. Non la fanno neanche entrare.

Così vede la bambina prima gioire, poi il sorriso spegnersi, quando la trascinano via. Eppure, le fa ciao con la mano, quasi ancora sorride, e a lei si stringe il cuore. Non avrebbe neanche voluto causarle quel trauma, ma, almeno, rivederla una volta ancora. È stata un’egoista.

 

Le hanno somministrato la solita dose di schiaffi e chiusa in camera.

Se ne sta seduta, per terra, e ha deciso una cosa.

Non c’è nessun bisogno di dirlo. Con loro non serve. Aspetterà di essere cresciuta, e lo farà.

Basta.

Lo ricorda troppo bene.

Sono passati tanti anni, ma lo ricorda.

I genitori, in alcuni casi, tendono a dare per scontate molte cose riguardo i bambini. La loro stessa esistenza sembra, per la maggior parte, cosa scontata. Il come debbano vivere. Riflettere padre e madre, le loro scelte, le famiglie e poter venire mostrati. Pretesi piccoli adulti da esibire. Non viene riconosciuto un mondo dell’infanzia e i genitori, in quanto produttori, si atteggiano talvolta a proprietari – i figli, il prodotto necessario, le balie i loro affetti, quando va bene. Altrimenti, sono soli –.

Non è, certo, un mondo per i bambini. Non che, poi, loro non abbiano il proprio.

Poi, c’è chi nasce vecchio. O scontento. O invidioso.

Chi è arrivista fin da piccolo. Chi fa tutto comme il faut, non si dice, non sta bene, non fare questo e quello. Chi è cattivo. No. Stupidamente cattivo. Prepotente.

 

Da piccola, lei importava poco, fatta e, rapidamente, sdoganata. Per conto suo. Per fortuna.

Tranne quando la madre si scontentava. Allora era l’inferno. Era facile scontentarla.

Per questo, aveva già allora la sua vita, le sue cose. Si proteggeva e le proteggeva. Quel suo mondo era la sua salvezza. Non voleva intrusi. Le faceva male sentire sua madre urlare. O suo padre. Quando davano in escandescenze, senza motivo. Quando spaccavano gli oggetti – poi rimproveravano i figli di non farlo –. E quando, come un pacco, la trascinavano, strattonandola per un braccio, serrandola per la vita. Senza poter capire cosa volessero da lei. Scontenti. Litigiosi.

 

Finiva per sentirsi responsabile. Se fosse stata brava, se avesse taciuto, se non avesse agito, se fosse rimasta totalmente bloccata, forse loro sarebbero stati meno scontenti. Così, evitava di esserci. Non poteva evitare di esistere. L’avevano fatta loro.

Ora era sfuggita.

Ora che era cresciuta.

Che lei non c’è più.

Persa.

 

Quando non c’erano i genitori, era meglio. C’era calma. Aveva la balia. Due nonne. E lei.

Quando, quasi di nascosto, con lo sguardo che la illuminava, si avvicinava con le sue falcate, e le piacevano quei capelli, che ondeggiavano ai suoi passi, e le ricadevano sempre sul viso, luminosi e lei ci giocava.

Le piaceva anche André, che era gentile e parlava con calma e calore e la guardava con dolcezza.

Voleva bene ad Oscar, senza ragione. E lei ricambiava, altrettanto senza ragione. Altrimenti, non l’avrebbe cercata, non sarebbe venuta da lei, illuminata, coi regali o con un saluto e qualche momento per lei, poi subito scappare, a proteggere quella cosa loro, se no chissà.

 

Abbraccia stretto André.

Forte. Come cercasse in lui conforto. Protezione.

André la stringe, vorrebbe che fossero uno, per essere sempre, sempre con lei. Mai divisi. Uniti. Solo loro due.

La stringe e sa di non poterla confortare.

Sa che ci sono dolori solo suoi. Che si porta dentro. Con cui fa i conti. Che cancella, o copre,[2] per non farli pesare tra loro due. Per non sporcare il piccolo tempo che riescono a ritagliarsi, tutto per loro. I momenti rubati. La dolcezza che nasce da una carezza. Lo struggimento di un saluto.

La paura, sempre, fortissima, di essere puniti per quella troppa felicità. Anche se conquistata tardi e a duro prezzo.

Sa che ci sono i loro doveri, sa che si andrà verso l’inevitabile. Anche se non ha senso, e vorrebbe solo andare via, lontano, loro due soli.

 

Le persone sono meschine. Elargiscono cattiverie. Sofferenze.

Non vuole neanche pensare perché la gente sia così.

 

A volte i genitori sono gelosi. I suoi lo erano. Anche se era piccola, capiva quello che dicevano. L’ostilità che manifestavano verso qualcuno. Il disappunto quando faceva qualcosa che, secondo loro, era sbagliato. I gesti violenti, il tono di voce che si induriva e sua madre che le si negava. Allora, si farebbe quasi qualsiasi cosa per compiacerla. Per non vedere la sua espressione cattiva e irata. Perché non la rifiuti. Il rifiuto di una madre – e di un padre è lo stesso –, è il rigetto di tutta la società. È la negazione di tutto quello che si conosce. Che si è. È il totale, semplice, piano rifiuto.

Anche se non è la madre che l’abbraccia, ma l’ha fatta. Anche se non è lei che la sfama, ma ha potere. Si impara a capire presto come funziona. A intuire cosa vogliono i genitori. È strano, perché proprio loro dovrebbero apprezzare chi apprezza i loro figli. Invece no, diventa un problema. Tutto deve girare come hanno stabilito.

Forse avevano paura che la influenzasse. Forse perché erano gli ultimi anni e lei non rigava più dritto come pretendevano. Forse perché viveva ormai sempre più a modo suo. Non lo sa, l’ha capito a stento, era piccola, ma sa che veniva da lei e, se non le avesse voluto bene, non l’avrebbe fatto.

Non sa perché le volesse bene.

Neanche si somigliano. Oscar bionda, chiara, azzurra, lei albicocca, scura. Ma chissà, sono cose che non si spiegano, perché si sia attratti da una persona, perché la si preferisca.

 

Per fargliela dimenticare, erano punizioni. Perché i ricordi fossero negativi. Ogni regalo. Cattiverie. Ripicche. Doveva scontarla. Erano stupidi e cattivi. Erano dei cretini. Erano i suoi genitori.

 

Ha il cuore in gola.

Anche se André ancora la tiene stretta, non riesce a dimenticare cosa l’aspetta.

La diserzione. La battaglia. Il pericolo.

“Ho paura…” confessa, guardando fuori, la piazza d’armi.

Le bacia i capelli. “Anche io…” E la stringe più forte a sé.

 

Sente il suo cuore che batte. Forte.

Sente il suo calore.

Sente il respiro, piano.

I capelli contro la guancia.

Serra le dita tra le sue. Sono fredde.

Si accomoda meglio contro di lui.

“Ti amo.” Quante volte ancora potrà dirglielo?

 

Quanto silenzio ha vissuto. Di se stessa. Della sua voce.

In un mondo suo, di racconti, storie, tutto inventato. Tutto disegnato.

Era la sua difesa.

Non valeva parlare.

Non aveva senso farsi scoprire.

Doveva proteggersi.

Così, pensavano non ricordasse più.

In fondo, erano passati troppi anni.

 

Una trottola. Un orsetto. Un coltello dal manico rosso.

Sarà stato sotto la quercia in giardino, sotto un tramonto come questi, che hanno giocato? Vissuto? Amato?

Saranno stati questi stessi posti?

E avranno pensato a lei una volta, stando lì, loro due?

Si saranno ricordati, una volta, di lei?

 

Si scioglie dall’abbraccio.

Prova uno struggimento infinito ad allontanarsi dal calore, dall’odore di lui.

 

È ora di andare.

Di prendere il coraggio e indossarlo. Di non mollare.

 

Quando, col respiro sospeso, apre, per l’ultima volta, la porta della sua stanza, e con lo sguardo, ancora, l’abbraccia. Quando lo lascia posare sui disegni. Sulla scrivania. Sul loro giaciglio. Su quell’ultimo barlume di luce che ricorderà, nel pulviscolo. Quando gli tende la mano, col cuore in gola e lui, da dietro, seguendola, la stringe. Ora, Oscar ha paura.

 

Oscar era morta così.

Dopo, arrivò quel soldato. Con delle carte. Guardava lei, parlando severo con la madre. Che lo cacciò via.

Due, in realtà. Due militari vennero.

Monsieur Girodel e il signor de Soisson.

L’avevano conosciuta, dissero. Con la voce che si riempiva di passato.

Trovava ingiusto che, tra tanti, proprio Oscar e André non avessero più nessuna voce.

 

Nessuno onorò la sua memoria.

Sostenevano che aveva sbagliato.

Che era sbagliata.

Che era meglio così.

Non sa se lo dicessero perché, davvero, arrivavano a pensarle, quelle meschinità, o per farle male, perché capisse quanto erano contrari, quanto sarebbe stata cattiva, punita. Disapprovata.

Quando è finita. E Oscar non poteva più difendersi. E neanche André

 

Era dilaniante. Doveva nascondere anche la tristezza, perché non le era consentita. Quando era sola, piangeva. Poi passò il tempo.

 

Suo nonno inviò dall’estero una lettera e un plico. Poi, un’altra ancora. Alla fine lasciò perdere. Doveva essere qualcosa di Oscar per lei. Fece la solita fine.

 

Una lacrima rotola giù. Ormai è scuro, nella piazza d’armi.

Stringe le braccia attorno al corpo. Dolore. Rabbia. Impotenza. Perdono.

… io… mi sento così sola…

Io, ora che sono qui, con la divisa, e mio nonno fuggito all’estero, ora che, come lei, affronto la vita, non l’ho dimenticata.

È diverso da ricordare.

 

Ho pensato a come dovesse essere non esserci più. Finire. Immaginare di non vederci più.

Non avere più niente. Non essere più niente. Perdere tutto. Perdersi.

Io l’ho persa.

 

Credo che mi volesse bene.

Forse, sperava, qualcosa di lei in me, con me, sarebbe rimasto.

O, semplicemente, per qualche ragione, ci siamo volute bene.

 

Io, io le volevo bene.

 

 

Nota: questo breve testo nasce da ricordi, impressioni, sensazioni. Quelle più immediate, recenti, contingenti. Sguardi, sensazioni, contatti. Altre, dell’infanzia. Altre, ancora, e parrà strano, da E. Ferrari, Piloti, che gente, 1990.

 

Laura, agosto 2011, pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2011

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage

[1] Omaggio all’André di De insania di Sydreana e, anche, dopo, del mio Alt Bk.

[2] Questa è una citazione da un mio testo di Liberté 2, che non è ancora uscito, su cui mi sono anche consultata, perché la cosa mi dava da rimuginare.