Kitchen Corner
parte 9
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Quel giorno le acque del fiume erano color dello stagno e avevano un fascino malato. Erano torbide, scorrevano in piccole cascate tumultuose, nascoste alla vista dai rami. Amava quel luogo. Il ponte. Il fiume.
Si guarda, di sfuggita, sperando di non ricordare, le mani, Lia. Massacrate, più di quelle di sua madre. E si sente vecchia. Sente di aver girato una sorta di boa, alla Montalbano, passata la quale, non si torna indietro.
Non pensava sarebbe successo, non così in fretta.
Oltre l’oceano, sono giorni di scazzo e ricordi.
I ricordi di poco prima del matrimonio. Vale a dire, degli ultimi giorni di lezioni per il suo corso, quando tutto doveva scorrere, e invece si intoppò. Non che lei fosse mai stata istituzionale, ma la convivenza dell’idea di sposarsi con quella di perdere il lavoro e lo stipendio non era facile. Un carattere pensoso non si rende mai facile niente, ma un certo ambiente di lavoro può peggiorare le cose.
Ricordava bene l’imbarazzo per quell’allievo che le aveva domandato la tesi, e il suo diniego, quasi commossa, a spiegare perché no. E la delusione negli occhi del ragazzo. E della classe. Ma quanti anni erano passati… non aveva neanche più senso pensarci. Si era solo sentita più in bilico del solito e come se le pessime sensazioni che aveva provato negli ultimi anni fossero state confermate.
Non è poi neanche stato qualcosa di particolare, il suo commiato dal lavoro. Sta accadendo, e basta, e a chi le vive attorno non importa.
Non importa a nessuno che non avrà più un reddito. Che le spese restano – essere in vita costa –, e diventano debiti.
Ha visto gente muoversi per creare posti di lavoro inesistenti e improponibili. Regalare stipendi come fossero appannaggi. C’è un multiplo binario, nel mondo del lavoro, da qualche tempo o, forse, da sempre – solo che, negli ultimi tempi, si nota di più –, per cui gente come lei è a spasso e altra no. E la dirimente non è gentilmente spiegabile. Come diceva Adamsberg, “gentilmente accompagno”. Beh, qui non c’è gentilezza che tenga.
Se ci si potesse rifugiare, come faceva sua madre, in un mondo di romanzi, nelle soporifere dormite con cui si alienava, svegliandosi, ridendo come una bambina, perché aveva sognato Berger che la portava a fare un giro in auto. Ma lei non ha conservato quell’innocente cretinaggine, o, forse, è che sua madre aveva uno stipendio, il che non guasta.
Non è un momento facile.
Finanziamenti dalle ricerche a cui ha partecipato, non li ha mai percepiti.
Ora, non ha più un reddito.
Finito quello che c’è in banca, finito tutto.
Significa, per esempio, non potersi pagare un po’ di cioccolato.
Uscisse qualcosa di nuovo su Lady Oscar, non poterlo comprare. Né un computer nuovo. Manco le scarpe.
Questo lungo momento è durato anni. È sempre così che succede. Anni in cui ha continuato a produrre, pur dovendo restare defilata, perché i diktat dagli ex colleghi si sono fatti sentire nel giro. È così che funziona.
Ormai, era tutto passato.
Se ci pensava, da lontano, non ricordava neanche di essere stata quella persona.
Per dire, le sembravano più vicini certi momenti dell’infanzia.
Invece, cos’era lei, quando aveva il lavoro che amava, non lo ritrova più. È diverso, ora, quando si siede in un angolo sgombrato a fatica del tavolo, cercando di rappezzare uno straccio di concentrazione mentre i gatti latrano, il marito miagola, la pila cubica di materiale che anela al ferro da stiro cresce esponenzialmente, rubando quei tre quarti d’ora di quasi pace, mentre il cervello s’arrovella su collegamenti, recupera frasi, nozioni, idee, a cui accede, come la sua proprietaria, per intervalla insaniae. Una volta ogni tanto, quando si può.
E le pare così irrimediabilmente distante, lui, quella volta che andò a trovarla, i calzoncini corti e le belle gambe abbronzate, suonando timidamente alla porta. Lui, ora, sta lì, scontato. O, meglio, lei non lo darebbe per scontato, ma si è rotta le scatole di essere, invece, data per tale. Lui, per fortuna, lavora, bene, e manda avanti la baracca e lei lì, lei niente, lei un disastro totale.
Nessuno l’aiuta. Neanche se stessa.
Almeno, le sue amiche, prendono e riguardano Lady Oscar. Lei non ci riesce. Ce l’ha in esecuzione in background, purtroppo, la rivede, la inventa, per carità, ma, non avesse questa sconfinata capacità di andar via, fosse normale, almeno venti minuti di evasione, come fanno le fan normali, se li regalerebbe. Ma che vuoi rivedere, quando la sai a memoria, quando ormai è parte di te che ti sembra di vivere dimezzata, di non vivere la tua vita e consolarti con qualcosa che esiste nei sentimenti (tuoi e di migliaia di altri)? O, forse, è solo stanchezza e chi ha una vita normale, e, si suppone, soddisfacente, appunto riesce a regalarsi quei venti minuti di svago (ah, che svago vedere il Grandier spallottolato per bene, povera stella, però che mira, Oscar, che lo stronzo l’ha immediatamente centrato – poteva metterci qualche istante meno e André sarebbe stato ancora vivo. Beh, morto di vetustà, se fosse esistito. Però André non esiste –).
Va così.
Ha imparato a vivere con sempre meno. Ma si è rotta le palle.
Ha piazzato i suoi lavori. E non vanno male. Ma non le ridaranno il lavoro. Un lungo buio.
Altri tentativi di diverso lavoro, affogati tra padre e fratelli. Questo forse è stato il peggio. Perché non la vogliono? Devono fargliela scontare, soprattutto i fratelli. Sadici, ora che possono la tengono sotto, ad affogare sotto il pelo dell’acqua. Non capisce come si possa fare così del male ad un essere umano, ma questo sono i suoi fratelli. Ce la mette tutta, tuttissima, lavora sodo e va bene, ma non è facile rifarsi strada.
E l’insoddisfazione dilaga. Fatica a ritrovare il ragazzino che aveva conosciuto. Un guizzo, nello sguardo, a volte, un accenno dell’antica ingenuità.
Ma cosa fosse stato di loro due, presi in mezzo alle immani stronzate, alle beghe, per quanto si fossero protetti, non sapeva dirlo. Cosa restasse dopo le ingerenze inutili, cattive. E come loro due continuassero a tenersi su, nonostante tutto. Ma ad un certo punto era successo troppo.
Forse era stato il fatto che lui, preso in mezzo, si era rifiutato di voler capire, perlomeno comprendere il suo punto di vista e, invece di lasciarla a decantare la rabbia, la frustrazione, la tristezza, l’aveva umiliata, come moglie e come professionista.
Era stato allora che aveva capito che era sola. Non ricordava più neanche per quanto tempo avesse pianto, quella sera, dopo tutta la rabbia e l’umiliazione. Si era resa conto che non aveva nessun posto in cui andare. Proprio come diceva André nel fumetto. Eppure, lui, una sua dignità l’aveva saputa mantenere, forse perché era un fumetto e non mangiava e non beveva (salvo le sbronze letterarie – che, poi, più Dezaki lo fa sbronzare, che la Ikeda –) e, in sostanza, non necessitava della costosa manutenzione che un essere vivente nella società odierna richiede. Aveva ragione André quando diceva “E dove potrei andare? Non ho altro posto.” Lei, in quei momenti, aveva realizzato che voleva andarsene e non poteva. Non erano suoi i soldi con cui, anche a tariffa ridotta, viveva. Sì, ci metteva la casa, ma finiva lì. Sì, si sfiancava come una serva, ma finiva lì. Sì, sopportava umiliazioni e cattiverie, ma non serviva. E neanche lavorare gratis, bastava. Anche se il suo lavoro, correttamente valutato, valeva tanto.
Sua madre, se avesse potuto parlarle, avrebbe rivoltato tutto contro di lei. Suo padre idem. La persona sui cui, in maniera totale, aveva fatto affidamento, per quasi vent’anni, era lui. Lui che, con una durezza che raramente aveva avuto nei suoi confronti, le aveva detto cose che non avrebbe voluto mai sentire. Poi, l’aveva praticamente costretta ad esserci e ingoiare pure quell’ennesima imposizione. Quella notte, aveva realizzato la sua impossibilità, con gli strumenti attuali, di decidere della propria vita. Aveva capito che doveva andarsene (e non per lui, ma per il contesto, soprattutto, per se stessa). E che doveva trovare gli strumenti per andarsene.
Sono seduti, quasi al buio, in quella carrozza. E, quasi, si sfiorano. Ha gettato l’occhio, per caso, sulle gambe di lui. Magre, nervose, attraverso la stoffa scura. Ha pensato che era una bella immagine.
Poi, l’ha guardato. Si è resa conto che dà tante cose per scontate. Si è chiesta, in quel particolare momento in cui come la luce di un pensiero gli ha attraversato lo sguardo, lontano, cosa pensasse. E, più in generale, cosa pensi. Perché, questo, lei, quasi non se lo domanda mai. André è lì, come fosse apposta per lei. Eppure, non è esattamente così.
A volte, fa muro contro lei. A volte la sostiene. Sa che è il suo lavoro – lei è il suo lavoro –. Ma sa che non lo fa per lavoro.
Così, in questa strana serata, mentre si stringono nei mantelli e vengono sballottati lungo il percorso, osserva il bianco del colletto contro la pelle rasata e la mandibola. E pensa che è fatto bene.
E il polso, che sporge dalla stoffa, e la mano, abbandonata.
È solo un attimo, quando lui si gira, e, giusto qualche secondo, intuisce uno sguardo scoperto, che non è riuscito a nascondere neanche a lei. E a se stesso.
Non è stata se non una sensazione. Ma certe cose, forse, può capirle anche una come lei.
Si è sentita scaldare.
Si è sentita in pericolo.
Come sull’orlo di un abisso.
Ci sono altri tipi di crisi. No, dico, perché mai se uno si chiama Andrea le femmine si aspettano, se fan indomite della bionda, che il suddetto sia o un casto virgineo complessato o, a seconda delle scuole di pensiero, uno stallone, o un maschio infallibilmente in seminatore (vade retro!) o, anche, uno che va clamorosamente a puttane, salvo poi, immancabilmente, inseminare la cretina di turno – Oscar o la femmina fanfic-antagonista, non si sa perché sempre ignare contraccettivamente parlando –, e fare quindi la figura del pirla? Andrea se lo domanda. Mai uno normale? No, perché il Grandier, perlomeno quello del cartone, uno normale sembrava. Certo, pure troppo bello, pure troppo paziente, ma matto come un cavallo, no!
Insomma, secondo le fan, Alain è meno pirla. Il che non è un bel dire. Povero Grandier!
A volte si chiede quanto duri il tempo. Soggettivo. Cucina, osserva i timer degli elettrodomestici, e si rende conto che quei secondi non sono quello stesso tempo, se lui li vive distratto o impegnato, disperso, in pensiero.
In parole povere: quando cazzo ti decidi a tornare!!!
Laura, marzo-novembre 2010, marzo e maggio 2011 pubblicazione sul sito Little Corner maggio 2011
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