Kitchen Corner

parte 8

 

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Una volta qualcuno, che forse doveva essere stato importante, le ha domandato cosa fosse essere com’era lei.

“Come cosa?” avrebbe voluto stupirsi, ma l’educazione l’aveva frenata. Non si era soffermata a concedersi di considerare quanto meno importuna e inopportuna quella domanda, quell’uscita goffa. Lei non si sentiva né diversa, né speciale. Speciale, un po’, sì, ma per come era dentro di sé, per come sapeva stupirsi delle cose, notarne alcune, che gli altri, vivendo e passando oltre, neanche sfioravano. Era quello, semmai. Era quel darsi, poco, ai tanti, quel guardare con distacco, ma, poi, da qualcuno, sapere di potersi lasciar conoscere.

E, allora, senza neanche rifletterci troppo, come fosse normale, aveva semplicemente confidato che non c’era niente di difficile, era normale.

E a lui, che insisteva, che pensava ai campi di battaglia, alla paura, “Non avete mai paura dello scontro, di restare uccisa?”, aveva infierito, leggiadro e insulso, nella conversazione quasi da salotto, aveva risposto “Certo. Se mi fermassi a pensare alla paura, non farei più un passo.” Si era resa conto del tono, troppo profondo, dello sguardo, perso in un dove lontano. Allora, aveva alleggerito quel troppo di se stessa con un sorriso.

“Cos’è che vi fa davvero paura”, aveva insistito.

“Tradire le aspettative… di mio padre, soprattutto. Quello, quello è uno scoglio quasi insormontabile”, aveva detto, come tra sé.

E, tra sé, aveva aggiunto, per colpa di questo, io rinuncio a vivere.

 

È un delitto, vivere nella paura. Abdicare al senso di libertà e gioia, che dovremmo portarci dentro. Rinunciare a quello che desideriamo davvero. Rinunciare per paura di tradire qualcuno. Le aspettative di qualcuno.

Non basterà mai. Non sarà mai abbastanza, neanche se darò tutta la mia vita, per lui sarà mai abbastanza.

Ad un certo punto, aveva capito.

E, quell’ultimo anno, passato a fingere di non amare André, a dimenticare tutto di lui, a stargli vicino ed evitarlo, cercando di scambiare due parole neutrali, di normalizzare in senso negatorio il rapporto, le era parso insulso. Sprecato.

E’ un delitto anche sprecare il tempo.

 

E, così, aveva confessato.

 

36 secondi. La durata quasi infinita di una telefonata.

“Sei tu”, ha esitato, quasi non osando concedersi quella speranza. A lei è salito un groppo un gola. Le è sembrato impossibile averci pensato tanto a lungo, non aver osato farlo prima, e, ora, ora che sente quella voce, averne potuto fare a meno per così tanto tempo. Ora si sente una dodicenne alla prima cotta devastante, le mani che tremano, gelate, il cuore in gola. Quasi rivive scene passate.

“Sei tu?”, ha ripetuto. In quel momento ha capito di essere, realmente, profondamente, ancora innamorata. Raccoglie le dita agitate tra le pieghe della stoffa. Nel muoversi, incontra una pila di libri, che rovina a terra e si vergogna del casino che, all’altro capo del mondo, lui può sentire. È tutto come sospeso.[1]

Quasi non riesce a parlare. E di sicuro non sa che dire. Non sa perché ha telefonato, solo, voleva sentirlo. Non ha scuse, non sa di non averne bisogno come, invece, quando erano ragazzini e ogni volta doveva trovare mille giustificazioni con se stessa per telefonargli.

Ma è lui, sorpreso, quasi felice, che domanda, ora, chiede, in un soffio di parole, timide, la voce che non obbedisce.

Quanta distanza, ancora, per l’ennesima volta, ho messo tra noi?

Quanto sei, ancora per una volta, disposto a venirmi incontro…

La dimensione del viaggio cambia per forza di cose i punti di riferimento.

Quelli tradizionali, per scelta, vengono a mancare nell’atto ripetuto e continuo dell’allontanamento. Si diventa punti di riferimento l’un l’altro. Ecco perché lì le cose cambiano.

Mio, mio amore, che ci sei sempre stato e i ricordi, da un istante in poi, hanno, in un modo o nell’altro, a che fare con te. Mio amico, mio amore di sempre, mio compagno, che non sei mai cambiato nel profondo, eppure ho paura a pensarti diverso. Che, per paura mi lasciassi, ho lasciato io. Ho tralasciato. Per scelta.

È talmente emozionata che non ricorda cosa ha farfugliato, cosa si sono detti. Ricorda le mani gelate, il cuore in gola. E le dispiace quel vuoto della memoria.

E ora, come riprendere i fili?

 

Essere sempre forti non è un pregio. A volte, bisogna ammettere le proprie debolezze.

Bisogna sapere che è dura vivere così, soli, anzi, isolati. Voler fare gli orsi e i grandi, dire io sono pura e cruda, eccomi qui, vivo con le mie forze e non dico grazie a nessuno. A volte è una cazzata immane, a volte ci vuole. Ora sa che non c’era niente da dimostrare, se non a se stessa. Ora sa che, semplicemente, quella opportunità se la doveva, se non altro per onestà, per dire ho tentato. Non è facile andare, partire. E neanche scegliere di tornare indietro.

Sarebbe bello se, come in un film, ti rincorressero, ti convincessero, perché sei indispensabile. Nella vita non succede quasi mai. Molti giocano sporco e ti sfruttano, semplicemente. Poi c’è chi ti ama, che, molto banalmente, viene magari preso alla sprovvista dai contorcimenti mentali che ti distruggono e non sa più che farci, si rende forse conto di non bastarti più, vede arrivare incredulo la catastrofe, ma non sa come arginarla.

Andare via era stato forse necessario per avere un’idea più chiara di sé, e, probabilmente, attraverso quella distanza, anche di cosa fossero, realmente, loro due. Della forza, della tenacia che li avevano uniti. Della fragilità di un legame, se non c’è qualcosa di solido, dietro. Più ancora di questo, era stato ritrovare il suo lavoro.

Il suo corso sta per terminare.

A volte ripensa a quell’ultimo anno. Al senso di fine, che pervadeva quasi ogni suo gesto, che le rovinava tutto, che faceva pesare ogni parola che spendeva per i suoi ragazzi, toglieva leggerezza ai suoi progetti privati. Perché quel lavoro era importante, e sapeva di starlo perdendo.

Si era sentita impotente, quando uno studente le aveva chiesto la tesi ed era stata costretta a rifiutare. Impotente, piena di vergogna, a dover giustificare il rifiuto con la spiegazione che non era sicura di avere ancora quel posto l’anno successivo. Poi, col matrimonio, era arrivata la notizia ufficiale, cattedra non rinnovata. Bel regalo di nozze, non c’era che dire. Alla sua simpatica collega trendy il dono era stato ben diverso: un solido contratto da ricercatrice per lei, un bel posto da ordinario per lui, che la ereditava dal grande capo. Così va.

Era stata brava nel suo lavoro. Non sarebbe mai stata, invece, quello che i suoi volevano. Sempre ammesso che avessero capito almeno loro cosa volessero che fosse. Lei aveva l’impressione, ancora dopo anni, che non lo sapessero. Che l’avessero solo costretta a prendere una direzione, ma che non ne conoscessero loro stessi la ragione.

Un Alt Tab dal file della lezione, apriamo il lettore. Giusto dieci, centellinatissimi minuti di distrazione, vediamo a che punto siamo del remake. Ha il cuore in gola come quando non sapeva come andava a finire. Come quando lo scoprì dall’album Panini. Come quando, non essendo sufficientemente chiaro l’album sul come e dove, attese quell’ultima manciata di episodi, quei giorni di inizio dicembre 1982.

 

Il selciato ha conservato il calore del giorno, in quel tramonto.

Quando era piccolo – poi, ancora, con Oscar, fino a quando –, si stendeva per terra, e ricordava il pavimento freddo, o la paglia. Era un gioco, allora. Ora, è la morte.

Sente le dita di Oscar che tentano di sorreggergli la testa, ha sudato, e sente freddo. Non vorrebbe arrendersi. Proprio ora.

Sente l’odore della stoffa della sua uniforme. L’odore dei suoi capelli, che gli spiovono addosso. Come quando facevano l’amore. E ora sta morendo.

La vorrebbe per sempre con sé. Per sempre, espressione che ora lo fa sorridere. Per tutta la vita. Eccola, la sua vita.

Che sta finendo qui.

 

Senza nessuno. Loro due, soli.

E, invece, c’è questa massa di gente, e va in scena la rappresentazione. E nessuno è utile, per strapparlo alla morte. A che servono i medici?

Che strano.

Che tristezza.

Questo schifo di nascere, attaccarsi poi a una vita che neanche si è chiesto, dover soffrire, passarla a cercare di stare meglio, di essere felici, poi, morire. Una solenne presa per i fondelli che fa parte del gioco.

In cui le cose belle ci sono state, in cui è stato bello viverle accanto. In cui avrebbe voluto ancora, ancora, ancora vivere.

 

E invece, finisce.

Finisce, Oscar, tutto, non c’è più niente.

 

Alain l’ha dovuta staccare da lui.

In qualche modo, era convinta che lui ancora sentisse che lo teneva abbracciato. E non avrebbe mai voluto lasciare il contatto. Le dita aggrappate a lui, quasi lacerare la stoffa.

“Lasciami!” aveva urlato.

O, forse, è solo egoismo, per se stessa, per non restare sola di lui.

“… lasciami…”, ora, piangeva.

 

E adesso?

Adesso, non c’è più niente.

 

Niente.

 

Finire la missione, la battaglia.

Finire di condurre i soldati.

Poi, davvero, finire.

 

Serra le dita gelate attorno al calcio dell’arma.

 

È ingiusta, la vita.

Non è giusto…

Non è giusto.

Non è giusto!!!

 

Eccola là, André, che vaga. Svuotata. Finita.

Dovevi proprio farti ammazzare? Non potevi restare a casa?

Non sai quante volte ha maledetto il momento in cui ha accettato che la seguissi?

Non sai quanto ha pianto?

La cosa pazzesca è che non ci sei più, non puoi saperlo, non puoi vederlo, e forse non hai idea di quanto ti amasse.

Forse, non lo sapeva nemmeno lei.

 

Piove, stanotte.

Se potessi non respirare.

Non sentire più niente.

Assorbirmi in un limbo,  smettere di esistere.

Se questa pioggia mi sciogliesse.

Se mi strappasse dal cuore ogni ricordo, ogni attimo, le lezioni insieme, i giochi. Gli sguardi grati per le piccole cose. I regali di compleanno. Le sfumature della voce, che avevo imparato a trascurare perché c’eri. C’eri sempre.

Se solo avessi capito quanto eri prezioso.

Se solo ti avessi detto prima tutto quanto.

Se solo ti avessi protetto.

Se ti avessi lasciato indietro.

Se non ti avessi amato, ieri, e tutto ancora fosse come prima.

 

Prima è finito.

 

Ha imparato a guardare “Lady Oscar” in soggiorno, coi fratelli che la sfottono. Con la madre che commenta “Lady Oscar è masochista”. È abituata a nascondere se stessa e le sue cose, che i fratelli, per dispetto, le massacrano. Ricorda una copertina del Corrierino completamente cancellata con diecimila tratti di Bic blu. Ci stette male, come una violenza a se stessa. Per vedere “Lady Oscar” devi essere brava a nasconderti. È sempre stata brava a fingere di non commuoversi. Neanche ora, che la visione avviene su un notebook, sola, senza nessun sadico attorno, riesce a schiodarsi da quella sensazione di essere controllata, di non poter essere liberamente se stessa, con le sue reazioni. E si nasconde.

Eppure, trema, le spalle contratte, gli occhi lucidi, scossa dalla commozione. Ma non riesce a piangere.

 

C’è un cielo grigio metallico. Uno strano bagliore che quasi illumina le pietre e stempera tutto. sembra quasi tornato l’autunno.

Che tristezza.

Si guarda attorno, mentre cammina veloce.

Quelle gocce di pioggia che tamburellano, sulle pietre e sul fiume. Cerchi concentrici che si infrangono sui bagliori e le ombre della leggera corrente.

Sembra quasi un’atmosfera alla Dezaki. Sparisce il resto, nella sua mente compaiono le gardes e il fiume, il Canal St. Martin, e vede anche il suo ponte e il suo fiume, che riappaiono, la realtà. Chissà com’è riuscito a tirare fuori quelle inquadrature, quel capolavoro, ad isolare sprazzi, situazioni. È difficile fare una nuova serie prescindendo da lui. Ci sarà sempre questo macigno di paragone. Almeno, finché qualcuno lo ricorderà con amore e affetto. O qualcuno lo vedrà e non potrà fare a meno di dire che è un capolavoro.

Ha incrociato una collega coetanea, extra-gravida, al sesto turno. Vabbe’ che ha il padre ricco, ma come fa questo a mantenere allegramente le due figlie, qualcosa come una ventina di nipoti, e nessun lavoro in vista, se non interventi sul giornalino ideologicamente schierato? Ci deve essere una legge di compensazione, uno accumula, i figli dilapidano, and so on, e, se hai culo e appartieni al giro giusto, galleggi. Come gli stronzi, se la materia è sufficientemente compatta.

Personalmente, pur concordando che la questione della merda galleggiante è una evidente legge della fisica, non trova attraente né la questione del giro giusto, né la femmina extra-sized, anzi, è sinceramente, felicemente – i bei tempi… – e nostalgicamente d’accordo con la sua lontana, fuggevole, diciamolo, fuggita donzella, a passare serenamente il tempo con un po’ di sano sesso, con le dovute sicurezze e senza sensi di colpa. Ci si diverte di più, senza patemi. Tutto qui. Viviamo in un mondo che lo consente, mica nella preistoria, e che cavoli!

E così è sfuggito, un rapido imbarazzato ciao, anche al lavoro si vedono poco, lei si vede poco, si vede che la clientela scarseggia, la sua clientela, invece, quella di lavoro e quella di casa, lo attende al varco, ad inizio pomeriggio, e tocca correre.

Gli è piaciuto le Perfezioni provvisorie. Rendeva bene quel loro lavoro.

 

Arriva a casa. L’angolo cottura è sempre più fornito. Un’apoteosi, doveva fare il cuoco! Certo, i regali di lei! Al una volta l’ha preso in giro, insieme con Lia. Se la ridevano i due, “Sei più bello di Aaron Eckhart in mezzo ai fornelli”, aveva esordito lei.

“Eh, no, lui è biondo…” aveva svicolato.

“Non vale, la bionda dice che somiglia a Daniel Day-Lewis”, aveva corretto Al.

“Se lo dice la bionda…”

“Zut, voi due, o requisisco le provviste…” brandendo il mestolo.

Guarda con affetto l’ultimo regalo di lei, giunto per corriere. Segno che lo pensa. Segno che… si sente come un ragazzino alla prima cotta pieno di mille dubbi, non immagina che lei si senta allo stesso modo. La realtà è che lei è lontana, ufficialmente per lavoro, e gli manca da morire, ma, di fatto, vanno avanti tutti e due, l’uno senza l’altro. O, meglio, prescindendo dal concetto di presenza dell’altro. Come l’assenza fosse normale. Come fosse normale mancarsi.

Forse, quando arrivi ad un certo punto del rapporto, lo è. Non è stanchezza. Né dare per scontato o presupposto qualcuno. È, semplicemente, inspiegabilmente, sapere che l’altro c’è.

In quale modo, forma, stato fisico, è tutto da scoprire…

E forse è questo il problema.

Se solo avessero inventato il teletrasporto…

 

Certo che è lontano…

Ricordò all’improvviso, in un dolore bruciante di cuore sospeso, quella sera, in cui aveva smesso di cantare “Autogrill” per sentire la voce di lui, che l’accennava. Qualcosa l’aveva sempre legata a quella canzone, poi l’aveva imposta a lui. Le ricordava Oscar. Bionda, senza averne l’aria. Le ricordava André. Quasi triste, come i fiori e l’erba. E quel non detto. Il silenzio. I silenzi. Troppi. Quando non bastavano ancora gli sguardi. Quando cercarsi sembrava impossibile e tutto quello che sarebbe stato, poi, pareva facile. E vissero… non era così. Ora i silenzi erano diversi. Sempre.[2]

 

Poi, c’erano altre parole. Altri dolori.

La cosa peggiore, forse, è che erano inutili. E neanche di loro due.

Ma avevano influito.

Troppo. Fino allo sfinimento. Nonostante entrambi avessero tentato di proteggersi. Di proteggere la loro coppia. Quando ci si mettono di mezzo gli altri, non sempre si regge il colpo. E, quando le famiglie caricano ripetutamente gli assalti, difficile, quasi impossibile, resistere.

Avevano cominciato presto.

Il padre di lei, a dieci anni. “Non mi piace, mica ti metterai con lui?”

Poi la mamma di lui, sempre subdola, violenta, preferibilmente quando non c’erano testimoni o l’interessato era distratto. Cose che ferivano. Specie se ripetute. Specie se non ci si vedeva e non c’era modo di assorbirle. E prepotenze, applicate con spregio, forse cattiveria. Ingiustizie. L’inizio di molte altre cose.

Le manovre, attraverso altre persone. Le interferenze nelle loro vite. La rapina delle loro sostanze. Ovviamente senza che lei, ragazza, poi compagna, poi moglie, potesse avere una sia pur minima voce in capitolo. Le decisioni venivano imposte, anche a lui, a lei comunicate, en passant, quando ormai erano chiuse, consolidate. Come se lei non contasse niente e questo fosse normale. Tra loro, non era facile accennare a queste situazioni. Si creava il gelo. Forse, perché lui sapeva che non era giusto. O, forse, perché erano cose sue, di famiglia, e lei non c’entrava. Non era facile. Una famiglia compatta. Un elemento tentato dissidente, il figlio sandwich che veniva ricacciato nei vari giri e giochi.

Così, lei si sentiva fuori dalla vita di Andre, sentiva che non poteva essere. Ogni volta, doveva fare violenza su se stessa per essere superiore. Superiore un corno, questa gente faceva i conti anche con la sua vita. Questi erano gli iceberg, poi c’era il resto di cattiverie varie subite negli anni e ingoiate per amore suo. Tutte le cose a cui era passata sopra, cercando di non farci troppo caso.

D’altra parte, anche i suoi non erano stati da meno. Costringerla a certi studi, per proseguire il lavoro di famiglia, e poi lasciarla a terra, come una pirla, in favore dei fratelli, maschi, nel lavoro e anche nei vari beni. Anzi, suo padre era arrivato a dirle che, non avendo figli, doveva fare testamento (ma non è un po’ prematuro, si era domandata?), a favore dei nipoti. Lei avrebbe voluto ribattere che non si eredita per indegnità – condizione che, riteneva, potesse descrivere efficacemente il comportamento dei fratelli verso di lei –, poi aveva preferito tacere, temendo che cogliessero il suggerimento e applicassero ulteriori contromisure. Come se tutta la sua vita con Andre non esistesse. E neanche avesse valore. Anche questo, non è avesse fatto bene al loro rapporto. Negare il valore di una persona, negare il lavoro, negare il giusto riconoscimento, attraverso il pagamento, del lavoro, sottrae all’essere umano dignità. sottrae capacità decisionale e di gestione. In fondo, mica chiedeva di essere mantenuta. Domandava solo di poter lavorare, dignitosamente, retribuita.

Le famiglie sono ingiuste. Prima mettono al mondo figli, poi pretendono di sottrarre loro energie in nome di non si sa bene quale senso di colpa o gratitudine per l’essere stati fatti nascere. Cosa che i figli non hanno né richiesto né deciso. Si ritrovano nati. Si ritrovano a vivere, attaccati il più delle volte alla vita, e a dover fare i conti col fatto di dover accettare di morire. Molto simpatico davvero. E, per questo, i genitori esigono gratitudine e pedaggi per il resto della vita? Per questo arrivano a dire “Ci devi restituire questo e quello”? “Mangi a casa quindi ridammi tot”. Le era sempre parso assurdo: quei figli erano lì perché loro li avevano creati. La logica le era sempre sfuggita. Le sembrava tutto una gran giostra di egoismo, di calcolo, di cinismo. Come la pratica di sacrificare un figlio per l’altro. Tanto, l’altro se la cava. Forse, ma come?

Quando si ha a che fare con ingiustizie così, è dura.

Quando provengono da entrambe le famiglie, peggio.

Nella coppia, per quanto ci si ami, si sente di non avere in mano le stesse carte. E si arriva all’idea di andare lontano, pur di riprendersi quella dignità, e il proprio lavoro.

Così aveva fatto.

 

La prima volta che la sua collega le aveva parlato di quella fellowship era rimasta interdetta. Bloccata. Era il suo campo, proprio quello, e la cifra non era indecente. Tre anni.

Aveva accantonato il pensiero. Poi, ad un certo punto, era tornata sui suoi passi. Insieme alla collega, avevano compilato l’application form. E, silenziosamente, per un lunghissimo periodo, mentre le persone attorno a lei giocavano a dadi con la sua vita, aveva atteso.

Non ce l’aveva con Andre. Lo capiva.

Ma non poteva continuare così.

Perché un giorno, con la chiarezza di una tegola sulla testa, aveva realizzato che, così, non andava da nessuna parte. Presso i suoi non c’era posto per lei, per il suo lavoro. Né era comodo a nessuno di loro riconoscere le sue competenze. Aveva capito, improvvisamente, e si era domandata come non l’avesse intuito prima, che sarebbe arrivata a cinquant’anni senza niente in mano, neanche un’annualità buona per la pensione. Si era sentita un niente. Sapeva di non esserlo, dopotutto. E aveva deciso di tradire.

Io non valgo niente, per loro. Questo, le era chiaro.

 

“Philadelphia… certo che è lontana…” aveva detto lui, smarrito, con un filo di voce. Dopo un silenzio infinito. Il suo mondo che sembrava andare in pezzi, proprio in quel momento.

“Pensi di andare…?” una non domanda sospesa nell’aria.

“Ho il biglietto.” Le aveva fatto male il cuore, quando aveva parlato così.

“Perché non mi hai detto niente?” la voce netta, solo un po’ incrinata, nell’ansia di quella domanda, nel venire a patti con la realtà che stava componendosi.

Era rimasta in silenzio. La risposta che le affiorava alle labbra era Non mi hai lasciato scelta. Non mi avete lasciato scelta. Mi avete incastrato e compresso per anni, e io voglio la mia vita. Ma, in realtà, non c’era niente da dire.

Ci sarebbe stato, forse, da recriminare per tutto l’aiuto che sua madre e lui avevano offerto alle cognate, per trovare lavoro, ai vari più o meno amici.

Ci sarebbe stato da dire di quelle infinite volte che si era ritrovata senza nessun appoggio, mentre altri venivano provvisti di aiuti consistenti, per poter lavorare. Ma a cosa sarebbe servito, ripensarci, ridirlo, ora? La realtà è che per lei non c’era spazio. Il dato era che quel loro amore continuava, nonostante quello che avevano attorno. Nonostante fosse difficile proteggere l’altro da gente così, attorno.

Questa era la realtà.


 

Fine parte 8

 


Laura, marzo-settembre 2010, Pubblicazione sul sito Little Corner del settembre 2010

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[1] Appunti sms 4 novembre 2009.

[2] Grazie a Silvia S. per avermi riportato questo ricordo.