Kitchen Corner

parte 7

Warning!!!

 

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Quella mattina, si era svegliata con il desiderio bruciante, angosciante, di lui. Come le mancasse l’aria. Che il loro fosse un legame fusionale era evidente, che, per tante cose distanti, vivessero per altre uno stato simbiotico era chiaro, ma mai da tanto tempo si era sentita così. Una paura, di cosa, dell’assenza, della perdita, della lontananza. Di qualcosa che a stento riusciva a spiegarsi.

Aveva il ricordo di notti, e risvegli, abbracciata, abbarbicata, come ne venisse la vita, a lui. Poi, era stato come metterli da parte, quei momenti. Erano stati ognuno prezioso, poi, erano diventati ovvi. Dopo, soffocanti. Resistevano ancora, preziosi, ma costituivano un  freno – almeno così li interpretava, affidando loro la responsabilità di qualcosa che, forse, non c’entrava –. Ora, però, le mancavano e avrebbe solo voluto che lui fosse lì, e abbracciarlo – ed essere abbracciata –.

Si era accorta, poco tempo prima, che quelle immagini ferme, solide, di lui, lui ragazzino, lui più giovane, stavano sbiadendo. C’erano stati ricordi fissi, capisaldi nella sua memoria, immagini, scene, suoni, odori, la memoria degli abbracci, forti, disperati, quando lui scendeva dal treno e lei lo cercava con lo sguardo, interrogandosi, l’ansia che ballava nel cuore, se tardasse, se sarebbe arrivato. A volte, ultimamente, si era resa conto che quelle immagini sbiadivano. Ed era come perdere, non volendolo, una parte di se stessi.

Lì c’era tutto quello che le occorreva per il suo lavoro. Lì c’era un lavoro. Vero. Lì c’era l’assenza di lui.

 

Lui. Che una sera era rientrato. Lei non l’aspettava. Aveva sentito rumori sotto, e non osava sperare fosse lui. Affacciandosi sulle scale, quasi timorosa, non l’aveva neanche chiamato, per paura della delusione. Un tempo gli sarebbe corsa incontro, col cuore in subbuglio. Ora, si lasciava sorprendere nel tepore di una possibilità. Poi, un attimo, quasi infinito, i passi si erano fatti più chiari. Prima l’ombra, comparsa sfocata sul muro. E lui. Allora, l’aveva abbracciato stretto.

Avrebbe voluto che l’avvolgesse e la obliasse. Avrebbe voluto vuotarsi la mente e ricominciare. Niente sovrastrutture, complicazioni, niente. Niente.

Mica era stata un’unione facile, la loro.

Qualcosa che germoglia con “Autogrill”, parabola non certo di un amore fortunato. Che, timidamente, viene coltivato con “Verranno a chiederti del nostro amore”, notevole e disillusa. Che, finalmente!, comincia sotto gli auspici di “Se stiamo insieme”, bellissima e sorprendente, certo, di un’atmosfera disperante e malinconica, come piaceva a lei, amante del dramma (ma di buon gusto!), ma non propriamente un inno all’amarsi spensierato. Qualcosa che prosegue, poi, con la solida, amata colonna sonora di “Farewell”, straordinaria, malinconica, a tratti incattivita. Insomma, due che condividono – e, se non condividono, si scambiano – una tale esperienza musicale – a cui non si può mancare di aggiungere ”Danse mon Esmeralda”, la prima ascoltata, quella che aveva indotto il boom Notre Dame, e che, comunque, in puro stile Ikeda, non preludeva ad un finale leggerino. Mentre nel frattempo, ignari, il timido André Grandier e la testarda Oscar de Jarjayes costituiscono la croce di entrambi, per diversi ed opposti motivi, lei, per amore, lui perché si è rotto di vedere lei persa per André, solidale con Oscar e, negli anni, silenziosamente estimatrice del Soisson, il rifugio della maturità. Per non parlare di esperienze umane condivise, come gli anni di scuola, con insegnanti che avrebbero fatto la gioia di Roger Waters. Sono cose che lasciano il segno. Insomma, due che cominciano, o, meglio, tardano a cominciare, così, in mezzo a questo mare di disperazione e disillusione anime-cantautoriale, che altro vogliono combinare, se non incasinarsi? E se non li incasinano i sentimenti, perché questi due si vogliono bene sul serio, non troveranno loro – o chi per loro, che è più facile – il modo di devastarsi?

 

Mi accorgo sempre se mi guardi… sarà così anche al buio?

Gli sembra che lo sguardo di Oscar gli arda sulla pelle. Alain e lui, di spalle, incorniciati dalle volte di quella palestra cupa. Ha quasi freddo, André, e si stringe nella giacca.

Ha paura, una paura fottuta.

Stanno insieme da quasi un mese. Non gli pare vero. Eppure, vorrebbe di più. Hanno passato insieme tutta la vita, ma ora non gli basta. Vuole altro tempo. Altri giorni. Una vita in più, se fosse possibile. L’amore incosciente ti mette le ali. A volte, l’amore ti mette delle catene. Di paure, disillusioni, proibizioni di tutta una vita. E non solo. Fosse solo il generico concetto di vita. È la realtà. E noi stessi. Questo, ci frega.

Si passa le mani sul viso. Sente sotto le dita la cicatrice, le ciglia. A volte Oscar lo bacia vicino allo zigomo, come una bambina sorpresa d’affetto. A volte lo fa impazzire.

E adesso. Adesso, niente, niente più. Bisogna partire. Andare. Armati e inutili. A morire.

 

Diventare cieco è una cosa a cui cerca di non pensare. Perché lo fa impazzire. Eppure, da un altro lato, si rende conto che il suo corpo, automaticamente, ha cominciato ad adottare delle contromisure, a bilanciare quello che manca. Si sorprende, a volte, a fare cose in un modo che prima non faceva. Gesti involontari, divenuti necessari. Spera che Oscar non se ne accorga. È più un fatto di pudore, che altro. Lui è diventato così, ma non è così che lei lo conosce.

 

I pensieri di Oscar.

Stiamo insieme! stiamo insieme da quasi un mese!

Non poteva crederci.

Era bellissimo, le pareva di volare, le pareva impossibile, tanto impossibile che faticava a trovare una neutralità per i momenti in cui doveva fingere, il lavoro, la casa. E intanto, pensava a lui, a com’era diventato, stranamente, naturale, dopo i primi imbarazzi da imbranati, prendersi per mano, poi allungare un braccio attorno alla vita, poi il bacio, e un altro, e un altro ancora, e poi sfiorarsi. Desiderarsi.

Pensò che non era forse strano.

Che lo aveva desiderato, senza sapere bene come, in quegli anni in cui si era scoperta, anche senza riuscire a riconoscerlo apertamente, innamorata di lui. Non avrebbe potuto ammetterlo, per paura di cambiare (e cambiare cosa, poi?) e di tradire. Tradire suo padre, la sua famiglia, quello che si aspettavano da lei. Ora, l’aveva capito. Troppo tardi.

Quanti anni buttati. Che tremendo delitto.

Non riconoscere l’amore – il proprio, e non solo quello degli altri – è peggio che tradire. È sprecare la vita, la propria e quella degli altri. È nascondersi.

Non ci sono scuse.

Non vivere per il senso di colpa non ha scuse.

Strinse il pugno fino a conficcarsi le unghie nel palmo. Si sarebbe odiata, con gli anni aveva imparato ad essere più indulgente. Sperava solo di rimediare.

 

Ripensò a quella mattina, quando si era sorpresa a guardarlo, un attimo solo, poi, si era soffermata, addormentato, allungato nel letto, i capelli mossi attorno al viso. E l’aveva trovato bellissimo.

Alla sua voce, quella di ora, e quella di tanti anni prima, come il viso, che, giorno dopo giorno, non le era sembrato cambiato, eppure, a confrontare le foto della memoria, quelle immagini che ti restano impresse e a volte dimentichi con dolore, era lì, in tre o quattro tappe distinte – e dolorosamente cambiato.

Gli scherzi del tempo. Vita.

 

Ricordare, di aver vissuto insieme, una camminata rubata, in quella pioggia che rende scuri i contorni degli alberi, cancella i tratti e sfuma cose che, fino a poco prima, erano sembrate reali. Il freddo entra nelle ossa, si vorrebbe il caldo di casa, rintanarsi, il camino acceso, il tepore regalato dall’abbraccio di un gatto. E la felicità di esserci, di poter vivere insieme quel momento. Di poterlo custodire, anche nel ricordo.

 

Pioggia che si abbatte. Senza tregua, sul grigio del tessuto dell’ombrello. Sul grigio delle strade. In uno strato d’acqua compatta.

Chissà se piove anche là…

 

 

Aveva come un senso di delusione, anche di scazzo, perché, quell’anno, la vite rossa aggrappata all’arco sul fiume non si era presentata all’appuntamento, complice un caldo strano, seguito da un inverno repentino. Peccato. Aveva atteso mesi per godersi di nuovo quei rossi, ocra, arancio. Niente a che vedere con l’autunno rigoglioso di altre zone, ma lui si accontentava. Neanche col piccolo balcone lungo strada, di solito farcito di piante e, in quella stagione, appunto, di vite, aveva avuto fortuna.

Chissà com’era laggiù, dov’era lei. Chissà che combinava. La immaginava in ogni momento, come non potesse accettare di lasciarla sola, di non vegliare su di lei, di non sapere se stesse bene, avesse mangiato, tutto a posto. È difficile allontanarsi da una persona. Strapparsela dal cuore. O, non dal cuore, non serve, semplicemente venire a patti con l’assenza. Quando l’assenza è così ingombrante. Quando la crisi non nasce dall’amor proprio ferito e quindi dall’orgoglio, e, forse, è, allora, facile incazzarsi, buttare fuori quello che non è dolore, ma rabbia, e andare avanti. Le cose erano diverse. Non c’era mancanza di amore. Né tradimento. Né la fine di qualcosa. C’era solo un nuovo inizio, di cui lei aveva bisogno, e che aveva impattato clamorosamente su loro due.

Si sentiva solo, certo, ma non era tanto quello. Puoi stare solo e avere la prospettiva di tornare con lei. Invece, lui percepiva soltanto di essere come diviso e, semplicemente, una parte di sé era via.

Restava così, non c’era molto altro da fare.

Ogni giorno, andare avanti, organizzarsi, vivere, non mollare in generale e lasciar andare le cose, ognuna per la sua strada.

Vivere.

Ritornare nella loro casa, furiosamente e religiosamente usare le cose di loro due, in onore di lei. Quegli oggetti che magari gli aveva regalato, recuperare i biglietti, tenuti in un cassetto, onorare quello che rimaneva. Rievocare, cucinando, quello che erano soliti preparare insieme, in un’altra vita. E sorridere, scoprendosi a rimpiangere le incredibili cene da studenti, e domandarsi con orrore come diavolo riuscissero senza apparenti danni ad ingurgitare quelle quantità di commestibili. Privilegi degli amori duraturi. Ad Al erano toccate così una serie di cene commemorative, che erano finite in immancabili sbronze variamente autoprocurate.

Svegliarsi alcolici, trascinarsi nella doccia, vomitare pure l’anima. Giurare a se stessi che mai, mai, mai più si toccherà una goccia d’alcool, e ricaderci, nella solitudine o nel dolore, di nuovo, e sentirsi di merda, pure in colpa. Al resta lì, con lui, c’è già passato ed è stato anche peggio. La notte diventa un oblio, la mattina un incubo. La cantina si svuota. La sensazione di essere sbagliati. Di non riuscire a recuperare i pezzi, i fili.

 

 

Rientrare nella casa, fredda. Ogni sera. Ogni volta.

È quasi arrivato ad odiare le altre finestre, quelle illuminate, a sentire un peso tremendo addosso, quando entra nel cortile, vuoto. Quando sa che quel buio appartiene a lui.

 

Appoggia la giacca. È stanco, stanchissimo dopo la giornata al lavoro, e per fortuna. Lo aiuta a non sentirsi perduto. Uno sguardo desolato all’accademico, ai calzerotti, piazzati ad asciugare sui termosifoni. Spenti. Ci vorrebbe un po’ di calore. Umano. Ci vorrebbe una moglie.

Meglio preparare la cena.

Sente un po’ di calore dentro, quando infila le verdure nella piccola vaporiera, poi nel forno che lei gli ha fatto recapitare. Dose per due. Sorride tra sé. Quanto continuerà quel sostenersi reciproco, quell’annegare insieme, collaudata coppia, suo e di Al? Quante mail scambia quel maledetto con lei, senza dirgli niente? Lo sa benissimo. Eppure, sente che non è il momento. Che rovinerebbe tutto. Che c’è qualcosa, in lei, che deve ancora scattare, qualcosa, ancora, da capire.

Sistema sulle americane le ciotole che lei ha scelto, bicchiere da acqua, da vino. Qualche sottopentola. Ravana nel micro, girando e testando.

Si butta un maglione sulle spalle e scende a chiamare Al. Detto la salvezza.

“Stasera niente alcool, amico…”

Se la ride. Chissà se davvero fungerà da deterrente il dover spiegare e dimostrare i giri, domani, in un paio di lezioni. L’istruttore che non sta in piedi, e rolla come una trottola, se lo immagina…

“Vabbè, allora caldarroste?”

“Aggiudicato!”

“Addizionate col rhum? Un buon Zacapa tosto?”

“Mhh… non ci siamo capiti…”

“No…”

 

Poi, finalmente, in mezzo al grigio, era arrivato uno sprazzo di luce. Erano vividi, i colori, quel giorno. La vite era esplosa di rosso, uno spettacolo meraviglioso, che gli aveva riempito l’animo. Era felice. Si era sentito pervadere di una gioia immensa. E quelle immagini, che, rapido, sentendosi come di rubarle, aveva scattato, le aveva condivise. Al, qualche altro amico. Cris, l’amica interinale, vecchia fiamma tra lei, prima, e lei, dopo, per sempre. A lei, però, no, non le aveva mandate. Paura di un rifiuto, paura di sembrarle e sentirsi scemo, infantile. Paura, che lo bloccava.

E, però, si era sentito meglio. Una speranza, dentro, o, perlomeno, la sensazione che non tutto fosse perduto, che si dovesse continuare ad andare avanti.

 

Fine parte 7

 


Laura, febbraio-novembre 2009, Pubblicazione sul sito Little Corner del novembre 2009

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[1] Grazie, Sonia!