Kitchen Corner
parte 6
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Partite per tornare non è certo andar via /
Se tu mi dici torna, io ritornerò
(R. Cocciante, Ti amo ancora di più)
Fosse stato vero… eppure, capitava di ascoltarla, quella canzone. Non foss’altro perché era uno dei tre cd nell’auto di quarta mano che, nel paese delle tasse, costava più in passaggio di proprietà che in bulloni ingranaggi carrozzeria. Ma c’era affezionato e per dieci anni l’aveva desiderata. Come lei. Come la gigantesca gatta nonna. Piena di acciacchi e bisognosa d’attenzioni, ma voluta fortissimamente. Ora che l’aveva, pregi e difetti, non poteva lamentarsi, compagno. Partire. Tornare. Come a trovare un senso, la forza, a rintracciare qualcosa di loro due. La musica, a volte, è magica. A volte, come dire, è limitata.
Ricorda come un sogno appiattito quelle sere prima della partenza. La luce scarsa, di un giallo asfittico, plumbeo.
Quei giorni, che sembravano un’irrealtà lontana, erano piombati loro addosso in un accadere incalzante. A volte il tempo sembra protrarsi infinito. A volte ti fa lo scherzo crudele di sparire. Ti ritrovi già al passato, ore, giorni inghiottiti senza quasi consapevolezza.
Era stato così.
Erano abituati ad essersi distanti, forse non sarebbe stato così traumatico allontanarsi effettivamente. Eppure, a lei sembrava di strapparsi l’anima. Lui assisteva, incredulo, incapace di credere che davvero sarebbe, alla fine, accaduto. Gli uomini, a volte, si rintanano nella negazione con più facilità delle donne. Si accomodano in una nicchia, costruendosi attorno un nido confortevole, mentre capita che una donna non smetta d’interrogarsi, incapace di accontentarsi. Forse perché, in una relazione, viene loro richiesto di più.
La distanza non si colmava neanche in quegli ultimi scorci, lui, di spalle, a sistemare dei pacchetti. Lei, che avrebbe voluto piangere, ma non ci riusciva, che lo guardava, dentro mille parole e amore, ancora, che non sapeva dire. Le era sembrato, in quegli anni, che ogni suo tentativo fosse vanificato. Non avrebbe detto di aver amato invano, ma si domandava se lui l’avesse compreso, tutto quell’amore. Sapeva che per Andre era lo stesso, ma non riuscivano più a parlarsi.
Quegli ultimi anni erano volati. Senza parole, troppe domande mute, senza più vita assieme. Solo un allucinante scorrersi accanto, cercare di non lasciarsi abbattere dalle delusioni.
Le stanze, vuote di lei. È ancora chiamarla casa? Lascia scivolare le dita sulla parete. È buio. È ciò che hai abbandonato, voluto abbandonare?
È servito, o, come penso (o, forse, disperatamente spero), porti dentro di te, con te, all’infinito, meccanismi, automatismi, abitudini, problemi, tristezze a volte infinite e quelle riserve che so – e sai di avere?
Io non credo che troverai qualcosa di molto diverso, là. Scoprirai che, se non cambi davvero – si può realmente cambiare davvero? –, i problemi di prima resteranno.
È inutile fuggire.
Non siamo mai stati fatti per vivere separati. E anche ora, in qualche modo, siamo uniti.
È esploso, quel verde, sul lungofiume. Ogni volta che passa, s’illumina, perché lo colpisce al cuore. Lì vicino c’è la sede del giudice di pace, la zona è infestata, in certi orari, di giovani colleghi impettiti e pieni di sé, l’aria impegnata, le borse stracariche, gli abiti improbabili, le scarpe più tamarre che si siano viste. Lui cambia lato, cammina sentendosi libero, eppure rimpiangendo l’eleganza intrinseca di Parigi discreta, sull’altro marciapiede, e si gode quel verde. Le macchie di giallo che lo puntinavano, rendendolo luminosissimo, sono durate giusto un paio di giorni. Ora tutto vira ad un giada che pare chiamare il fresco delle foglie, come un fondale dello Studio Ghibli, quasi sembra di sentirlo in un brivido, a sfiorare la pelle. E in cielo sprazzi di ciano esplodono tra il grigio quasi plumbeo e il candore delle nubi. Soffici. Potenti. Libere. Una meraviglia. Li osserva, tutti inquadrati, tutti smart, poi torna alle foglie e sorride. Si immagina, si vede a passeggiare sulla sponda. E sente la mancanza di lei. Lontana. Un dolore ormai cronico. Lei e le sue paturnie contraccettive multiple e continuate. Lui che in quelle paturnie, essendo d’accordo, la assecondava, solido, saldo, convinto. Che poi paturnie non erano. Giusto una sana autodifesa contro un certo tipo di miscultura. Lei. Lei che imbufalita giurava di voler chiedere i danni alla Chiesa e ai perbenisti oscurantisti, che pubblicamente tuonavano e insistevano e vulneravano la libertà di autodeterminazione di una donna, facendola come minimo sentire a disagio, se non in colpa, per delle scelte che sono personalissime. Delicate. E andrebbero rispettate. Si era offerto come legale, lui, che tendeva a sdrammatizzare sempre, le aveva detto “Non è una cattiva idea… proviamoci”, e l’aveva abbracciata. L’abbracciava ogni volta. Lei, forte, e così a tratti vulnerabile. Lei. Lei. Vorrebbe raccontarle di quel verde, di quelle sensazioni. Le racconta, come un diario, a se stesso. Le racconterà, se non si sentirà troppo stupido, ad Al, quando rientra.
Lo scorso autunno un ramo di vite americana pendeva, rosso, vivido, da una delle arcate. Ed è durato tanto. Ogni giorno passava e se lo godeva, fino a salutarlo, quando si è reso conto che era andato, una piccola stretta di angoscia, alla sensazione, una volta dilaniante, ora malinconica, del trascorrere del tempo.
La bambina, a lezione, è impressionante. Somiglia così tanto a suo padre, nelle espressioni, nei colori, nella serietà con cui fa gli esercizi e nell’allegria che scoppia, nelle pause. La guarda timidamente e quasi con affetto. È un po’ come un lungo, lento, approccio a distanza. Timido lui, timida lei. L’ha commosso, l’altro giorno, quando facevano sbarra a terra e lei, per fargli una domanda (assurda – era chiaro che era solo per comunicare e si stupisce che, ora, lo chiama per nome!), si è spalmata sulle assi di legno, allungandosi, centimetro dopo centimetro, fino a lui. Poi, ha emesso la solenne domanda. Sorride, ora, un’aria ebete. Deve essere arrossito. Eppure i pargoli non fanno per lui. Mai successo. Ma quella bambina di otto anni l’ha fatto riscoprire indulgente, meno critico. Sarà l’età che avanza. Sarà che lei somiglia tanto a suo padre e lui gli ha voluto veramente bene e ne sente la mancanza come se gli dilaniassero il cuore.
Gli manca quando viaggia. Quando si guarda attorno. Quando cucina – la passione l’ha ereditata da lui, poi ha contagiato lei. Gli manca quando pensa al passato e quando osa proiettarsi verso il futuro. Quando pensa che sarebbe stato bello avere qualcuno a cui chiedere consiglio e non trovarsi in quella abissale solitudine vinta solo da una ragazza quasi nichilista. La sua ragazza e suo padre, loro due, mai mai mai avrebbe immaginato potessero non esserci. Traditori! Assenti non giustificati, assenti colpevoli, uno per morte, l’altra per fuga, dalla sua esistenza.
Sanno essere crudeli, i bambini. Ci sono le figlie di un’estemporanea compagna di scuola. Una pluriripetente attempata, peggio, poi, per lui, che, innocente, era pure un anno avanti. E, insomma, le ragazzine tutte lì a chiedergli se è vero che è vecchio come quella mamma. Ma lei, l’orgogliosa dalla carnagione chiara e dai capelli scuri, forse sorella in pectore, no. Lei si è solo incuriosita ed ha approfondito le manovre di avvistamento ed attracco, Fin quando, confidandogli, nella voce più bassa, un accenno di sorriso ad alleggerire l’argomento, di avere il fidanzatino, gli ha chiesto se l’aveva anche lui e, lì, ha dovuto confessare – fino ad un certo punto, però. La catastrofe dei suoi affetti smarriti oltreoceano l’ha glissata.
Guarda fuori quella nebbia compatta, che le grava addosso. Se la sente pesare, appiccicata e umida, in quel cubicolo squallido. Così stretto. Fuori, invece, è diverso. Tutto è di dimensioni maggiorate, dai palazzi agli alberi alle strade, ma anche quel senso di colore, cupo, che la opprime al di là del vetro, oltre quel grigiore giallastro che sa essere il parco. Tranne quella orrenda stanzetta dove non c’è spazio neppure per la sbarra a terra.
Eppure, l’ha voluta, quella fellowship. Ha mollato tutto, lui compreso (non proprio mollato, tecnicamente), per inseguirla. Eccola lì, sola con se stessa come tante altre volte, ma, stavolta, davvero, sola. Sola in un mondo non a sua misura. Troppo grande e vuoto. Troppo. Dove la ricerca funziona, incorrotta, libera, ma lei no. Non funziona neanche qui. E la vera sconfitta, la peggiore da ammettere, è proprio questa. Anche se lei crede nel suo lavoro e nei saggi che scrive e nelle sue ricerche. Ma è, alla fine, un’attività inutile. Sarebbe molto meglio, più costruttivo, fare la dattilografa o la lavapiatti e guadagnarsi un bello stipendio, piuttosto che studiare una materia bella ed inutile e sentirsi inutile o passare il tempo a motivarsi per andare avanti. La vita è un’altra cosa.
Anche in quel cocuzzolo zozzo e maledetto in cui ha fatto l’università c’era una nebbia appiccicosa. E infatti ne conserva il ricordo e sperava, come molte altre cose, di essersele lasciate alle spalle. Se non altro, qui potrà provare le punte Bloch ¾ con la mascherina bassa. Se non le trova qui, non sa proprio a che santo votarsi. Dal suo pusher abituale non le avevano. Piedi troppo minuti, fuori tempo massimo, era stata la sentenza.
A volte immagina – e immaginare, per breve tempo, come vedremo, le fa quasi bene – che la magistratura noti finalmente la tipa il di lei cornutissimo (no, non è un appellativo, è la realtà), ai quali deve la sua attuale situazione e che hanno gestito in proprio la baracca. Sono innocui film mentali brevi, intensi e rari, per fortuna, che occupano lo 0,003% del suo tempo, essendo il resto dedicato alla creatività che, a quanto pare, una volta approdata al giudizio di gente che non provenisse dal mefitico cocuzzolo summenzionato, l’apprezzava davvero o, perlomeno, non la tarpava. Il che, riflettendoci, non era male. Il che, peraltro, sommato ad una traduzione in uscita a breve, la faceva quasi felice. Se non altro le dava soddisfazione. La felicità si contentava di coglierla a sprazzi, nelle piccole cose. La felicità richiede serenità e non è così facile essere sereni quando cuore e mente si nutrono ad un oceano di distanza.
Quasi felice, per l’appunto.
Siamo o non siamo ex-liceali? Abbiamo o no avuto professiori che manco Roger Waters? E allora, il quasi è d’obbligo. Eccoci al regno della sega mentale (e non solo).
Ci vorrebbe Andre. Per carità, non l’André segaiolo[1] by night che un qualche autore in cerca di notorietà aveva recentemente propinato al pubblico. Andre suo, al suo massimo splendore, al massimo delle sue attenzioni per lei. Quello di prima. Quello che l’abbracciava d’affetto e tenerezza con uno sguardo e lei si sentiva unica, potente, le pareva di poter volare. Non quello dimidiato che si è ritrovata accanto, stanco, assente, stranito. Era lei quella stanca assente stranita, lui doveva essere il lato luminoso, non quello oscuro. A pensarci, il Grandier oscuro era parecchio (soprattutto dopo le interpretazioni autentiche elargite dall’Autrice nel 2001), forse è l’ennesimo orrido punto di contatto. O forse non c’entra un cazzo. Ecco, non c’entra un cazzo. Bene, mettiamo un punto fermo, almeno.
Ha una fame boia. Guarda con concupiscenza le zucchine, le melanzane e il tofu con soia sul piatto crisp. Probabilmente molti non si rendono conto di quanto possa essere un ottimo pasto. A lei lo sembra. Certo, le cene che le preparava lui erano un’altra cosa. Ma lui è lontano, c’è un oceano di mezzo. Ed è stata lei a volerlo. Lui assente, lui che l’amava, lui amico e compagno e tutto, a volte niente.
Ci vorrebbe un sushi, per compensare.
Ma che cacchio dice?
Ci vorrebbe un abbraccio, e un bacio, dolce, sulla pelle della guancia, un bacio a sorpresa, a scendere, e braccia a ghermirla.
Ma sono solo sogni, lui non c’è. Ci sarebbe, ma l’ha mandato via.
Non sa perché, se sia stato l’istinto o il vederla andar via, delusa, rabbiosa, una di quelle sere, in mezzo alle ragazzine fruscianti, ignare, i giornaletti e gli idoli, ai suoi tempi era Miguel Bose ora sono quelli di Amici. Non lo sa ma gliel’ha detto.
“Lia, per favore”, quasi non credeva alla propria voce e a quello sguardo, speranzoso, disperato, della solitudine di lei che si era innalzata dal fondo dell’anima. “Lia, puoi restare e far vedere i passi alle bambine?”
Era stato così. Aveva bypassato i no e l’educazione e le remore. Ce l’aveva costretta. Ma il risultato era eccellente. Lia, rossa come un peperone perché le uniche punte rimastele erano rosso che più rosso è difficile, ora mostrava alle ragazzine i passi. Ora e per sempre, avrebbe voluto poter dire. Intanto era ora e finché si può – il che non era poco, in quella situazione.
Lia cara e silenziosa e minuscola. Lia inseguita dal padre delle due ragazzine, quello con la moglie bellissima, bello pure lui. Lia timida che quasi non lo guarda e però apprezza e soprattutto vede che le ragazzine a lezione sono le più brave. Lia talent-scout, sorride Andre, mentre la osserva correggere la posizione dei piedi ad un’allieva, spiegarle come sistemare le anche. Se la cava, ha avuto buoni insegnanti. Ottimo, ottimo acquisto. Rescue Andre, quando qualcuno salverà te? Intanto, si distraeva occupandosi degli altri.
Ma benebenebenebene! È diventata associata. Quella! Da non crederci, lei, ignorante come una cocuzza!
E porcamiseria Andre doveva proprio mandarle l’orrido link alla pagina, nero su bianco, con la valutazione comparativa espressa dagli amici del suo amante e pure di suo marito, che poi era chiaro che la ricerca era allo sbando, le di lei pubblicazioni, magnanimamente valutate, le lezioni del marito sbobinate da volenterosi allievi.
Non era bastato emigrare per chiudere. Che cazzo, Andre, questa tortura potevi risparmiarmela, erano anni, erano dieci anni che si diceva che sarebbe diventata associata là, in quel teatrino da rivista dove non si fanno esami ma test e dove lo scandalo sessuale paga e compra posti da associato.
Che ci vogliamo fare?
Fanculo. Non mi cambia la vita, ma fanculo. Te e lei. Che siete dello stesso segno e tutti e due decisi e io invece sono un capricorno contorto, maledetta me!
Che poi la crisi era arrivata a tradimento, dopo un natale quasi strano, con lui uomo di coppia che l’aveva fatta sentire di nuovo importante… a tradimento davvero. Era stato talmente peggio, che una mattina, semplicemente, si era detta che bisognava cogliere l’occasione, ripetere l’ep. 29, insomma, aveva fatto i bagagli e lasciato la casa vuota.
Biglietto sul tavolo, che non era neppure sicura lui se ne sarebbe accorto, distratto com’era. Ma dei due gatti a cui pensare, supponeva, senza lettiera pulita e senza alimentazione (crudeltà mentale tipicamente femminile) si sarebbe accorto. Forse.
Era stata la prima avvisaglia.
Perché fosse rientrata nel teatrino, poi, non se lo sarebbe saputo spiegare. Ma era successo. E non era servito. Anzi. Peggio.
Fine parte 6
Laura, febbraio-aprile 2009, Pubblicazione sul sito Little Corner dell'aprile 2009
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
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[1] Grazie, Sonia!