Kitchen Corner
parte 5
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“Dimenticavo che oggi devo pulire la lettiera del gatto…” avrebbe detto così, rifletteva, un Grandier dei tempi nostri.
Non poi tanto diversamente era andata.[1]
Aveva scaricato l’episodio per lei, misera scusa per un contatto. Gliel’aveva impacchettato. Aveva preso la carta e la penna era corsa da sé sul foglio. Lia non va bene, ha un sacco di problemi aveva scritto. Poi, si era fermato, sul punto di completare Torna. O chiama. Fatti sentire. Lia non andava bene, era vero, ma non si poteva usare per un problema sorto tra di loro. Questa la teoria, la pratica era che nel bel mezzo dell’anno lavorativo, era improbabile mollare tutto e rimpatriare.
Per Lia, per quanto timida fosse con loro amici maschi, sarebbero dovuti bastare lui e il ragazzo.
Lei non sarebbe tornata.
Ricordava ancora come un incubo i giorni in cui lui annichiliva nel lavoro, per non pensare, e lei sbrigava le pratiche, le assicurazioni, per la partenza. Che si faceva sempre più vicina, gravava su di loro, eppure non ne parlavano. Come se il non dire equivalesse al non essere. Invece, era solo negare.
Si guardava attorno, vedeva la casa come svuotata – incredibile quanto spazio lei vivesse, con mille piccole cose – e trovava impossibile accettare e realizzare prima ancora quello che stava invece accadendo.
“Mi accompagni tu all’aeroporto”, gli aveva detto, un giorno. Si era stupito di come suonava chiara la voce, e voleva illudersi che le fosse costato uno sforzo immane di controllo.
“Quando”, con la voce rotta. Lui non aveva avuto né la forza né il tempismo di fingere. Non aveva incassato la sorpresa, né il dolore.
“Domani notte: il check-in è alle sei”.
Si era reso conto allora di aver finto di non vedere le valigie, la borsa col notebook e le carte – e il lavorio di scanner con cui lei le aveva trasferite su dvd. Le punte coi lacci arrotolati attorno, i salvapunte, gli scaldamuscoli, sul piumino, su quel letto di cui lei aveva curato i colori, i tessuti, e che lui aveva ammirato, forse troppo in silenzio, dando per scontato che le sarebbe bastata la consapevolezza di aver fatto un buon lavoro, senza bisogno che lui lo riconoscesse, se non con uno sguardo compiaciuto. Non sapeva quanto lei serbasse il ricordo, la commozione, di aver intuito quegli sguardi e come se ne nutrisse. Vivevano due modi diversi di amare, eppure simili. Aveva sempre saputo di poter contare sul fatto che lei lo capisse e capisse i suoi silenzi d’amore. Non aveva mai pensato ad un’altra per un solo attimo della vita. Eppure, tutto quell’amore non era bastato. Forse, avrebbe dovuto correggersi, quel troppo amore inespresso. Si era reso conto allora che il baratro lo risucchiava ed era come gli mancasse il terreno sotto i piedi.
O pensare di avere un domani per stare lontani… (F. Guccini, Farewell)
“Ma se preferisci, vado sola”. Aveva aggiunto “Poi recuperi tu la Turbinosa”, un loro vecchio scherzo, alludendo all’automobile dell’ispettore Clouseau.
Non andare, avrebbe voluto dirle. Invece, rispose con un rassegnato “Va bene”.
Farewell, e perdonami. (F. Guccini, Farewell)
Ho ucciso un uomo.
È stato nel corso di uno scontro. Ci insegnano così. È stato stato di necessità. Legittima difesa. Non è al di fuori del mio mestiere, eppure sto male. Vorrei cancellarlo.
Non riusciva neanche a dirlo.
Solo parole sorde che le rutilano nel cervello, ma a lui, che è seduto lì accanto, leggermente proteso in avanti, le labbra serrate, che, è chiaro nella tensione trattenuta delle dita chiuse a pugno, vorrebbe sfiorarle il braccio, le dita sul polso e tenerle stretta la mano, non riesce a dirle.
Se l’è trovato che la inseguiva, per le scale, poi nelle sue stanze, mentre si liberava del mantello, della giacca, di tutto. mentre si scioglieva i capelli e poi fuggiva, di nuovo, fuori, a cercare un po’ di libertà, lontano… se l’è ritrovato sulle pietre della strada, poi in quel locale, prima la chiamava, poi ha risparmiato il fiato e l’ha seguita e basta.
Non le dispiaceva.
Avrebbe voluto essere un’altra se stessa – o una persona diversa –, e non tenersi tutto dentro, saper dire, saper sfogare in qualche modo. Lui era lì e sarebbe stato perfetto.
Invece non riusciva a parlare. A dare voce alle mille parole che aveva dentro e premevano.
Dire che non voleva. Che aveva dovuto. Che le avrebbe sparato. Che, allora, freddamente – perché è così che è andata –, ha preso la mira, rendendosi conto attimo per attimo di quello che stava succedendo. Delle conseguenze.
Sapeva che sarebbe accaduto, prima o poi.[2]
Andre ha sempre dovuto lavorare.[3] Ora si impone una santa pazienza e rassegnazione, mentre finge di non vedere la nuvola di fumo grigio che invade la stanza, e le dita chiazzate di giallo di Lia, che annichilisce l’ennesimo mozzicone inumandolo nella montagnola che, nel paio d’ore appena trascorso, ha innalzato nella scatola di latta del tea, riconvertita prima in portapenne, ora in posacenere, non essendo Andre un fumatore – e neanche la sua bella lontana.
Lia non ha proprio l’aria da fumatrice, riflette. Forse avrebbe dovuto inalberare un cartello tipo “Vietato fumare” nel suo minuscolo regno, spazio angusto diviso con altri colleghi, insieme ai dvd di giurisprudenza ed ai manuali.
Non gli piace molto l’ambiente del suo lavoro, il lavoro, invece, abbastanza, e quello studio in particolare. Anche se è misero, per non dire squallido, e il bagno, per dire, è veramente un cesso. Ma lì si sente al suo posto ed è una bella sensazione. D’altra parte, quel lavoro gli dà di che vivere, cosa non indifferente. Si è dovuto mantenere agli studi, non ha avuto genitori che glieli potessero pagare, anzi, è spesso capitato il contrario. La bionda s’imbufaliva, silenziosa e protettiva, perché riteneva che non fosse giusto e che quei soldi, che lui si era guadagnato, gli spettassero e non dovessero servire a risolvere i casini di chi l’aveva messo al mondo senza neanche chiedere la di lui opinione. Lui abbozzava. Anche perché lei era tutta teoria, ma di guai e casini con la famiglia ne aveva anche più di lui.
Ora sta spiegando a Lia come gestirsi dopo la separazione e nel periodo che seguirà, ma si rende conto che forse le fa solo del male e che, se i divorzi fossero rapidi, posto che non vi si acceda in maniera incosciente (ma lo stesso discorso dovrebbe valere per i matrimoni – tanta pompa per cosa, quando manca la sostanza?), per tanti malcapitati sarebbe solo un bene. Potersi lasciare tutto alle spalle, intende. Chiudere in fretta un errore, e ripartire.
Anche Lia ha sempre lavorato. Certo, non nel modo in cui lavora ora. Non era così che aveva cominciato.
La schiena stanca, sfiancata, i capelli sporchi di polvere, le mani ridotte a carta vetrata, non vorrebbe altro che una doccia calda, invece resta lì inchiodata a lucidare il pavimento, a guardar passare le ex-colleghe e pure la baldracca col collo incassato, la voce rauca, la pesante cadenza locale ma l’aria provocante, che le ha lavorato, per prima e non certo ultima, le scarpe, facendole perdere il lavoro. Il suo vero lavoro – non quello di ora, le pulizie e, la sera, lavare i piatti in pizzeria.
Ma lei non era tipo da minigonne e scivolamenti ammiccanti sulle sedie a scoprire le gambe dalle caviglie pesanti. Tanto, gli uomini neanche le capiscono, certe cose. E quelli là, ad approfittare della loro posizione e del denaro pubblico, non era più neanche un’abitudine inveterata, era diventato un diritto.
Lia è sottile, e le piace ballare. È così che ha conosciuto Andre, che era ed è stato per anni suo compagno di sbarra. Più in là, quando la crisi si è fatta sentire, lui le ha proposto frequenza gratuita a danza in cambio del suo insegnamento alle bambine, ma lei, orgogliosa, ha rifiutato. Andre, che ha un modo tutto suo di consolare ed accudire, vorrebbe rimpinzarla e ospitarla, come ha fatto con il ragazzo, piantato dalla consorte trendy, ma lei teme i di lui manicaretti e pensa che una vita grama giovi di più alla linea. E poi vuole starsene sola, scornata o libera, a seconda dell’umore.
Vorrebbe essere dura come Lisbeth Salander. Dura, cazzuta, e ricca sfondata. Con un appartamento sottoutilizzato, un Mac bellissimo, e la stanza degli ospiti. Lei, però, non la terrebbe vuota. Lei inviterebbe qualcuno, la userebbe. Ma non importa, sono libri, belli, ma libri. Sono solo sogni. Quindi, anche se si sente leggera e commossa, nel leggere di Mikael che scopre la cucina mai usata della nuova casa di Sally, anche se si domanda, curiosa, come sarebbe, dal vivo, sa che la vita è un’altra cosa e che è fortunata a poter vivere scampoli di felicità grazie ai libri, grazie alla sua sensibilità, e che non sarà mai Lisbeth, non sarà mai forte, non abbastanza per gli stronzi come lui.
Mentecatto maledetto.
E mentecatta la ex-collega.
E così, lei è finita a fare le pulizie ed a considerarsi fortunata per avere un lavoro, quell’altra si è fatta mezzo luogo di lavoro e pure un figlio che non si sa bene di chi sia e quindi tutti corrono a proteggere – lui e la vacca produttrice, s’intende. Un modo come un altro di procacciarsi un reddito, appannaggio, lavoro. Ci sono donne di un certo tipo che rovinano la categoria, niente da fare. Ovviamente, vanno avanti loro.
D’altronde, Lia si era fatta bastare quello che le era rimasto, che non le sembrava poco.
Anzi, forse ora si sente più libera.
Avendo perso lavoro e consorte.
In fondo, non sa perché l’abbia sposato. Neppure perché si sia messa con lui: se ci ripensa ora, non ritrova niente di plausibile.
Quando si concede il lusso perverso di ritornarci su, rivede la crudeltà dei gesti e dello sguardo. Quella stessa crudeltà che aveva intuito in sottofondo, più volte, ma a cui si era imposta di non dare peso. Pare succeda a molte donne. Andare dritte verso il carnefice.
Perché bisogna essere crudeli ed egoisti per far soffrire così la persona con cui si sta. O, perlomeno, ignorarne totalmente i sentimenti.
Ora ha un lavoro, duro, umiliante, ma un lavoro. E così va bene, così può andare.
Per uno come lui, aveva rinunciato a tutto. Si era sempre sacrificata. Lui assente, lui cinico, fighetto d’assalto in trasferta perenne. Eterno bambino che lei sopportava, sebbene figli non ne volessero e il suo istinto materno fosse pari a zero. Sopportava di servirgli i pasti, di fargli da governante. Come diceva una sua amica, di servirgli la ciotola sotto il muso. Si era domandata quando sarebbe toccato all’antiparassitario, a volte.
Non c’era mai, non aveva mai tempo per lei, le feste, sola, le sere, sola, gli anniversari, sola. I drammi anche. Ci aveva creduto, tutto qui. Non aveva mai pensato di avere ragione di non credergli.
Poi, una sera, cercandolo al telefono, aveva risposto una collega. E, come ogni buona amante, aveva fatto in modo che la moglie cornuta capisse, perlomeno intuisse, se proprio s’intestardiva a non voler vedere. Lia aveva infine, molto faticosamente, fatto due più due, e si era sentita di merda, malissimo, spezzata, dilaniata, e, insieme, squallidamente libera. Perché quello là, in casa, era tanto tempo che forse non ce lo voleva più.
Solo che la casa aveva dovuto lasciarla a loro, perché se il fedifrago con lei era sempre stato d’accordo a non riprodursi, con l’amante s’era dato da fare al punto che la pagnotta era in avanzato stato di sfornamento.
Frastornata, si era rivolta ad Andre, che avviasse le pratiche. Quello non voleva vederlo mai più.
Fu una delle udienze più civili mai registrata. La consorte cornuta intontita e sollevata dal togliersi di torno il marito bambino futuro padre. L’amante produttiva che aspettava fuori dall’aula orgogliosa di mostrare i kg presi in neanche sei mesi.
Andre non sapeva bene che dire e avrebbe fulminato Lia quando sostenne davanti al giudice che la casa di quello là non la voleva e non voleva neanche un assegno. Andre sapeva com’era messa, economicamente. Ma i giudici no, e neanche ascoltano. Così Lia finì più o meno ad occupare la sua vecchia stanza da ragazzina in casa della madre alcolizzata e fumatrice, ma in grado di mantenerla, in quanto fortunata titolare di impiego.
Non fu facile. Però era come liberata di un peso enorme.
Andre invece era molto preoccupato. Sapeva come ci si sente, dopo, quando davvero la realtà piomba addosso.
Avrebbe voluto chiamare lei, dirle che la sua quasi migliore amica rischiava di crollare, ma intuiva che Lia preferiva non metterla in mezzo, covare quel dolore in silenzio, da sola. E poi doveva cercare casa, aveva altri problemi, che lui non poteva aiutarla a risolvere.
Eppure, senza volerla strumentalizzare, la tentazione di dirlo a lei era grossa.
Se ci pensa ora, Lia si domanda come sia potuta restare per tanti anni con uno come lui. Con tratti di crudeltà, di egoismo. Che l’aveva resa sola, spesso infelice. Che l’aveva mortificata e spenta. Quando tentava di parlare, non l’ascoltava. Quando terminava un pensiero, la faceva sentire stupida, insulsa. Stare con lui aveva significato domandarsi quasi continuamente “A cosa servo, io”, sentirsi inutile. Lui, il suo lavoro, i suoi colleghi – questo era importante, questo contava, anche nella sua vita, che ne veniva stravolta, che perdeva di senso di fronte a lui, al suo lavoro, alle sue esigenze. Non voleva figli e si era ritrovata per casa un bambinone che l’aveva scambiata per la governante.
Forse, a pensarci, era stato solo un bene lasciarsi. Lavoro squallido a parte, stava meglio sola. La solitudine le pesava, ma grazie a lui era abituata.
Le ho fatto del male.
La testa bassa, le lacrime agli occhi, la mano appoggiata allo stipite, quella stessa che ha stretto la stoffa e toccato la sua pelle e sente ancora il ricordo del tocco, trascina i passi come paralizzati. La sua stanza. Quella di sempre. Quella in cui l’ha sognata una vita, e ora l’ha quasi violentata. Non sa come abbia potuto passare quel limite. Non è da lui e non l’aveva mai neanche pensato. Aveva sognato di farlo, con lei, ma era una cosa dolce.
Quel mostro, invece, che le si era gettato addosso, l’aveva trattenuta e violata. Quello… quello era lui. niente scuse. Quello era lui, ed era disperato, di scoprirsi perso a se stesso. Perché l’aver bevuto un po’, l’essere sconvolto per l’occhio e per il benservito che lei gli aveva dato non giustificavano niente. E comunque lei aveva diritto di vivere la sua vita, lui presente o meno. Invece, si era sentito perso, rifiutato, messo via, perché diventato inutile. Ma lui inutile non era. Era un essere umano, vivo, con mille pensieri e gesti e sentimenti, e quell’amore che pensava di aver nutrito e credeva dolce, delicato, invece era anche violento.
Si sentiva malissimo. La sbronza gli era passata di colpo, era fin troppo lucido. Ma si sentiva malissimo, anche per lei. Riusciva a chiedersi come fosse, in quel momento, come stesse. Si sentiva pazzo e idiota.
Non voleva lei stesse ancora male. Aveva la follia di volerla consolare da se stesso.
Resta al riquadro della finestra, quasi fino all’alba. Non ha più lacrime. È solo il silenzio.
Poi, va da lei.
“Ti prego”, sussurra. “Perdonami”
Non risponde.
“Ti prego”.
“Va’ via.”
“No.”
“Sei venuto a finire quello che hai cominciato?”
Non l’ha mai sentita così cattiva. Non si è mai sentita dire così.
“No.”
Non lo sa, che lei piange, e sta male anche per lui. Perché l’ha sempre saputo, in fondo, e ha passato la vita a temere questo momento, a scansarlo. Perché sapeva che tutto sarebbe finito, se il loro amore, davvero, fosse cominciato.
André non lo sa, questo, così le parla.
“Solo… ti amo. Ti prego, non dimenticarlo”.
“Voglio dimenticare tutto”.
“Non dimenticarmi.”
Grazie a Luana per la ciotola ^_-;
Fine parte 5
Laura, febbraio-ottobre-dicembre 2007, agosto, ottobre 2008, Pubblicazione sul sito Little Corner dell'ottobre 2008
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