Kitchen Corner
parte 4
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Sospira, il libro squadernato sul marmo del tavolo che avrebbe bisogno di una mano di vernice, ma lui esita da tempo, temendo di perdere la memoria di quelle sfumature, dei ricordi, della cucina di sua nonna. Il club dei filosofi dilettanti: deve ricordarsi di passarlo ad Al. Magari si diverte. Se non altro si svaga un po’. Dovrebbe presentargli qualcuna, se non corresse il rischio di considerarsi e, peggio, essere considerato in caccia anche lui… in caccia… che convenzione idiota. Svilisce il senso dei rapporti umani. Peggio, lo equivoca ed ingenera equivoci.
Da quella prospettiva, nota, da quell’angolo cottura, è un po’ come troneggiare su un piccolo universo. La stanza, considera, pare affacciata sul mondo circostante, come potesse davvero racchiudere tutto. Sarebbe bello, a volte, poter ritrovare quasi ogni cosa in un luogo solo. Però, può diventare una prigione.
Gli ha messo un braccio attorno alle spalle, pochi giorni dopo il suo arrivo, quando gli ha mostrato quello che è un posto speciale – non rammentava di averne acquisito consapevolezza, era così e basta. Poi, una volta, gli fecero notare che quella casa invogliava a non andar via. A restare. Fosse stato vero, anche per lei.
“Vedi… il mondo, a volte, lo vedo da qui…” aveva come confessato, piano, ridendo di se stesso, di come si stava riducendo – eppure quella vita quasi di corsa non gli sembrava male. Gli mancava solo lei. Al non aveva risposto. Si era limitato a guardare lontano, pensoso. E quando due maschi si ritrovano così, possono solo stappare un Kiara dalla cantinetta e prendersi una pausa. C’è poco da dire, a volte niente, a volte basta la presenza. A volte neppure serve. Per il resto, si parla di lavoro, non si parla, si sta.
Ha poggiato il filetto di salmone sul tagliere, passandolo nel sale e nel pepe bianco. La piastra è bollente e basterà giusto un attimo. Poi, riflette, un tuffo in acqua ghiacciata, quindi nella marinatura di sake, mirin, soia e zucchero, che ha già preparato. Quelle poche volte che non è di fretta e non rientra ad orari impossibili, gli piace preparare qualcosa. Da soli si tende a lasciarsi andare. Prendersi cura di qualcuno aiuta a non mollare. Soprattutto se il qualcuno ha bisogno d’aiuto.
Una volta, al posto dei gerani, c’erano delle piantine di salvia splendens. Non sopravvissute. Erano belle, rigogliose: chissà, forse avevano sofferto la loro lontananza… troppe partenze nonostante quell’approdo para-definitivo. Pazienza, alla fine bisogna saper lasciare andare…
Chissà se loro due sarebbero sopravvissuti alla lontananza, al loro infinito sradicamento. Chissà se avrebbe mai avuto il coraggio di ammettere con se stesso che, anche nel loro caso, sarebbe stato necessario saper lasciar andare. Saper rinunciare a lei.
A volte non gli pare neanche possibile che davvero lei lo ringrazi per email o sms di quegli episodi scaricati nottetempo. A volte non gli sembra vero essersi ridotti a quel punto, perché, prima, tra loro, non era così. Si chiede se, a ben pensare, non sia umiliante aver fatto ricorso a quel modo per un infimo contatto. O se, invece, agendo come l’istinto e l’affetto gli hanno suggerito, semplicemente, non stia facendo qualcosa che gli fa piacere fare e che, spera, lei gradisca. Non c’è sempre solo l’egoismo o il senso di colpa, dietro le azioni.
Eppure, reggere alla lontananza è dura.
E non per la tentazione del tradimento, no.
È perché l’idea di lei, la sua voce, la sua immagine, si fanno sempre più lontane. Ci si abitua all’assenza. E sembra – bastano pochi giorni – che sia una vita che si è distanti. Si perde l’abitudine, il senso della presenza. Si perde il senso del perché si è inseguita una persona, la si è voluta per noi. In quell’infinito atto di egoismo che è l’amore.[1]
“Non abbiamo più niente in comune”[2] Forse non l’abbiamo mai avuto e non abbiamo voluto ammetterlo. Era cominciata così. Una frase semplice e netta. Vera. Terribile. Qualcosa che sentiva da tempo, ma non era riuscito a voler formalizzare. Lei l’aveva fatto. Per entrambi.[3]
Si domanda cosa stia facendo lei.
Le aveva promesso di andare a trovarla. E avrebbe anche voluto farlo.
Poi, niente.
Non sa dirsi una ragione. È come se la voglia chiudere fuori dalla propria vita, visto che lei, per disperazione – e soprattutto lavoro sostiene –, ha imposto di separare le loro due. Era triste, secco, il tono. Sembrava starci peggio di lui.
“Se dobbiamo vivere da single, lavorare lontani, forse è meglio farlo separati…” A matter of fact… sembrava un’annotazione neutra, come tante delle sue gli erano sembrate per anni. Invece, scavavano l’abisso. Lei, l’abisso ce l’aveva dentro. Era brava a ricrearlo, se si lasciava andare.
A lui una spiegazione del genere sembrava francamente la classica cazzata da cattiva sceneggiatura.
Quando la persona che ami spera di tenerti legato bloccandoti le possibilità, isolandoti, allora è peggio. Allora, se non hai compensazioni adeguate, scatta il rancore.
Lei aveva tenuto duro per anni. Innamorata a oltranza e al di là di ogni ragione. Poi, un giorno, semplicemente aveva detto basta. Non che fosse cambiato qualcosa. Aveva preso atto di una realtà diversa.
Non era bastato registrare che, quella volta che l’aveva incrociato, di sorpresa, si era come illuminata. Non ci si illumina di fronte a tutti. Non era bastato che lei considerasse come quell’incontro, inatteso, le avesse scaldato il cuore per giorni – ed anche, poi, al ricordo. Che avesse pensato di amarlo, tanto, infinitamente. E ancora fosse così, anche se preferiva non soffermarsi su quell’idea.
Erano più i momenti negativi che gli altri, ormai. Era come rammendare una tela allo stato di totale dispersione.
Aveva fatto di tutto per non mollare. Ma c’erano momenti in cui sentiva che davvero non aveva più senso. Rientrare a casa, dopo aver immaginato un’idea di lui, dopo aver progettato, essersene riempita il cuore, e trovarlo, immoto, lontano, uno schiaffo all’amore, le era sembrato. E le pareva come sentire di ostinarsi a coltivare, dentro, il ricordo di qualcosa che non c’era più, forse c’era stato ma diverso. Le aveva fatto male, troppe volte, vivere questi momenti, e sentirsi delusa.
Amare è crudele. Costringe a pretendere dall’altro, per quanto si voglia dismettere, coscientemente, ogni aspettativa. Ogni attesa. Si finisce per sperare, inevitabilmente. Per accusare l’altro di qualcosa che siamo noi a volere, non necessariamente lui. Amare, rifletteva, forse è inutile. Rovina i sentimenti, è egoista, è da illusi.
Se vuoi bene davvero a qualcuno, considerava, dovresti volerne la felicità, augurargli un cammino sereno, non desiderare di tenerlo legato a te in ogni modo possibile, purché, comunque costretto, non scappi.
Era davvero questo che voleva, per loro due? Per loro due che erano stati bambini assieme – e quanti ricordi, e parole, sensazioni, luci, immagini, tocchi, momenti. Non poteva essere questo, si diceva, il senso di ciò che restava tra di loro.
Non era questo, che avrebbe voluto ricordare. Ma aveva senso immolare sull’altare dell’ipotetico ricordo la realtà per renderla perfettibile, per obbedire a timori, ansie, elaborazioni?
Ha osato sfiorarle il polso con la punta delle dita.
Poi, si è ritratto.
E vorrebbe posarle una mano sulla spalla nuda, i capelli che ricadono sparsi, in disordine, e gli pare ancora più bella, così, ma non osa.
L’ha trovata in lacrime, china, le dita serrate sul raso, i veli che sfioravano le braccia definite, avvolgendosi attorno a lei, sfiorandole le guance. Accanto alla fontana di pietra.
Era così bella, possibile fosse così triste?
Gli parve ingiusto che dovesse soffrire tanto per colpa di un tale demente. E, subito, però, la consapevolezza che era una fortuna che l’idiota non la notasse. E che, se l’avesse considerata, lei si sarebbe solo aggiunta alla schiera di amanti in ogni porto di cui nelle taverne e nei giri bene informati si favoleggiava. Assieme alla dolorosa rovinosa domanda su come una ragazza così intelligente potesse anche solo interessarsi ad un tipo del genere. Brillante, va bene, alto, va bene, ma già solo lo stuolo di ammiratrici avrebbe dovuto scoraggiarla: come poteva desiderare di aggiungersi ad un numero? Lei, così unica.
Non ebbe più, all’improvviso, voglia di stringerla a sé con tenerezza, e di consolarla. Avrebbe preferito scrollarla per bene, domandarle che cavolo pensava di stare facendo della sua vita! Se era per finire dietro un donnaiolo che aveva affrontato e sopportato tutti quei sacrifici! Lui non credeva fosse solo per dar retta al padre. Lo sapeva benissimo, Oscar aveva scelto quella vita, aveva costruito, negli anni, per carattere, una scelta di autonomia mentale, (come) una sorta di profonda libertà. E si domandava a cosa portasse l’amore, e come, per quale insondabile ragione, da cosa nascesse, un innamoramento come quello. Perché non gli sembrava possibile che una persona dotata di discernimento nutrisse sentimenti come l’affetto, la stima, e il trasporto, verso un individuo del genere. Non poteva credere che lei fosse caduta così in basso… non lei.
Eppure, neanche dietro questi pensieri osò muoversi.
Fu lei a farlo, i petali dei gerani e delle rose che volteggiavano nel turbinare di schizzi e tulle.
Si voltò verso di lui, lo sforzo di ricacciare indietro le lacrime.
Lo odiò, per averla vista così, scoperta, e istintivamente incrociò le braccia, a proteggersi le spalle.
Azzardò un gesto, allora. Un tocco lieve, sulla pelle nuda.
Si ritrasse.
Poi una carezza intenerita. Osò.
“Lasciami sola”, la voce sorda, incerta. Coperta dagli spruzzi dell’acqua e dal soffio del vento.
“Ti prego…” Perché le donne sono attratte da chi fa loro del male (a pensarci, anche lui non scherzava…)? Anche quelle come lei, emancipate. Perché non mi vedi? Star male per uno stronzo simile… Ho la presunzione di pensare che non ti farei soffrire, non coscientemente, perlomeno. Il dolore sarebbe nello starci distanti, nel perderci, ma non sarebbe una scelta, sarebbe la vita… che è crudele – ma gli esseri umani possono esserlo molto di più. Praticano un’arte, e non il caso…
“Vai via…” spezzata. “Per favore” è più il dolore di allontanarlo, la pena. “Vai via…” ripete.
Poi, inesorabile, lento, l’avvolge. Piano. In silenzio.
Tanto, una disillusa cronica come lei non capirà che è amore. Una che, Fersen a parte, distrugge metodica le illusioni. Penserà soltanto che, ancora una volta, non l’ha lasciata sola.
E lui, al riparo dalla rivelazione dei sentimenti, al sicuro in quel gioco di negazioni e accenni che è la loro vita – lo è stata finora –, potrà continuare a volerle bene, indisturbato, senza che lei lo scopra. Forse, solo così si sente libero di farlo.
Perché la follia del loro rapporto in fondo è anche sua. Di lui che tace, che abbassa lo sguardo, soffoca voce, gesti, respiro. Di lui pazzo, che ha paura che, parlandole, la perderebbe. Perché lei non potrebbe ricambiarlo, se non infrangendo mille regole, anche interiori, e questo lui lo sa bene e in fondo neanche se l’aspetterebbe. Lui non molla, ma si sa sconfitto in partenza. Lui ama, ma non osa.
La loro vita di amore e finzione, e silenzio.
Un lento gioco al massacro in cui puoi consolare, ma non fino in fondo, amare, ma non abbastanza. Guardare e quasi non toccare. Un gioco a cui lui è stato e che ora ha paura a smascherare. Perché potrebbe non portare ad un inizio, ma rappresentare la fine della finzione.
Eppure, quella notte, si lascia abbracciare, Oscar. E restano lì, avvolti nel silenzio dei loro amori sordi.
Premette lo stop, respirando piano, come potesse non interrompere il fluire delle sensazioni.
Le ricordava un vecchio schizzo di tanti anni prima. Gli anni…
Si era sentita triste.
Come dilaniata.
Ma quella vecchia idea, di un lavoro e di una casa, non era solo un sogno. E per lei un lavoro lontano dalle troppe influenze nella sua vita era tanto.
L’aveva lasciato. Gli aveva lasciato la casa.
Per liberarsi? Per punirsi? Farsi del male? O, semplicemente, per tentare una strada diversa da quella che tutti le avevano costretto addosso. Forse, era solo questo. Solo la sua vita.
La casa che lui amava. Quella che era stata la speranza. Quella messa su come meglio potevano, coi limiti di allora e del realismo, e il di lei gusto. Casa calda. Luminosa. Piccola. Adatta a due.
Quella in cui una volta, che l’aveva trovata nel suo angolo cottura, le aveva messo un braccio attorno alle spalle – lei aveva tremato nel sentire voce e respiro e presenza così vicini, veri –, sussurrandole, complice, scoperto “è bellissimo, qui”, felice e sorpreso, avvolgendo, in un cenno, la vallata, luminosa, le piante, la stanza, loro due. E lei si era sentita importante, perché era una cosa intima da condividere, e bello, come pensiero. Si era intenerita. S’inteneriva ancora, a ripensarci.
Quella della stanza in cui una sera, sistemando il letto, lui l’aveva sorpresa, annotando “Che bei colori pastello”, aiutandola con un vecchio piumino. E lei gli aveva rammentato, quasi timida di quella memoria, che era lo stesso della loro primissima casa insieme. “Ricordi che freddo?” La notte del loro anniversario, che lui aveva voluto fosse la prima nella loro prima casa.
Quanti ricordi…
Lo aveva abbracciato, commossa. Poi, siccome lui era stanco, sempre stanco, e lei delusa, si era allontanata, a consolarsi con una tisana calda, il computer, di là, acceso, fisso, su un paio di file di lavoro e altri tre di hobby. Quel momento si era spento, come altri, e se ne stava spegnendo anche l’eco nell’anima.
Lei voleva essere libera.
Pagava cara la sua ricerca di libertà, su tanti fronti, ma preferiva così.
Si domandava quando fosse accaduto che aveva iniziato a considerarla perduta, quella libertà. Perché per molto tempo non era stato così. C’era stato un lungo tunnel di disillusione e tristezza, ma prima – lo sapeva dal ricordo e talvolta ne rintracciava, con sorpresa e tristezza, l’entusiasmo – c’era stato entusiasmo, serenità, gioia. C’era stato amore. C’era stato il lasciarsi travolgere, il crederci – e in qualche modo ci credeva ancora, nonostante se stessa –. C’erano state notti fredde in cui si era lasciata trascinare, una mano calda attorno alla sua, in luoghi di sempre, eppure nuovi. C’era stato un sorprendersi nell’incontrare uno sguardo luminoso. Illuminato da lei. E il sentire che lui, inesorabilmente, si era impadronito di lei. Che stare con lui era stare come con se stessa, in un lento abituarsi a non poter più fare a meno di Andre. E sentire la sua mancanza come mancasse l’aria. L’aver bisogno di abbracciarlo, guancia contro guancia. Di sentirne l’odore. Di passargli le dita tra i capelli. Non era solo innamorarsi. Era stato qualcosa di altro, ulteriore, una serie di corollari inattesi, fatti di cose imparate a due, sensazioni di una dolcezza e pienezza struggenti, fino a chiedersi come potesse essere stato prima, senza.
Ora non era più così.
E ogni volta che rintracciava, nel ricordo, la metamorfosi di quell’amore, sentiva come se l’avessero disarticolata. Come se le avessero strappato metà di se stessa.
Fine parte 4
Laura, febbraio-ottobre-dicembre 2007, marzo-giugno 2008, Pubblicazione sul sito Little Corner del giugno 2008
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