Kitchen Corner
parte 2
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Quella ragazza è totalmente folle, scuote la testa, Al, e per un po’ non pensa alle sue ragazze andate. Tace per mesi, poi si mette in testa un’impresa e ti coinvolge. Ti distrugge, perché sotto sotto tu ne resti innamorato in background e speri sempre che lei lo dimentichi, e invece ti dimostra che lui continua a stare sulla cima più alta e immota, in uno squarcio azzurro tra le nuvole dei suoi pensieri.
Si è beccato una serie di mail che l’ha deliziato, ore piccole per il fuso e le risposte in diretta, wow, ‘na botta di vita, dopo la calma piatta del ménage para-coniugale con Andre, e poi però sapeva, sapeva che non era per lui, era per l’altro. L’altro abbandonato. Ma, insomma, si vogliono bene, sono amici, e hanno complottato insieme.
Sorride compiaciuta.
Le è sempre stato difficile fare regali a se stessa, ma farli agli altri lo adora e non si sente neanche in colpa a spendere. Le piace pensare a quando lo riceveranno, allo stupore, a tutto. E, riflette, chissà perché doveva arrivare tanto lontano da casa (ma cos’è, poi, casa), per sentire quasi suo, infine, un posto. È vissuta in un luogo in cui non aveva granché spazio per sé, e si è trascinata questa disabitudine all’uso degli ambienti anche nel proprio appartamento, quello con lui. Un’amica le disse che sembrava ospite in casa sua. Sarà che questa specie di monolocale devi proprio viverlo a fondo, non c’entra quasi niente, e allora lei riesce ad appropriarsene, col corpo, a sedere su un improbabile divanetto senza guardarlo da lontano – guardare e non toccare…
Rosso o arancio, riflette nel suo piccolo regno oltremare.
Tu che dici, Al il grande? E ripensa con affetto ai due, ai tempi in cui erano amici e tutto era meno complicato, ma anche tanto più vuoto. Anche ora, però, non è che non senta le assenze. Solo che è una scelta. Così si illude di credere.
Pensò, quando le disse che l’amava, perché? Perché complicare tutto? Zitto, non parlare, non parlare più, eppure, dopo, sentì il dolore dell’assenza della sua voce. E avrebbe voluto tornare indietro.
Rosso o arancio, non sa decidersi. Tutti e due, le verrebbe da dire. Conoscendo poi le sue doti di cuoco, sa benissimo che lui vorrebbe il modello top, ma quel rosso è troppo tentatore. E vada per il rosso, allora! Col crisp e il grill, e peccato che non abbia anche il ventilato ed il vapore, sarà per la prossima volta! Chissà che faccia farà, immagina. Chissà se sarà contento…
Rapido scambio di email, e si preoccupa al constatare che probabilmente lui sta facendo l’ennesima nottata insonne, e, scacciando la malinconia di domandarsi cosa starà facendo Andre, di ripensare a loro due abbracciati, il complotto è tramato!
Complotto un corno, annota, sorpresa, curiosa, la mano a tormentare la criniera, quando lui, che l’ha anticipata, le ha spiegato, timidamente, in due righe, che le aveva messo su disco quello che, nel remake, è l’episodio 37, che hanno trasmesso da poco, e che ha pensato avrebbe voluto vedere (istruttivo LOL, aveva commentato). A lei era preso un accidente. Perché di lui è innamorata, perché il lavoro la prende, ma quando arrivano queste bordate emotive, come si fa a restare indifferenti? È come ricordarle che, nonostante tutto, le loro anime si sono elette troppo tempo fa per quello che è ora il vegetare separati.
E così, che emozione premere quel play, ecco uno straordinario, inatteso, confronto dei soldati, la notte, in caserma, e le paure, quelle di prima della battaglia vera. E quell’André, di spalle alla colonna, a scrivere sul taccuino, ripreso da Dezaki, sì, ma anche straordinaria citazione di Black Hawk Down. Episodio diverso e stranito, come l’atto delle ombre, che ha scrutato, studiato col respiro sospeso, con emozione, come stranita e invecchiata si sente lei, ma l’emozione di fronte a Lady Oscar nuova è sempre quella.
Che meraviglia! Che meraviglia! Come sono riusciti a rendere quei momenti terribili, che idea incredibile… annichilita, commossa di fronte allo schermo, le dita che tremano e le lacrime, per quello che ha visto, e per l’idea di lui, che glielo ha registrato. Che persona straordinaria. Inattesa.
La nebbia del canneto sul lungofiume. Una goccia di rugiada.
Quasi albeggia.
Le dita serrate, fredde, contro i palmi caldi delle mani.
Il respiro tagliato.
Un campo lungo, il grigio e l’ansia dell’attesa. Dell’ignoto. Voci, domande sospese nell’aria.
Sono entrati da poco, che era ancora buio e le dita s’intrecciavano gelate d’angoscia ed emozione. E le voci sono cessate. Le domande mute, come sarà, domani, a che ora, e il piano, se c’è. E non hanno voglia di pensare alla battaglia, né che saranno dalla parte sbagliata. Quei due sono arrivati, scarmigliati, a distrarli. Gli sguardi a loro.
Il grigio dell’alba pare entrato anche lì. Si stringono nelle giacche, chi sulla branda. Attendono.
Ha dentro mille parole, per spiegare quello che è ovvio, lo è sempre stato, solo che non ha mai osato neppure formularlo nella mente, figuriamoci dirlo. Sente André lì, al suo fianco, scorre gli occhi sui soldati, che aspettano le sue parole, in questa notte che finisce, e tutto pare iniziare. Di nuovo. Se si potesse. Forse, si può.
Passa un lampo di luce, nello sguardo di André, appoggiato, stanco, alla colonna. Appunta sul suo diario, le labbra serrate, un velo di barba, la giacca sulle spalle, i polsi delicati. È ormai giorno. Sentimenti contrastanti si accavallano nei pensieri, nel cuore. Si sente addosso l’odore di lei, i suoi capelli. Quasi prova vergogna nel ritornare alla mente delle immagini della sera precedente. Come se gli altri potessero vederle. Eppure un’angoscia indicibile gli grava addosso, sul collo, sulle spalle, quasi lo paralizza. Vorrebbe stare con lei, ma sa che non è possibile. Possibile, cosa è davvero possibile, a un passo dal niente, come stamattina, come in questo oggi che forse non finirà? Gli tremano le dita, quasi un presentimento, quando, quasi d’impulso, chiude le pagine. Forse è un addio. |
Non osa rivederlo, eppure sì, le pare di rompere l’incanto con i credits che scorrono, e pensare che dopo tanti anni rivede la sua Oscar, nuova, mutata, straordinaria, totalmente diversa da sempre, non è un clone del manga, eppure non ha tradito il personaggio, e André ha gli occhioni da cerbiatto, e pure verdi… deve fare un backup del disco, non sia mai… e che idea, lui, a fare questo per lei.
Scarta, incredulo, l’enorme pacco. Al l’aiuta a spacchettarlo. “Mhhh, al mio cuoco prediletto. Preferito. Qualcosa di rosso, per te. O lo preferisci arancio? ^_-;” ironizza il biglietto di lei, mentre lui è quasi commosso, come un bambino col Lego nuovo, e ci gira attorno e vorrebbe chiamarla, mandarle un messaggio, ma non osa.[1]
“Tu… tu lo sapevi…” lo indica, accusatorio.
La mano nei capelli, imbarazzo ma gioia per il vederlo così entusiasta. “Più o meno…”
“Glielo hai detto tu…”
“No, seriamente, idea tutta sua!” Chiamala, dai, vorrebbe aggiungere, ma tace. Le questioni di donne, mai facili. Figuriamoci quelle di amici quasi fratelli e di donne quasi sorelle.
Eppure, in quel momento, un imperioso sms. “Grazie, è bellissimo. Ma più di tutto, è bello il pensiero. Grazie ancora”. Uno dei suoi rari messaggi, e lui resta immobile, il manuale di istruzioni – scarno, gli pare –, dimenticato in una mano, il vecchio Nokia nell’altra, e non importa se, per conservare quello, casserà tutti gli altri messaggi. Quello arriva da lei, dopo un secolo, e non si tocca.
Evvai! Evvai! Evvai!!!!
Bisogna, assolutamente, festeggiare!
Prima che passi l’entusiasmo. Prima che i dubbi l’assalgano di nuovo, traditori.
“Passo dal gioielliere, se riesco, prima di rientrare…”
“Mhhhh…” si riscuote. “Ottimissima pensata, Andreuzzo!”
“Ti chiamo, semmai scalda la pietra ollare…” Sembriamo quasi marito e moglie, si era ritrovato a pensare. In fondo, una coppia è sempre una coppia… e non sarà mai un lillà, aveva concluso, fedele alle consegne dell’eroina della sua signora – in questo caso, il maledetto omonimo che gli aveva rovinato la vita, complice un doppiatore in stato di grazia che ancora oggi faceva balzare il cuore in gola agli ammiratori.
“Lei?”, gli aveva domandato, dopo, davanti al pesce fumante.
Aveva alzato le spalle. “Mangia, che è buono”. Tonno, ricciola e frescarelli, appresi dalla poliedrica nonna di un’amica alto-marchigiana.
“Il guaio è che là la pagano per fare quello che le piace…” aveva filosofato lui, un sorso di vino.
Aveva sorriso. “No…”
Sguardo ironico. “No?”
“No.” Il guaio, e grosso, è che siamo innamorati. Che ci vogliamo bene. Che ci amiamo.
Che lei non deve fuggire da me, ma dai suoi e dai problemi che ancora le creano. E forse da se stessa. Ma non da noi due.
“Sai che vorrei?”
“…”
“Una nonna. Una nonna che si prendesse cura di me.” Si stira, le dita intrecciate dietro la nuca. “Sono stanco, stanco… vorrei poter mollare… potermi abbandonare…”
“Vivere da soli però dà molta soddisfazione”.
“Certo. Sono uscito di casa presto e non ci rientrerei. Solo che, a volte, vorrei un conforto…”
“Una moglie, vorrai dire…” e alza il bicchiere in un ironico brindisi. Senza piangersi addosso.
“Già fatto…” se la ride. “No, comunque è diverso…”
Scola dal liquido le castagne. Stasera, Kuri gohan. Evvai!!!!
Con somma soddisfazione – quel barlume di soddisfazione e leggerezza che, ormai, solo le piccole cose gli consentono –, sciacqua il riso, tre volte, finché l’acqua non è limpida. Carica il rice cooker, quello da battaglia (l’altro, religiosamente tenuto modello reliquia), aggiunge il kombu pulito con un panno, intanto rimugina.
Non è venuto alla lezione, annota. Neanche oggi. Eppure alloggia quasi accanto. Ma scompare per evitare incontri. O anche solo incroci. O la delusione del mancato incontro. Peggio, del rifiuto.
Lei, a suo modo inarrestabile, avrebbe voluto sistemare il piano di sotto con degli appartamentini ed uno studio, in modo che i numerosi amici fuori porta potessero appoggiarsi da loro con più libertà. Questa la teoria. La pratica era stata diversa e il progetto s’era ridimensionato. Come sempre. A tempi migliori. Come tutto. Come loro due. Aspettare, sempre. Pazientare. Prima gli altri, poi noi. Forse l’errore era che nessuno di loro aveva mai preteso. C’erano sempre esigenze superiori, e loro due erano troppo ragionevoli. E siccome non avevano figli, nessuno li considerava davvero una coppia ed avevano finito per crederlo anche loro, come non avessero la dignità per aspirare alla normalità e pretendere dagli altri e da se stessi rispetto per la loro unione. Alla fine, comunque, era venuto fuori bene, un piccolo rifugio caldo, accogliente. Sobrio. Curioso.
Non erano certo le tinte preferite del fanciullo, che casa sua l’aveva messa su che era una meraviglia, era piaciuta anche a lei che aveva gusti tanto difficili. Eppure, lui, che aveva una casa da rivista moderna d’arredamento, legno sbiancato e hi-tech, tanto bella da essere concupita, ora viveva lì, circondato di ocra e turchese e mobili essenziali. Un rifugiato. Unica soddisfazione, non poter dire di essere stato piantato montando la parete attrezzata dell’Ikea, capolinea tristemente noto di molte coppie pseudo-collaudate.
Casa sua. Chissà com’era ridotta…
Si costringe a non pensare. Riapre il giallo riletto per l’ennesima volta. Fortuna che è scritto da dio e vale la pena ogni volta notare qualcosa di nuovo.
A volte vorrebbe assomigliare ad uno di quei personaggi. Complessi, lievi, che passano tra i dolori della vita senza dolore. Adamsberg, per esempio. Perché non è come lui? Perché vive l’amore con dolore e non ha la sua aerea capacità di astrarsi, gli basta un angolo di sopravvivenza e camminare? Lui non è così, però gli piacerebbe esserlo. Dimenticare tutto.
Camille e Yuki non vogliono incontrarlo. E, così, anche l’unica occasione per vederle è persa.
Camille e Yuki sono belle. E lui non può vederle. Le guarda passare, per strada, belle, dritte, alla moda, la falcata sicura di loro madre, sembrano non possedere alcun dubbio, vede i loro sguardi serrarsi, al sicuro, ben lontani da lui, e sta di merda.
Si era sempre chiesto come facesse a divorare la tastiera dei notebook. Ognuno di quelli che ha avuto è stato mollato coi tasti consumati al limite, tanto scriveva. Quest’ultimo, poi, dopo sei mesi soltanto… non che ci mettesse forza, solo che scriveva proprio tanto.
Lei, che lo guardava con la sensazione che fosse tardi per tutto. Una sensazione che si portava dietro da troppo tempo, da subito. Da sempre. Aggiustare il lavoro. Aggiustare la vita. Ricostruirne una assieme. Sentire lo scoramento e però continuare a farsi forza, dicendo andiamo avanti.
Non era certo di aver incontrato un amore come il loro. Fatto di mille piccole cose, e non solo passione. L’affetto, la tenerezza, il gioco, la complicità – o, forse, era così, l’amore, anche per gli altri. Ma che entrambi non avessero dato il meglio per conservarlo e tutelarlo era diventato evidente.
Lei, ad un certo punto, non aveva più retto il gioco della solitudine, dell’eterna attesa, dei san Valentino da sola, come i Carnevali. Non che fosse una tipa mondana o festaiola – lo era stata, a suo tempo, all’occorrenza –, ma la situazione che si erano trovati a vivere aveva domandato troppo, in termini di rinunce. E lei aveva deciso che non voleva più accettarlo.
Una vita come una penitenza. Il problema era che la distruggeva.
E così si era ritrovata ad aver bisogno di aria, dopo vent’anni di dipendenza emotiva di cui lui, in effetti, non aveva colpa.
“Ti voglio bene, ma ci facciamo male a vicenda”, gli aveva detto. Lui non aveva risposto. Era lei quella che dava forma ai disagi, lui tendeva a non parlare. Ma sapeva che aveva ragione.
“Sono stanca di vivere sola, di stare sola”. Dalla sua espressione ferita, aveva capito che stava finendo tutto così. “Non voglio chiederti di cambiare, non mi sembra giusto.” La voce rotta.
Poi, la scusa. “Tu non decolli per paura di perdermi, non ti allontani. Allora, sono io che devo allontanarmi. Anche per il tuo bene.”
“Ma non solo”, aveva risposto lui. Inchiodandola. E le aveva serrato un polso. Con quella voce triste e ferma che gli aveva sentito poche volte.
“No, infatti.” Piangeva. Neanche riusciva a parlare. “Ma forse è meglio fermarsi qui.”
“No.” Aveva opposto, fermo.
No.
Quello che non aveva capito, era altro. Qualcosa di peggiore, più subdolo, inimmaginabile. Sarebbe occorso tempo, dolore, per ammetterlo. La sua felicità, lo sentiva, aveva sempre disturbato la sua famiglia. Lei macerava nella colpa. Era per quello, anche, forse, che aveva distrutto tutto.
Per un padre una madre e dei fratelli a cui non sarebbe bastato neppure se lei non fosse mai esistita. Avrebbero trovato sempre il modo di pretendere qualcos’altro, di scalzarla da qualcosa, di estorcerle subdolamente qualche rinuncia in più.
Davvero valeva la pena di perdere lui per loro?
Davvero doveva, pur esistendo, continuare a fare spazio, con la sua vita, ad esigenze di altri? A farsi più piccola, più infinitesimale, scomparire?
Per chi era stata, la fuga, per se stessa, per Andrea o per loro?
Se due anime sono destinate l’una all’altra… a volte lo aveva davvero pensato. Di loro due.
Dopo, c’erano stati giorni di silenzio e dolore. La consuetudine che cominciava ad impregnarsi dell’idea della fine. Il non sapere più parlarsi. Che era troppo diverso dal rientrare la sera e non avere molto da dirsi. La routine e il dolore. La paura di pronunciare la frase che avrebbe segnato il vuoto dell’epilogo.
Il dormire vicini, ma non più abbracciati.
Lei, che la notte avrebbe voluto accostarsi e dirgli ti amo, perché così era, ma non ce la faceva. Anche lei troppo ferita, distante, stanca.
E la partenza.
“Guarda che non ti sto lasciando”, gli aveva detto. “Ma abbiamo bisogno dei nostri spazi. Tu più ancora di me. e io ho bisogno di ricostruirmi una vita mia”.
“Ero io la tua vita”.
“Lo sei”. E lo aveva guardato intensa, come se potesse curare il dolore.” Ma non soltanto”.
Fine parte 2
Laura, febbraio-ottobre-dicembre 2007, gennaio-febbraio 2008, Pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2008
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] 18-11-07, poi scritto nel gennaio 2008..