Christine
Parte IX
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
La reclama senza la dolcezza timida dell’altra volta, ma come un amante disperato e ardente.
Non è stavolta che guardano la luce della luna morire azzurra sul parco. L’uno accanto all’altra. Con la tristezza che grava sui cuori e le mani che tremano, al contatto e all’emozione.
Non pensava fosse anche questo, André. Questo mare travolgente che la fa sua, con forza, con una passione lenta. Bruciante e infinita. Con la voce profonda e disperata delle parole senza fine che le sussurra, mentre la eccita, il respiro che le sfiora l’orecchio e poi giù, fino alla spalla. Brividi. E calore. Al seno.
E poi, ancora.
Le mani lungo la sua vita.
Sui fianchi.
Quando seguono le dita. Ora sicure. Nell’indugiare in lei.
E a lei si piegano le gambe e quasi cede su di lui. Bagnata.
E sulla pelle il guizzo delle fiamme del camino, illuminarli come in un sogno. Ipnotizzare i loro pensieri e i gesti.
E mani, ancora, a sorreggerla. Che la percorrono. La sfiorano. Le scorrono dentro. Attorno.
E labbra. Labbra ovunque. Su tutto di lei.
Che serra le gambe. Di piacere. Nell’arco del suo corpo. E poi si schiude immensa a lui.
Che si vede tendersi ancora, l’arancio del bagliore delle fiamme.
I riflessi sui capelli di lui, sciolti, sul suo ventre, tra i suoi fianchi. Sulle quelle spalle.
E poi lui che la risale.
Come se prenderla fosse allontanarsi. Tornare a casa. Poter rivivere. Dalla pena. Dalla malattia. Dalla debolezza. Dalla stanchezza. Dal gelo che cresce dentro e paralizza. Come se si potesse bruciare d’amore il ghiaccio. E vivere ancora. Senza avere davvero accettato quello che stava accadendo. Come se si potesse tornare a comprendere le parole che non siamo riusciti ad ascoltare. E qualcuno a dire. Come se quei gesti potessero vincere la solitudine generata dal sogno dell’orgoglio. O dall’incubo. Mentre la luce muore nell’ombra.
Non pensava che fosse anche questo, il sesso con lui. Che la fa sua, la riempie, sulle ali della sera, le dita intrecciate alle sue. Le braccia che la bloccano. Il suo peso addosso. Parole mute che uniscono in un accordo silenzioso. Sguardi che la inchiodano. I suoi che lo sfuggono. La marea lenta, poi impetuosa, del ritmo dei suoi fianchi. Le dita di lei, che lasciano segni rossi sulla schiena. Che lo cercano sotto la sua pelle. Nel contatto. Per possederlo. Per ricordare quello che lui è. Per non perderlo ancora.
Non pensava avrebbe saputo portarla a questo. Le onde di quei movimenti, che le risuonano dentro, e riecheggiano. Quasi da non volerlo lasciar andare. Serrarlo di più, volerne ancora. All’infinito. E lui lì, per lei sola. Infinitamente suo. In quelle parole, nuove, tra loro, che paiono strane. In quei respiri sulla pelle. Su di loro.
E, infine, placata, staccarsi da lei. In un’espressione indecifrabile. Forse di dolore. Come una violenza a se stesso. Lasciandola sazia, ma svuotata. Mentre un giorno muore. Su di loro.[1]
L’ha guardato, mentre le si avvicinava, la sfiorava.
“No, ti prego…” ha girato il viso.
“Io ti amo…” lui ha un’espressione disperata.
Le carezza il viso, i capelli. Le mani intense.
La bacia. È un bacio caldo, non la lascia.
Lei sente tutta la loro pena. Non vorrebbe aggiungere un altro errore. E lui già la sta spogliando, gesti febbrili che non gli conosceva. “Per favore, non lo fare…” Mentre la camicia scivola giù, scoprendole le spalle. I seni. “Non farlo…”
E invece lo fa, perché la ama, all’infinito. E glielo dice, e ripete.
“Ti prego, c’è lei…” e le mani di lui le sfilano i calzoni. E sente il suo respiro su di sé.
“Ti amo…”
“C’è il bambino…” ultima, disperata, difesa.
“Ti amo… ti amo…” fino a perdersi in lei.
”Ti amo” come se fosse l’unica cosa da dire.
“Non voglio farle questo…” Il viso di lato, lo sguardo lontano. Una mano tra i capelli di lui. La sorpresa e la vergogna di continuare a provare eccitazione, nonostante tutto.
“Vuoi farlo a noi?” le domanda, senza ipocrisia.
E lei sente le sue lacrime bruciarle il ventre. Trema di tristezza. E freme di piacere.
È una notte di passione e disperazione, quella che li cela. Un’alba di speranze e dolore, quella che li accoglie, abbracciati e soli, le tracce delle lacrime non ancora asciugate.
Quelle del desiderio ancora intense.
L’altra non si è accorta della sua assenza. Da qualche tempo ha dei disturbi più pesanti, Si sentiva troppo male, si è addormentata presto e non si è sorpresa quando, il sole già alto, ha trovato il letto vuoto, accanto a sé.
Guarda con tristezza il soggiorno vuoto e buio. Il caminetto è spento.
Non si sente bene, stasera, e stringe tra le mani una tazza fumante.
Non è più come nei primi tempi, quando André, allegro, la teneva tra le braccia davanti al fuoco, le labbra tra i suoi capelli, sempre pronto a scivolarle tra i vestiti e farla impazzire. Non è più neanche come quei mesi in cui ogni occasione era buona per prenderla per mano e chiudersi dietro le spalle la porta della camera.
Cos’è cambiato, si domanda, cosa? Non è una questione di anni. No. È qualcosa degli ultimi mesi. E non è neppure legato al bambino, perché, all’inizio, quando era una cosa soltanto loro, quando non lo sapeva nessun altro, era dolcissimo. È una punta di rimpianto quella che la divora. Perché ora non c’è mai e quando c’è pare quasi lontano? Ripensa all’espressione così assente che accompagna André da qualche tempo. A volte lo sorprende e le pare preoccupato. A volte è distante…
La casa è vuota. Silenziosa.
Sente sul cuore un peso che vorrebbe allontanare. Ma non ha gli strumenti per farlo.
Aspetterà. Lo aspetterà, sperando in una rassicurazione. Qualche parola di conforto, buona per qualche giorno di tregua. Ma poi?
Si sente di merda. Sdoppiato. Sporco.
Ma non sporco per il tradimento di stavolta.
Per tutto quel totale tradimento che è stata questa storia.
Lui, che era stato onesto. Lui, che il sesso non l’aveva pagato. E aveva rispettato se stesso e le donne e le ragazze che aveva amato. Ora, si è infognato in una merda assurda e se ci pensa vorrebbe solo vomitare e dimenticare tutto. Separare i ricordi buoni da quelli neri, cancellare delle parti, ricostruirle. Non distruggere nessuno, e neanche se stesso.
Non è un errore e basta, non è qualcosa da non ripetere. Non è qualcosa che si può archiviare come bastardata in un recesso recondito della memoria e sperare non venga più fuori. Non è qualcosa che basta nascondere alla persona con cui stai e tenerti dentro il peso. Non è un paio di corna messe per incoscienza o stanchezza o delusione o egoismo. No. È qualcosa di molto peggio. Per quello che Oscar è ed è stata e non smetterà di essere nella sua vita. Per Christine che vorrebbe non vedere quelle ombre in lui. Per se stesso, perché neppure lui lo merita.
Cosa deve fare, ora? Come potrà rientrare a casa e guardarla in faccia e fare finta di niente?
Separare le due realtà, come fossero piani paralleli destinati a non incontrarsi, e riservare loro due scomparti ben separati. Pensare che era qualcosa di predestinato e forse inevitabile e che non c’era quasi scelta nel percorrere fino in fondo e senza risparmiarsi niente la via verso la fine. È come una strada di dolore.
È così che vive chi tradisce?
È questo che è diventato?
Non sa come rientrare a casa.
Eppure lo fa. Gesti automatici. La voce prima incerta, poi, lentamente, risuona normale. Consueta.[2] E stupirsi di quella colonna di luce ocra che risalta sulla pietra, ed è strano, perché, di solito, la pioggia rende tutto grigio. Invece, stravolta, risaltano altri toni. Come se qualcosa, in fondo, fosse stato scoperto e altre tinte, particolari, non possano fare a meno di affiorare.
A volte gli pare di intuire un tono diverso, in lei. Un risuonare di tristezza in fondo alla voce. Quando si gira a guardarlo e i gesti sono secchi, gli sguardi gli pare lo inchiodino. A volte gli sembra che lo odi e soffochi questo sentimento per civiltà e affetto. Non è venuto a patti con se stesso, per ora cerca di non pensare, perché, di fronte a loro due, a se stesso, non saprebbe neppure come ipotizzare una spiegazione, una soluzione. Anche se in fondo è semplice. Che uno di loro molli.
Si domanda se lei noti che la desidera meno. Se noti che tra loro ora è diverso. Certo, è normale che una relazione muti, nel tempo, e che la tenerezza prevalga. Ma quanto è normale che lei non si domandi se una vita a due possa essere così sporadicamente attraversata dal desiderio? Lui, che o è assente o si mostra distante. In buona sostanza, si sottrae. Lei che, scoraggiata, si tiene a distanza e lo sconcerto, prima, poi la tristezza crescono. Per quanto ancora non le verrà il dubbio e troverà una sana giustificazione?
Eppure, non è sempre così. A volte, stare con lei lo coinvolge.[3]
E, non sa come, forse un intuito ancestrale a non essere scoperto, un disperato ricordargli che, in un frammento della sua esistenza, c’è stata, tra Oscar e Oscar, anche lei, glielo fa venire duro. Si ritrova dentro di lei.
Se è lui a cercarla, non ricorda se per tenerezza, amore, gratitudine, colpa. Per l’idea di sentirsela contro, mentre lo abbraccia forse ignara. E, allora, volerla, sentire il corpo premere contro il suo. Perdersi. Le dita di lei che lo serrano. Non sa se sia per quel suo riuscire a distrarlo, in fondo, con l’ironia, il distacco. Forse consapevole, quando la vede allontanarsi, quando sente che la distanza si colma, di doverle ricordare di sé. Perché ancora non è pronto a perderla. Ancora prova una sorta di paura di perderla. O forse è l’impulso di rassicurarsi ribadendo il possesso. Non lo sa. O sanare una vendetta.
E, così, si spinge dentro di lei. Fino in fondo. La fa sua. Come un oggetto.
Forse, era solo che ne avevano voglia.[4]
Brucia di febbre. André ritira la mano dalla fronte. Oscar, accanto a lui, gli passa un panno bagnato. Si scambiano uno sguardo preoccupato.
La casa era al buio, quando sono arrivati. André si è allarmato, è entrato in una stanza che sembrava vuota di segnali di vita. L’ha chiamata, prima piano, poi con l’ansia che spezzava le parole. Ha avuto paura, Oscar, che lo seguiva, intimidita, nel suo ambiente. Non ha osato fare altri passi. È rimasta lì. Poi, ha sentito la sua voce, la paura che la faceva tremare, chiamare l’altra. E poi lei.
“Oscar, Oscar… aiutami…”
è corsa di là, l’ha trovato con lei, riversa tra le braccia, sul pavimento dello studio.
“Resta con lei, per favore… chiamo il dottore…”
Rimane ancora un po’ lì, con lui. Senza osare guardarsi attorno. Perché quello è il loro regno e ha paura di profanarlo. Quelle sono le lenzuola che ha scelto lei. Quelle le coperte che ha voluto. Quello è il loro letto. Soltanto, aspetta che arrivi il dottore. Una scusa. Per non andare via.
E per non lasciarlo solo, ad affrontare quella pena.
“Stai tranquillo, passerà…”
Lui sembra crederle. Annuisce. Pallido.
Pensoso stringe la mano della moglie tra le sue. E lei vorrebbe voltare le spalle, ma non lo fa, e resta lì, spettatrice di tutto il dolore di lui. Quello che lo opprime. E quell’altro, che lo dilania.
Sembra un ricordo troppo lontano quel giorno che arrivò per caso in cucina e si sorprese a guardare la simmetria delle due piccole finestre, inondate di luce, filtrata tra il verde rigoglioso ed il rosso intenso delle erbe, della salvia splendens, delle begonie. Sembra una vita, pensare che aveva detto “Quest’angolo è così bello…” soddisfatto come un gatto che faccia le fusa. Apprezzando le sue scelte. E lei, efficiente e svelta, felice che lui avesse notato quei particolari, gli aveva ricordato “Corri ad apparecchiare, ché arriva Oscar…”, Oscar inattesa, Oscar che le faceva così piacere vedere. Quanti secoli erano trascorsi?
È andato via da poco, il dottore.
E sulla porta la saluta. È penoso, quando si stacca da lei, appoggiata allo stipite. In quel bacio rubato.
“Mi dispiace di non poterti accompagnare…”
Le carezza il viso con le mani.
“Resta con lei…” gli stringe un braccio.
Sembra un addio, quando i loro corpi si staccano. Sembra dolore.
Non è ancora tornata, ma l’hanno invitato a sedersi con loro. Come fosse una festa.
E, ora, davanti ad un tea fumante e ad un vassoio di biscotti, le ascolta parlare. Discorsi di donne.
“Meno male che Madame è una persona moderna… ce lo dice sempre, ‘Ragazze, state attente’, e non è come quegli ignoranti che vogliono imporre la castità e la repressione, lei ci tiene informate, ci fa leggere giornali, ci manda dal dottor Lassonne e dalla levatrice, in modo che non ci troviamo nei guai… non è come quelli che, poi, quando non c’è niente da fare, ti dicono ‘Tieniti il figlio e ci pensa la provvidenza’ o ‘Nascondi la tua colpa’. Quando le diciamo ‘Ma, e voi, Madame?’, lei ci risponde che sei sono in effetti troppe, ma dodici sarebbe stato decisamente peggio…” ride. “E sì che lei ed il generale si sono sposati giovanissimi, entrambi dopo un precedente matrimonio, e lei deve averne sopportate parecchie, visto che quel matto del generale era alla caccia dell’erede da subito…” Parla, infervorata, con affetto e rispetto, dopotutto.
“Magari era solo una scusa…” scherza un’altra.
“Madame dice che ha insegnato alle figlie e che ognuno dei suoi nipoti è stato voluto…”
“Certo che…”
“Ricordi cosa successe, con Annette, quando un ospite del generale la mise incinta…”
Tutte quelle che erano lì da qualche anno lo ricordavano…
“Madame la aiutò, il generale le pagò la levatrice, e la famiglia in campagna, che si tenne il bambino…”
“Sì, però ricordi come stava lei quando tornò, che per anni, quando vedeva un bambino, diventava triste…”
Scese un silenzio carico di comprensione. Certi discorsi riaffioravano, talvolta, dal limbo dell’inopportunità, e passavano alla memoria. “Meglio non finirci, in situazioni del genere…”
“Certo…”
Quello che non sapevano era che, a mano a mano, anche Oscar, come sua madre e, probabilmente, condividendone le idee e la solidarietà con le posizioni di Mme de Beaumer, di Mme de Montanclos, si era occupata di quelle situazioni.[5] Da parte sua, era un modo per aiutare le donne a sentirsi più libere. Meno in mano agli uomini o al caso. Lo considerava un dovere morale. Lei, che era fortunata ed aveva la possibilità di informarsi, di riflettere. E che, sperava, avrebbe almeno potuto dare questo piccolo aiuto a chi aveva meno di lei.
Si è perso dietro le loro parole. Ripensa ad altre situazioni. Altri contesti.
Si è fatto tardi, si rende conto. Si alza, fa qualche passo. Le ascolta ancora, le voci che fanno da sottofondo a quella scena d’interni.
è quasi sera, quando, la schiena appoggiata allo stipite, le mani in tasca, la vede arrivare, i guanti serrati tra le dita, l’espressione tirata.
“Scusami”, lo congeda. “Stasera no…”, risponde alle sue insistenze. Non se la sente, non ne ha voglia, non lo sa neppure lei. Forse è perché l’ha fatto con André. E ora è diverso. Sa solo che le pare un affronto, stasera, come un aberrante trionfo della vita mentre la morte agita le sue ali su di loro.
Ha voglia di scopare. E di suonare il piano.
Mentre la guarda, disperata, le mani gelate.
E qualcosa le dice che è disperata anche lei.
E che, se di mezzo non ci fosse lui – e il malefico pargolo a venire – , potrebbero essere più vicine.
È passata a vedere come sta, dopo l’altra sera.
Le sembra così bella, con quei capelli lunghi. Quella voce squillante, così diversa dalla sua, profonda, antica. E timida, quando non deve risuonare forte.
È uno sguardo di guerra, quello che la ricambia e si specchia nel suo, azzurro, come il cielo là, fuori da quelle splendide finestre, quadri su quel paesaggio perfetto, più bello di qualsiasi quadro abbia mai visto, e vero, vero fino in fondo. Nella sua casualità.
Di una donna che non vuole essere guardata come quella che rinuncia a tutto perché è sposata. Come se, dalla catastrofica interpretazione o, più esattamente, rivisitazione, della sua vita, dipendesse la legittimazione di qualunque idiozia faccia un essere non coniugato. Che, per carità, è liberissimo di agire come crede, ma non di fare di lei un termine di paragone. L’esempio di ciò a cui si rinuncia. Il soggetto a cui guardare, per un po’ di consolazione.
Si sente come una cavia, a volte. Osservata, come se dovesse mostrare reazioni fuori luogo.
Si domanda se possa capire, chi non si dibatte in quello che vive lei. Chi, forse – o, forse sì, nel caso dell’altra – non ha neppure idea di cosa significhi, cosa sia volere, davvero, profondamente bene, senza l’egoismo dell’egocentrismo, ad una persona, tanto da riuscire ad amarla lasciandola allontanarsi, vivere la vita che si è scelta, arrivando ad accettare cose e situazioni che, altrimenti, non si accetterebbero. Anche se la tristezza prende, e, a volte, si vorrebbe una vita diversa.
Si domanda come possa capire, chi sembra non pesare la vita. Non Oscar, ma tanti altri…
Se l’altra pare capirla, in quegli sguardi limpidi, di disperazione cupa e ostinata che le lancia, e forse è sola quanto lei – sorride, a questo strano privilegio del Grandier di questi tempi, di far sentire unanimemente sole le sue ragazze… prima, però, riflette, sembrava diverso… –, sente che altre persone non sanno vedere che l’assenza, quello che manca, le cose a metà. Non ha più voglia di lasciarsi giudicare. Compatire. Senza ascolto. Senza possibilità di difesa.
Ed è un lungo sguardo, fatto di un istante di dolore, quello che si scambiano. E che le lega. A lui. Tra loro. A quello che verrà. A chi verrà. Dopo.
Perché a volte cose che paiono insormontabili finiscono per non contare più nulla. Di fronte all’esistenza. Agli eventi. Al tempo.
All’amore immenso. Comunque lo si provi. Nella vita.
Uno dei gatti gratta la porta, per rientrare.
Sente la pelle gelata delle proprie dita sulle spalle. Risente non i propri capelli. O la stoffa dei vestiti. Ma la pelle di lui. E si volta verso la finestra. Come se servisse a nasconderla. A nascondere pensieri che non hanno nessuna consistenza o realtà. E, ora, non il piano, ma le corde del violino vorrebbe sentire, sotto i polpastrelli. Il suono disperato e solo e vibrante.
Ma non resta molto da dire. Dietro gli sguardi scambiati.
Non resta da dire, quando si è costretta ad andare da lei per pena e colpa. Per dolore.
Il micio si acciambella silenzioso sulle gambe della sua coinquilina. Che s’illumina di un sorriso dolce.
Cade una pioggia strana, ora. Il tempo è cambiato all’improvviso e sono lucide le belle pietre grigie del cortiletto, dove le macchie rosse e verdi dei fiori scintillano, distinguendosi ancora, mentre resistono all’acqua.
Si domanda se chi vive in una bella casa debba necessariamente essere appagato. Sarebbe portata ad immaginare di sì. Si domanda se avere accanto chi si ama renda felici. Vorrebbe credere che è così, ma legge la solitudine di lei, e, forse, si dice di no.
Lo intuisce, Christine. “È vero, mi sento sola”, confessa, con la voce bassa del pudore. “Ma fa parte del nostro rapporto…” Alza su di lei uno sguardo pallido e forte. Fa per spiegarle. Ma non ce n’è bisogno.
“Lo so”, la interrompe lei, con un cenno della mano, a significare che l’argomento è chiuso, che ha capito. Che non c’è bisogno di dire altro.
E restano lì, al tavolo, Oscar a tormentare il cucchiaino della tazza di tea, Christine ad accarezzare tra le orecchie il gatto che le ronfa in braccio.
Non è facile, accettare la solitudine, quando si è solari. Quando viene imposta, più che condivisa o sentita.
Quando si guarda attorno, con un filo di rabbia, trova fastidiose quelle stesse cose che, all’inizio, le erano parse piacevoli, in quella casa.
Quando era piccola, passeggiando, guardava come con una remota speranza le case e immaginava come fosse, vivere dentro quelle più belle. Pensava che non fosse possibile che lì dentro potessero albergare problemi comuni, che le persone dovessero per forza essere serene. Mai aveva osato pensare felici, però. Anche allora, si poneva domande.
Aveva sempre avuto l’idea di sbagliarsi, di qualcosa di stonato. ora ne ha la certezza.
Ora, che ha una casa carina, e sa che aiuta, ma non più di tanto. Perché una casa sono le mura, i pavimenti, i mobili, ma anche viverci. Saper apprezzare quello che si ha. Quello che si è. Chi si ha intorno. E non essere costretti a spegnersi, un po’ per volta, per colpa di scelte sbagliate.
Se ne sta lì, torva, come una bambina imbronciata, rannicchiata sul letto, le ginocchia contro il corpo. Vecchi numeri del “Journal des Dames” spaginati sulla coperta.[6] Ama rileggerli, ripensando con nostalgia a quell’esperienza entusiasmante ormai chiusa. A come l’aveva formata. A quelle idee a cui non ha rinunciato, ma che ora, che si sente così spenta, le sembrano lontane una vita. Per come si sente ora, non riuscirebbe a seguire neppure due righe, per quanto appassionate. E osserva, nera, quelle pareti, attorno a sé, che fino a poco tempo prima ha sfiorato con lo stupore sorpreso di chi non si aspetta tanta serenità. Non avrebbe detto gioia, quella è una condizione dell’animo, ed ha poco a che fare con le esteriorità, ma l’idea di trovarsi in una casa molto carina, con la persona che si ama, a fare quello che si ama fare, sì, l’avrebbe collegata al concetto di serenità.
Eppure, non è servito. E quelle stesse pareti che le erano parse piene di vita e accoglienti, ora le paiono nemiche, e, se non fosse troppo stanca, demotivata e razionale, non esiterebbe a rovesciarvi addosso quasi tutto quanto possa capitare a tiro.
Eppure, non lo fa.
Non è questo, si dice.
E le viene da ridere, pensando che, ormai, questa è diventata una litania nei suoi pensieri, nobilitata, nota con spregio, nella solennità del leit-motiv.
Non è questo. Si ripete.
Non che non sia bello avere un compagno in grado di capire l’accenno ad un leit-motiv. Uno che la pensa come te. Che afferra le citazioni che fai e magari ne sa più di te. Moderno senza essere stupidamente alla moda. Di mentalità aperta. Simpatico. Dolce. Che non sia rozzo. Che non sia impresentabile. Che non urli quando parla. E parli senza accenti. In un linguaggio corretto, chiaro, anzi, profondo. Che abbia un’aria perbene. E belle mani. Che non si muova come un bifolco – certo, sarebbe notevolmente meglio se ogni tanto lo vedesse, oltre che enumerare, a memoria e sulla fiducia che le abbia nel frattempo conservate, le ragioni per cui lo apprezza –.
Ma, si domanda, è bello passare la propria vita da soli, aspettando che il compagno – e di cosa, verrebbe da domandarsi – torni? Che senso ha pensare di aver desiderato qualcuno, per poi, una volta ottenuto (manco fosse un oggetto), scoprire che si ha, si possiede, l’idea di questi, senza, però, la presenza? Scoprire che si sta costruendo un rapporto sull’assenza?
Gliel’ha anche detto, una sera, la voce triste, la sensazione sottile di stare per rompere tutto. “Non pensavo che sarei stata così sola, mettendomi con te…”
E, lui, che aveva innalzato, nella voce, un velo di gelo, a preparare la difesa, a mascherare la ferita – sua e di lei –, aveva domandato, subito, a stroncare ogni ulteriore pensiero “Cosa vorresti dire?” Ma era consumato da anni di confronti e scontri, per non avere l’abilità di nascondere la voce che trema di fronte alle certezze che vacillano. Quello che pensavi di aver non solo costruito, ma, anche, messo da parte ed al sicuro, senza calcolare che avresti dovuto lottare per conservarlo, che non sarebbe stato sempre lì, pronto a scomparire in fretta.
Non è certo il tipo, lei. Non è il tipo da buttare a mare tutto, alla prima – o, si costringe a considerare, quasi cinica, all’ennesima difficoltà –. No, non è questo.
Ma, si dice anche, non può continuare a soffrire così, senza neanche uno straccio di spiegazione. Senza un senso – è incredibile come la ricerca di un senso tenga impegnati, offra un palliativo e, così, consenta di accettare eventi che mai si potrebbe pensare di sopportare –. Deve riuscire a farsene una ragione. A reagire. O non ne uscirà.
Non è una persona viziata. Non programma la vita e non vuole tutto. Ha solo sbagliato, con lui. Tutto qui. Non voleva legare a sé una persona, esibirla come un trofeo. Voleva lui accanto, ma per scelta. Era stata disposta a comprenderlo, a capire quella strana situazione. A voler confidare che le sue speranze, poi le promesse – dopo, aveva compreso che erano illusioni –, fossero vere. Lo credeva anche lui, all’epoca. Forse era stato lui a immaginare che lei gli offrisse davvero la salvezza che sperava rappresentasse. Forse era stato quello, l’errore di entrambi: di lui, di chiudere gli occhi e di cercare di serrare il cuore, distraendolo. Di lei, di credere oltre ogni pensiero della ragione che sarebbe stato possibile qualcosa che era innaturale.
Non è sbagliato, André. Sono sbagliati loro due. Insieme.
Finché non è successo qualcosa che lo ha riportato alla situazione di prima, lui è stato straordinario. E, se non notasse la differenza, lo considererebbe tale anche adesso. Eppure, vede quanta stanchezza si porti dietro, dentro, addosso. La disillusione e la tristezza, che, lentamente, spengono anche lui. E prova una pena immensa. Non solo per quello che sta accadendo a lei – che non è giusto –, ma anche per lui.
Nessuno di loro lo meritava. Non si dovrebbe pagare così duro, per uno sbaglio. Per una serie di sbagli.
Errori…
Ammette d’aver commesso un errore, nel desiderare un figlio. Si sente sbagliata e in gabbia. Incastrata in una situazione che le sembra di non volere più. È stata una sciocca incosciente, a pensare di volerlo, a proporlo, a coinvolgere lui. Come se la vita fosse per forza scandita dalle tappe usuali, che, lei, poi, non lo aveva mai pensato. Come se si dovesse per forza compiere certi passi. Come se vi fosse una “normalità”, un dover fare. Incontri uno che ti piace, ci vivi, poi ci fai un figlio. Ma non è così. Ha fatto un terribile errore. Se ora non ci fosse il bambino, se ne andrebbe. Il cuore lacerato, a pezzi, sì, ma lo lascerebbe. E, dopo, la vita non sarà più la stessa. La libertà che ora ha sprecato non tornerà. Avrà la responsabilità di lui, di crescerlo, proteggerlo, e non sarà più padrona del proprio tempo. Della propria vita.
Uno lampo lento e triste le raggela gli occhi, la rabbuia.
Non era questo che sognava, assieme a lui.
Non è viziata, si ripete. Non voleva la famigliola felice. Aveva solo sperato di poter stargli vicina, di costruire qualcosa con lui, per come lui era, per come l’aveva fatta innamorare e, dopo, per come l’aveva amato, quando il sentimento si era evoluto, dall’incanto degli inizi.
Davvero, non era questo che aveva sperato.
Poi, lo sguardo improvvisamente duro, la consapevolezza che un figlio non è una barriera. Che non è obbligata a continuare, se non se la sente. Almeno con André. Di cui non può portare la responsabilità.
È un attimo, sentirsi più leggera e, insieme, portare i polsi al viso, a coprire le lacrime che sembrano non voler uscire.
È così sola, come mai avrebbe immaginato di poter essere.
Sente la stanchezza sulle spalle. Come a spegnerla. A schiacciarla.
È una di quelle cose che ti rubano la gioia di vivere. E si dà della stupida, per aver affidato qualcosa di così prezioso nelle mani di un altro. Si domanda come abbia potuto lasciare che accadesse. Ma sa che non sarebbe stato possibile altrimenti.
Lui l’ha abbagliata. Nella sua diversità, ha creduto di riconoscersi. Ha sperato di trovare un proprio simile. Le è sembrato, per un lungo, infinito, infinitesimale, fraintendimento, di rispecchiarsi in lui. Che, invece, era lontano una vita. Alieno. Separato. E cosa sia stato dell’André che conosceva, del ragazzo allegro, pensoso, ironico, di cui si era innamorata, ora, onestamente, non saprebbe dirlo.
Ora, i tramonti le appartengono.[7]
Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio 2007, pubblicazione sul sito Little Corner febbraio 2007
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[1] Se questa scena ha ora questa forma, devo ringraziare Sydreana. È stata lei in un sms il 7-1-2006, dopo aver letto la versione del 3-1, a suggerirmi che si poteva dire di più. Io, volutamente, non l’avevo fatto per evitare di dire, perché volevo solo evocare. Poi le sue parole mi hanno riportato a vecchi discorsi che, in terza liceo, facevo con la mia amica Antonella. E le parole che scambiavamo allora, e quello che ascoltavamo, quella musica, quella canzone, all’epoca uscita da poco, che ho sempre pensato come colonna sonora della *scena d’amore* tra Oscar e André (ingenuità dei diciott’anni…), mi hanno portato a dare il ritmo e le suggestioni della versione attuale.
[2] 8 gennaio 2007.
[3] 8 gennaio 2007.
[4] 8 gennaio 2007.
[5] Due delle direttrici del “Journale des Dames”. N. RATTNER GELBART, “Le donne giornaliste e la stampa”, in G. DUBY, M. PERROT, Storia delle donne in Occidente. Dal Rinascimento all’età moderna, Roma-Bari, 1995-2000, pp. 435-454.
[6] Nato nel 1759 come pubblicazione destinata a svagare le dame, durante l’ultimo periodo, sotto la direzione del Mercier, assunse un atteggiamento spiccatamente frondista. Ebbe anche tre direttrici donne, nel periodo intermedio e grazie a loro il giornale si trasformò in una pubblicazione di opposizione, che affrontava temi sociali, stimolava le lettrici a pensare, a coltivare le menti, a non rinunciare ad una propria carriera lavorativa. Durante questa fase, il giornale finì per indirizzarsi ad uomini con simpatie rivoluzionarie. Dopo un periodo di chiusura, durò fino al 1778. N. RATTNER GELBART, “Le donne…”, cit., pp. 435-454.
[7] 5-11-06, solo questa frase.