Christine
Parte VIII
Warning!!!
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
Che tristezza andare a cercare una casa da sola. Ne ha visitate di tutti i tipi, scornata per le offerte, imbufalita per quanto si sente male. Le coppie cercano casa. Poco importa che siano idioti male assortiti dalle rispettive famiglie o poveri illusi. Le coppie. Quelli che si sposano. Con cerimonie organizzate, complesse e benedette. Non quelle come lei.
Poco importa che le uniche preoccupazioni, durante la cerimonia, siano sfilare i lunghi guanti senza attentare alle lunghe unghie ed ai brillanti. E stare in posa per il pubblico, strizzati in vesti improbabili e sostenendo pesanti acconciature pulciose resistendo stoicamente alla necessità della grattatina. Se lei si sposasse, non penserebbe certo a questo. Forse si sentirebbe in imbarazzo, forse vorrebbe solo una semplice cerimonia e non quel fasto… Ma tanto lei non si sposerà, ci ha messo una pietra sopra, dato che il povero Grandier non sarà pure bigamo, per colpa sua, di casini ne ha già abbastanza e lei sarà pure una ragazza complessa, ma è una buona amica e gli vuole bene.
Odia vedere la vita scorrere, davanti ai suoi occhi.
Non che ami partecipare ai riti collettivi o che gliene freghi qualcosa. Ma le dà fastidio l’idea che per lei non ci sarà mai niente.
Ecco perché l’idea di una casa. Sua.
Ma è scorata, un po’ dall’essere sola a farlo, un po’ dalle proposte assurde che tentano di rifilarle. Stanza con camino, avevano detto. Sì, o, più precisamente, minuscola porzione di muro ricavata da non si sa bene quale ennesima suddivisione dello stabile, con immane camino che occupa, per la verità, tutto lo spazio. Se si riesce a farci stare due sedie accostate è già tanto. Scala esterna indipendente. Certo. Oggetto traballante e da vertigini a rischio di crollo perenne. Ottimo per allenare truppe d’assalto. E basta. Per non parlare delle domande indiscrete: “Siete sposati?” Tono inquisitorio. “Pensate di sposarvi?” “Ah, siete sola…” Ma andate al diavolo, tutti quanti!
Poi, parlandone con sua madre, lei le ha proposto la costruzione nel parco.
Sono andate insieme a vederla. Non era male, in fondo. Era bello, non essere sola. Osservare, con un’idea, una speranza, quelle pietre, con un essere umano accanto.
Le prospettive che, impercettibilmente, prendono a delinearsi nella mente. Il fronteggiare un’idea nuova. Inventare nuove interpretazioni per spazi non considerati prima. Avere sua madre lì, accanto. Incontrare il suo sguardo. Sentirsi rassicurata dall’idea che, semplicemente, ci fosse.
Poi, il senso di intraprendere qualcosa. Il progetto. E l’impatto, fare i conti con l’inesperienza. La ricerca delle maestranze. L’appoggio insperato di sua madre. Fondamentale.
Forse, aiuta a non pensare. Distrae.
Forse, lentamente, si può provare a dimenticare.
è molto tesa, in questi giorni. S’è vista poco. Ha avuto da fare. Dice… poi, una sera… ragazzi, che donna!
Aiuta, pensare di stare consumando una vendetta.
Si sente più forte, da quando le cose sembrano cambiate. Ma si domanda se lo siano davvero. Lasciarsi spogliare da un altro. Se e quanto cambi.
Adesso che s’è calmata ed in parte vendicata, si riesce anche a parlarne. E, così, André le apre un po’ il cuore, si confida con lei, le racconta di quella decisione. Delle paure, delle speranze. Del senso di inadeguatezza e di attesa. E lei, che aveva intuito le ragioni dell’altra, si sente persa, di fronte a quelle di lui. E importante. Un’amica importante, una sorella?, una compagna tradita?, che prova, nei confronti di lui, tanta tenerezza, a vederlo così, scoperto, a parlare dei suoi sogni e del futuro – e lei non ne fa parte. E una Erinni che medita vendetta e incastra ingranaggi, mentre lo osserva, che la circonda con gli occhi più dolci, tristi e fiduciosi del mondo, ripensando a qualche sera prima.
“Fai l’amore con me, dai…”
“Ti ho detto di no…”, ride lei.
La sta baciando, le ha slacciato la camicia, le mani tra i suoi capelli.
“Stai buono…” lo allontana da sé. Non sa come ci sono arrivati. Lui, chino, allacciato a lei.
Le scopre un seno. “Sei così bella…” le dice piano, allegro. A percorrerlo, con le dita.
Lei lo guarda in modo strano. Si ricopre. Ma dai… passi il Grandier, che è matto da legare, ma tu, ragazzo, davvero, cosa ci trovi in me? Ha un bel taglio di occhi nocciola. Un bel viso. Bellissime mani. Più alto di André, più squadrato. Dissacrante. Irriverente. Amaro. Scafato. Incattivito dalla vita. Insistente…[1]
Le bacia il seno. Con lentezza e forza. La osserva respirare più velocemente. Glielo stringe e lo succhia. E lei lascia andare un gemito.
Davvero insistente…
“Perché non vuoi farlo…” Ora è passato all’altro seno.
“Perché non voglio restare incinta…” Non posso neanche, ma questo non ti riguarda… e so benissimo come evitarlo, ma non ho voglia di andare fino in fondo con te. Il desiderio preme più insistentemente.
Lui ride: “Non ho mai messo incinta una ragazza!” E percorre quella pelle così diafana, rapito e curioso.
“Perché non sono venute certo a dirtelo e saranno corse ad abortire col ferro da calza” povere illuse…
Lui decide che parlare serve a poco. Questa tipa ha le idee troppo chiare. E troppi anni più di lui – misera scusa… ritorna ad occuparsi di lei, finché glielo lascia fare. Vuole vedere fin dove riuscirà a portarla. La partita è aperta.
E così, un po’ per volta, anonime pareti, letti disfatti e sconosciuti, molte taverne dopo,[2] e dopo lunghe peregrinazioni mentali, estenuanti ed impegnativi scambi e battute velenose e ciniche di lei, ha scoperto che per farla impazzire deve prima insistere sul suo seno. Premerle con carezze delicate il collo. Lasciare baci infuocati e umidi addosso, ovunque.
Indugiare con le dita tra le sue gambe. Ha scoperto, dopo molto intenso impegno, che sembra di ghiaccio, e invece no. Che l’eccitazione l’avvolge presto. E solo tardi le lascia requie.
Ora sa che le piace quando lui le scende tra le gambe, e con delicatezza o insistenza la lambisce, percorrendola, insinuandosi. Ha capito come farla venire, perché goda e impazzisca.
Certo, però, che è un rompicapo che lei si ostini a non volerlo dentro. E lui, poveraccio, che gli tocca fare per rimediare…
“Dai, solo un po’…”
Lei gli lancia un’occhiata truce: “Ma quale po’… Alla larga!”
Una volta, gli ha detto “Piantala, mi distrai con questi discorsi…” la voce roca.
Voleva concentrarsi solo sul proprio corpo. Sulle sensazioni. Sul respiro di lui, mentre rideva, sulla sua pelle. E le labbra che le avevano detto, addosso, “Tu sei folle…” Voleva dimenticare che André le aveva detto, una volta, le stesse parole. Voleva pensare solo a lui. Immaginare. E guardare quei capelli scuri affondati su di lei. Sentirlo.
Provarlo.
Riprendersi la sua vita.
Lo specchio restituisce l’immagine di lembi di pelle tra i capelli. Un capezzolo che spunta teso. La stoffa candida. La mano di lui a percorrerla.
L’altra, che le serra un seno e già la fa impazzire.
“Guarda…”
Lo vede, riflesso, dietro di sé. Imponente. I fianchi magri seminascosti dal suo corpo e dai capelli lunghi.
Non vorrebbe, ma segue il suo sguardo in quel cenno.
Percepisce la mano indugiare. È eccitante. Sentirlo. Immaginarlo. Guardarlo.
“Sei così bella…”
Le dita insistono. Percorrono i brividi e lei.
L’ombelico. Trattiene il respiro tra i denti, in un brivido. Poi, giù. Gli occhi persi.
Lo sente scivolarle tra le gambe e si vede inarcare il corpo. Quasi abbandonarsi contro di lui.[3] Senza forze… Le spalle sul suo petto. La pelle, quasi fredda, su quella di lui, che brucia.
È lei quella figura candida, snella, senza quasi nessun pudore, che lui esalta e fa godere?
Sue quelle spalle forti, quei seni tesi? Quelle braccia. Quel ventre che vorrebbe disperatamente essere riempito? Quelle gambe che ora lui libera dalle vesti, le dita umide di lei. Quel bianco, dentro, che lui le mostra, lento, dalle dita, piano, indugiando, risalendo, descrivendo, alle labbra di lei, accese. E lei quasi prova vergogna.
È lei quelle mani tra i capelli di lui, che, senza saper attendere, lo guidano tra le sue gambe, e vede quella schiena riflessa, e se stessa tesa e abbandonata, insieme, fino ad annientarsi. E poi guardarsi, e vederlo su di sé, ciocche di capelli sul suo ventre, il suo respiro, le labbra, la lingua sulla pelle. Sfiorarla. Bagnarla. Lambirla. Piano, poi più forte. Le mani sui suoi fianchi. Poi lungo le gambe. E desiderarlo mille volte. E sentirlo, mentre la percorre e lei non ha più ragione, né volontà, è solo volerne di più, ancora, se potesse, all’infinito. All’infinito.
È sdraiato accanto a lei, ora, e gioca coi suoi seni. Dita, labbra che si serrano. La lingua e il suo respiro.
Lo lascia fare. Forse, tra un po’, ne avrà ancora voglia.
Si guarda il ventre, piatto. E cerca di immaginare come sia quando qualcuno ti viene dentro. Se sia diverso. Se in fondo non cambi. Se le sensazioni nascano più dalla mente che non effettivamente dal corpo.
Dio, quanta voglia avrebbe di essere scopata fino in fondo. Non che non vada alla grande anche così, però… È solo che non se la sente. Con lui. Non ancora. Forse.
Lo guarda con un’espressione indecifrabile.
Decide che in fondo è comodo che a lui vada ancora bene così.
“Cos’hai…” Risale su di lei. Pesandole sopra.
Sente di nuovo quel calore liquido che la scioglie.
Respira più velocemente.
Scivola con la mano in basso, glielo serra tra le dita. Con forza.
Lo eccita, di nuovo. A lungo. Di proposito. Fin quando lui quasi non resiste. Fino a costringerlo, una volta ancora, a cercarla, soddisfarla, sfinirla. Per poi, metodicamente, finirlo, senza più forze e quasi parole.
“Non parliamo molto, da quando siamo passati al sesso…”
Lo guarda. Che parole impegnative…
“Non che parlassimo molto neanche prima…”
“è comunque una forma di comunicazione”, gli fa notare, pratica.
“Ho così tanta voglia di te…” l’eccitazione nella voce.
Lo vedi, ragazzo, che non c’è poi molto da dire…
“Vieni qui…”
È quasi pronta, si dice. All’esterno non sembra molto cambiata, ma dentro è totalmente diversa. La casa. E non solo. Sorride. Per avere un posto tutto mio, considera. E ricevere chi voglio. Poi, si ferma. Se ne avrò voglia. Non sa, davvero, se abbia più bisogno di non sentirsi sola o di restare sola. Non saprebbe dirlo, ora. Sa soltanto che quello è il suo spazio, ne ha bisogno, e non è così disposta a lasciarvi entrare qualcun altro.
A volte sta bene sola.
A volte è stufa di andare per locande. Una casa è più discreta. Più comoda. Soprattutto in previsione dell’inverno. E allora si sorprende a pensare a quanto potrà durare, col ragazzo. Qualcosa che, in realtà, non è mai cominciato. Non è una relazione. Non è stare con qualcuno. È qualcosa senza impegno, si dice.
A volte ha voglia di lui. A volte lo tiene a distanza. Se lui non fa troppe domande, meglio. Anche se, quelle poche che pone, la colpiscono.
Per lui sembra diverso. Ha cercato di non occuparsene, ma la curiosità, l’interesse che André riesce a celare, in lui invece si notano. Si dice che è perché è l’unica donna strampalata che gli sia capitata. Forse non è solo questo. Forse a lui lei piace. Non porsi domande le pare il modo migliore per evitarle. Per non stravolgere quel brandello di quiete che si è costruita.
Per non dover ripensare a quell’immagine, un ricordo, di loro, le braccia di lei a circondarlo, una cascata di capelli, e quegli occhi, luminosi, innamorati. L’ha odiato. L’ha invidiata. Le ha fatto male qualcosa, dentro. Forse era il cuore. Forse la vita.[4]
L’ha detestata, quelle volte che, mentre loro erano impegnati a parlare di lavoro, lei, svagata, poteva permettersi di smarrire lo sguardo lontano, a cercare la luna che sorgeva, magnifica, e, lenta, inondava di luce rosata, poi, più intensa, il tramonto, infuocandolo. Restava in silenzio, in un mondo tutto suo, non era chiaro se fossero loro ad escluderla o lei ad estraniarsi. E neanche osava disturbarli, con quella storia della luna, forse a loro sarebbe sembrata una sciocchezza. Eppure, quando aveva osato dirlo, indicando, intensa, la finestra, loro due avevano seguito lei, ammaliati.
Dopo, avrebbero ricordato. I loro tramonti. Ma anche i suoi.[5]
Non s’aspettava un parco, e che cavolo!
Aveva detto sulla strada per Versailles, mica una reggia!
Ma che…
Si addentra nella tenuta, perplesso. Con la curiosa e battagliera sensazione che forse sta facendo un errore. Che sarebbe meglio non aver mai fatto quella strada e che almeno la vista della proprietà dovrebbe scoraggiarlo e convincerlo a desistere. In fondo, perché dovrebbe voler incontrare, al di fuori delle loro serate, quella strana ragazza. E poi, si conoscono da pochi mesi, anche se ormai…
Invece no. Affretta il passo, testardo vecchio mulo.
Decide che l’ingresso principale è al di fuori della sua portata e ha la fortuna di trovare quello sul retro.
La cucina che lo accoglie è calda, sui toni dell’azzurro. Stoviglie di rame. E una vecchia signora e qualche ragazza sono al lavoro e ora lo scrutano perplesse, incerte perché non lo rinvengono né nell’elenco dei fornitori, né degli amici, né degli ospiti, che, peraltro, di solito non entrano da lì…
La vecchia signora si fa incontro, l’aria di chi detiene il potere, lì dentro. Si aggiusta gli occhiali sul naso. “Desiderate?”
“Oscar…”
Lo scruta.
“Madamigella Oscar”, lo corregge. “Si sta allenando.” Lo guarda meglio, mentre lui si domanda se riuscirà a passare l’esame… “Quello zotico di André ha fatto tardi anche oggi, la moglie è stata male, stanotte, e lei detesta perdere tempo…” si lamenta, chiosando, come se lui fosse a parte della loro vita e conoscesse i meccanismi, quelli di sempre, e quelli recenti. “Così si allena…”
Si allena? Zotico André? E chi sarebbe…
“Voi potete…”
“Vado a chiamarla”, si decide la donna e, con passo insospettabilmente efficace, lo precede.
Le cameriere, rimaste sole, approfittano immediatamente, eccitatissime. “Avete visto che bel ragazzo?!”
“Oddio…”
“Sempre fortunata, madamigella Oscar… eh…”
“Perché, vorresti essere al suo posto?” Una voce più dura, segnata dalla vita.
Il brusio cessa.
“No…”
“Neanche io” si unisce un’altra voce…
“Aspettatemi qui”, lo lascia davanti alle scale principali.
La guarda incamminarsi, poi perdersi nel verde di settembre. Perplesso. Curioso di dove andrà a parare quella storia. Lancia un’occhiata a comprendere il parco attorno a sé. La fontana. E sente la leggerezza, nell’aria, in quell’immenso e avvolgente stormire di fronde ancora verdi, di cinguettii lontani e alti.
Però… che casa…
“Oscar… hai visite…” annuncia compiaciuta.[6]
Nanny è venuta a cercarla fino allo spiazzo in cui lei si sta metodicamente allenando, disperando di riuscire a contenere il suo eccesso di energie. Si ferma a guardarla, asciugandosi il sudore, la spada abbandonata in mano. Ha un’espressione divertita. “C’è un bel ragazzo che ti cerca…”
Aggrotta le sopracciglia. “Me?” Bel ragazzo?
L’ha vista sempre e solo di notte. E si era abituato a pensare a lei come un essere oscuro e diafano. E, invece, quella mattina, lei è abbagliante, coi capelli che le incorniciano il viso, la rendono più bella, la illuminano, la camicia ampia, i pantaloni bianchi che la fasciano, mentre, noncurante, si copre le spalle con la giacca.
Rimane lì, a fissarla, senza riuscire a connettere. Ma… è lei?
“Ti lascio sola, Oscar…” e si eclissa, il passo felpato da cospiratrice. Idiota di un nipote!
L’erba si piega, sotto i passi. Fa fresco, sotto gli alberi.
“Che ci fai, qui…”
è sorpresa, non lo nega, di questa irruzione nel suo mondo.
Lui la guarda, nel gioco di ombra disegnato dai rami, mentre lame di luce la illuminano, e gli sembra bellissima.
“Niente…” si ferma. “Avevo voglia di vederti…”
è disarmante, sentirselo dire. Potrebbe essere peggio, in fondo.
“è il tuo giorno libero”, cambia velocemente discorso lei.
“Già…”
“Io, invece, sto aspettando il mio attendente, poi devo andare…” fa, cercando di mantenere un tono neutrale.
Attendente? Perché ha dato più calore a quella parola così apparentemente fredda e distante? Qualcosa lo allarma. Perché, cosa gli importa… non è questa la piega che deve prendere…
Sente tutta la stanchezza dell’insonnia sulla schiena. Gli occhi bruciano, come i muscoli alla base del collo. Ormai è quasi tutte le notti così, da troppo tempo. Lei sembra stare meglio, poi peggiora, come se il corpo si rifiutasse di portarla avanti. è preoccupato, perché la vede sempre più stanca, che cerca di nasconderlo ma non si sente davvero bene. Il loro medico dice che è tutto normale. Lui non se ne intende, certo, ma normale non gli sembra. E così, la notte, veglia con lei. Non può fare altro.
Lascia il cavallo e prepara velocemente quello di Oscar. Lo cura sempre lui, ma oggi ha fatto davvero tardi.
La mancanza di sonno gli mette lo stomaco sottosopra, considera, mentre controlla la sella. E pensare ad Oscar gli fa saltare il cuore in gola. Sempre. Anche ora. Ora che non dovrebbe.
Accarezza il muso del cavallo. Andiamo a cercarla, si dice.
Non gli sembra neanche Oscar, quella figura che si lascia toccare, quella spalla scoperta, quel seno su cui quell’altro si preme avido, mentre le mani sembrano ovunque, su di lei.
Si ferma, gelato. Gli ronzano le orecchie, sembra quasi di non vedere più. Non vorrebbe far rumore, ma non sa se è per fermarli, per far cessare quei gesti, quell’affronto, che i suoi passi sembrano rimbombare sordi, sull’erba. E lei si accorge di lui.
L’ha raggiunto nelle scuderie. Subito. Mentre a lui pare un’infinità, il tempo che ci ha messo – e un’assurdità pensare cosa abbia fatto nel frattempo –. Non sa cosa fare. Né cosa dire. Se parlare.
Non riesce a guardarla in faccia, teme quell’espressione intensa, i colori accesi, gli occhi lucidi che anche lui ha visto.
Anche… anche… anche… quell’idea lo rende pazzo. Sebbene sappia che non avrebbe dovuto aspettarsi altro.
È una giornata penosa e triste, quella, tra di loro, a cercare di evitare gli sguardi, i contatti, cercare di non parlare per non ferirsi.
È il tramonto, quando rientrano. Stanchi, distrutti. Sembrano piegati.
Ma non torna da Christine, quella sera, André. È lei che segue. È lei che vuole.
Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, pubblicazione sul sito Little Corner dicembre 2006
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Continua
Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] Grazie alle ragazze per le opinioni in merito agli aggettivi. ^_-;
[2] Grazie ad Alessandra per avermi aiutato a sciogliere il dubbio.
[3] Grazie ad Alessandra per il suggerimento sul termine “abbandono”. M’ha passato, santa donna, un campionario di termini sommamente utili…
[4] 3-5-11-2006.
[5] 5-11-06.
[6] Grazie ad Alessandra per il suggerimento sull’aggettivo.