Christine

Parte VI

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

Fa tenerezza, André. Vederlo per la prima volta sentirsi davvero padrone in casa propria. Aggirarsi per le stanze senza soffermarsi dietro la porta, ad attendere il momento più opportuno, per non disturbare; muovere i passi con la sicurezza che quella è la sua casa, non l’alloggio provvisorio di un attendente. Che potrà sedersi al suo posto, a tavola, senza dover fuggire via cancellando le tracce ogni volta che i padroni arrivano. Che potrà decidere cosa vuole per cena, usare quello che crede, spostare un oggetto, valutare dove mettere una poltrona, se verso il camino, per leggere al caldo, se verso gli scaffali, per prendere comodamente un libro. Si dice, Oscar, che questo lei non glielo ha mai offerto. Né ha mai capito lui lo desiderasse. E che il prezzo fosse scoparsi un’altra. L’erede di casa Jarjayes vive nel palazzetto avito, non va certo a mettere su una piccola casa calda e accogliente, quasi qualcosa di lievemente peggio del due cuori e una capanna che le torce ora le viscere e le provocherà un’ulcera d’amore e disperazione. Una casa banale, una coppia banale, una vita banale. Che lei non ha mai neppure saputo immaginare. E che lui cercava… dio, come siamo distanti…

Davvero, non conosceva questo aspetto di lui. Quanto è arrivata a dare per scontato, di lui, di loro, tra di loro, in questi anni, si domanda. E la risposta sono forse le mille possibilità uccise di giorno in giorno. Le scelte neanche fatte, semplicemente, attuate per un disegno già scritto. Della vita di lei, e anche di lui. Che si è ribellato. Che ne è uscito. E ora è la dimostrazione che, al di fuori dei percorsi obbligati, tracciati nel breve tratto di via tra palazzo Jarjayes e Versailles, esiste una vita che lei neppure immaginava. Che i grand-tour riempiono gli occhi di opere d’arte, bellezze architettoniche, paesaggi lontani, ma non servono a niente, se le prospettive non cambiano.[1]

E così lo osserva abbracciare orgoglioso con lo sguardo il piccolo giardino che Christine ha messo su, tra piantine e spezie, e in cui lei regna sovrana, accudendo ognuno di quei vasi come un piccolo tesoro, proteggendolo quando il freddo arriva o quando il sole batte forte e risistemando paziente ogni volta che i gatti che nutre smontano, con somma perizia e un pizzico di fantasia, recipienti, terra, semi. Visioni diverse dell’arte, quella umana, quella felina. La disposizione ragionata dei vasi e delle piante, la destrutturazione metodica delle zolle di terra. Un piccolo spazio che niente ha a che vedere col parco della sua villa, meraviglioso, ma che sa mostrare il cuore della persona che lo cura.

Christine ha un cuore grande e la luce negli occhi. Si domanda, a volte, Oscar, come sia stata da bambina e sente qualcosa che somiglia ad una mancanza, a non averla conosciuta all’epoca. Sarebbe stato diverso? André non si sarebbe mai innamorato di lei? Che importa, ora…

È una pena sopportare – o imporsi, si domanda - guardarlo aiutare lei a sistemare qualche mobile, felici, accoccolati per terra in una distesa caotica di assicelle e chiodi su un chiassoso tappeto che condividono col nugolo di gatti pisolanti.

“Certo che di falegnameria non ne capisci proprio, eh…” fa lei, scuotendo la testa in uno sbuffo scherzoso. “Da’ qua” e gli sottrae il martello di mano.[2]

Lui prima divertito, poi ammirato, poi decisamente invidioso, la osserva creare dal niente quella forma, come una magia. “Dai, stai barando, manca sicuramente qualche pezzo…”

“No, caro, sei tu che non guardi le istruzioni”, e gli sventola sotto il naso il foglio che il falegname aveva accuratamente predisposto, temendo appunto quello che poi è successo.

“Ma Oscar”, si volta verso di lei, che, le gambe incrociate, appoggiata alla finestra, si gode la scena, fino a farsi troppo del male. Ha bisogno di quel calore, di quel piccolo soggiorno pieno di allegria, per non sentirsi troppo sola, la sera, quando torna a casa. Ha bisogno di convincersi che lui può stare bene anche senza di lei, che l’ha lasciato in ottime mani. Anche troppo ottime mani…

“Scusami…” persa dietro i propri pensieri, non ha sentito le ultime parole di Christine. “Mi ero distratta…”

è un po’ imbranato, il nostro André”, fa Christine, mentre da dietro gli cinge il collo, avvolgendolo in una nuvola di capelli.

Oscar un po’ arrossisce, un po’ sente un tuffo al cuore, per il gesto, e un po’ si sente punta sul vivo, perché nessuno deve permettersi di dargli dell’imbranato: “Ma no, non è imbranato”, e non può nascondere l’affetto che le fa vibrare la voce, “è solo innamorato…” e si fa male da sola, nel pronunciare quelle parole, perché niente è più vero, ma l’amore prende molte strade. Lei lo sa. E non vorrebbe aprire questa verità diversa anche a Christine, così bella, così viva, che sembra passare indenne sui mali del mondo.

 

C’è un cielo carico di luminosità trattenuta. E si riverbera su tutto. Non riesce neanche a piovere.

Le piacciono questi colori che paiono stati dell’animo.[3]

 

E’ sera tardi. Sola, sul divano davanti al caminetto, si lascia andare ad ipotesi che non s’è mai concessa. Mai ha osato pensare a cambiamenti per quella stanza, neanche per le sue stanze… sono così, gliele hanno passate, consegnate[4] così, come fossero immutabili. Ora, invece, immagina di spostare la disposizione degli spazi, degli occupanti, delle destinazioni… una casa diversa… e si scopre a considerare di non saper bene come organizzarla, una casa intera. E che, forse, ne vorrebbe una sua. Si sente misera, improvvisamente. Si rende conto che per tutta la vita non ha fatto altro che allinearsi a situazioni già costruite, senza dare di suo. Tutto quello che sa, che sa fare, non vale niente, di fronte alla consapevolezza di questa mancanza.

 

Si domanda perché non abbia mai pensato, prima di quel momento, ad una casa sua…

 

Ormai, se la giornata sia nera o s’illumini, comincia a dipendere da piccoli particolari come uno sguardo di lui, il numero, e la qualità. delle parole scambiate, un gesto d’affetto.

È così che ha imparato ad apprezzare ogni cosa, ogni momento con lui. Ad adattarsi a quello che ha - ed è una caratteristica che saprà conservare anche in seguito, quando la situazione sarà diversa -. Dopo quella notte, è come se avesse pensato di poter percorrere, in parallelo, un sentiero accanto a lui. Per non lasciarlo solo. Per non sentirsi sola. Qualcosa di simile a quello che era stato lui, per anni.

Il condividere il pensiero di amarsi, in qualche modo. Di poter essere l’uno una sorta di sostegno per l’altro, nonostante tutto. Di sapere, di intuire, di scandagliare, quella conoscenza che è data a pochi, e che non si può risolvere nel banale ‘ti conosco’, ma riesce a porsi come un livello ulteriore, quando una luce diversa negli occhi, il gesto nervoso o abituale di una mano, il modo di camminare bastano, per l’altro, a trasmettere qualcosa che è difficile dire e che non tutti riescono a comprendere, anche solo a percepire.

Sente che qualcosa resta, comunque. Che quello che si sono detti aveva una parte di verità. Che lui, in qualche modo, la ama. Continua ad amarla.

Forse è un’illusione. Ma qualcosa le dice che non è così.

 

Ha l’aria sconvolta. Incredula.

La osserva e si rende conto che non ha avuto ancora il tempo di metabolizzare la notizia. E si sente terribilmente di troppo, senza sapere come andarsene senza imbarazzi per una fuga precipitosa, ad assistere a quel momento. In cui dovrebbero poter rimanere soli ad assorbire l’urto. E invece c’è lei…

“E adesso…”

André non ha parlato, è rimasto in silenzio.

Si siede, Christine, e serra le braccia contro di sé.

“Continuerò con la libreria… certo, mi dispiace… ci tenevo… però…” è la prima a tentare di farsi forza. Come se temesse, in qualche modo, che non saranno gli altri a farlo per lei. Non casca il mondo se ti tolgono il lavoro perché ti sposi. Poi, era una collaborazione, il lavoro principale restava comunque il negozio. Però fa male. Fa indignare. Dà la misura dell’ingiustizia che deve subire chi non ha nessuno dietro le spalle. E, in generale, una donna.

Gli altri due non osano dire niente.

Oscar riflette, muta e rattristata. Perché ora sa che Christine segue il negozio, ma lo fa malvolentieri e in totale contrasto col padre. Ora comprende meglio la sua scelta di cercare un’alternativa. Certo, non si troverà in mezzo ad una strada e, coi tempi che corrono, è già qualcosa. Ma la delusione, il senso di inutilità, la frustrazione ad essere emarginati così per il solo fatto di essere donne – e per di più da parte di un giornale rivolto al progresso femminile -, sono qualcosa che la fa star male.

Ripensa a quanto ne fu sorpresa, quando glielo confessò, rendendosi conto solo dopo che, in fondo, suo padre con lei aveva fatto qualcosa di simile: “Mio padre sembra una persona aperta, all’esterno. Chi lo conosce lo considera così.” La voce con un accento di tristezza. “E non escludo che sia così. Probabilmente è solo con me”, aveva cercato di spiegare quella strana situazione per cui il padre l’aveva voluta a lavorare nella sua attività, ma, poi, non le aveva lasciato nessuno spazio e aveva sempre cercato di relegarla a mansioni subalterne.

“Può darsi siano sbagli che un genitore fa in buona fede, sperando di essere nel giusto… spero non mi capiti mai di essere io così ingiusta…”[5]

E Oscar aveva provato compassione, e, insieme, una punta di paura, a quelle parole.

“Spero mi capiti di incontrare queste persone…” André, dopo aver ascoltato, sembra riemergere da una lunga ponderazione silenziosa. “In fondo, è un mondo molto piccolo…”

E strappa un sorriso di orgoglio a sua moglie. Mentre Oscar, nonostante tutto, la invidia.

 

Non è male, anzi, sarebbe bello, se non fosse per quella ferita del cuore, passare un po’ di tempo, sola, con sua madre. A volte la vorrebbe tutta per sé. Non riesce ad essere completamente serena, anche se è contenta, e cammina accanto a lei, sbirciandola, orgogliosa, bella e fiera, mentre le fa strada al Café Procope.

Siedono appartate. Gli aromi si confondono alle essenze, ai ricordi dei tessuti. Fuori, vite scorrono.

Osserva sua madre guardarsi intorno, incuriosita. Non frequenta spesso quell’ambiente eterogeneo. La corte dai colori pastello sembra estranea e lontana, lì, tra gente ambiziosa di qualcosa di diverso, gente nuova. Un mondo diverso.

Se la prende comoda. Non vuole avere fretta, oggi. Preferisce godersi ogni singolo attimo. Eccezionalmente, sua madre è per lei, e non vuole passi in fretta.

E, così, osserva le mani curate, gli occhi mobili, azzurri come i suoi, i capelli più scuri, non solo per età. La ascolta parlare, determinata come sempre. Assertiva, nel suo dubitare.

Tea, cioccolato, caffè… oggi non importa, oggi è lei che conta.

Ama ascoltarla parlare. Argomentare. Ama quando sua madre si interessa alle sue idee e s’illumina alle sue opinioni, senza apparentemente rendersi conto di quanto nascano dalle sue.

Eppure, resta rigida, quando la mano copre la sua, in un gesto affettuoso, distoglie gli occhi e la voce muore sospesa. L’amore è difficile da dimostrare. Forse la lezione di André non le è bastata, dopotutto, riflette, domandandosi, già rattristata, quando capiterà, ancora, se, perché sua madre ha capito, e, rassegnata, è rientrata nei ranghi.

“Tutto normale, con André…” giusto un sorriso, nel suo tono interlocutorio.

La guarda sconcertata. “In… in che senso”, quasi di furia, sottraendo alla vista le mani, improvvisamente gelate. Poi, subito, come temesse una risposta “Come dovrebbe andare…” perché parlare di lui?

“Non mi pare che la cosa sia chiusa…”

“Più che chiusa, finita…” obietta, mentre vaga con lo sguardo, cercando un pretesto per svicolare. Potrebbe andare ad ordinare, ecco, quando…

Ma è una persecuzione!, pensa, mentre le mani urtano, fuori controllo, il piccolo candeliere, che rotola giù.

Non c’è neppure il tempo di pensare a come sfuggire, che i loro sguardi si sono incontrati. Un cenno, un sorriso. Eccola.

“Ma che sorpresa”, incombe sul tavolo. “Che ci fai, qui?”

“Ciao”, le fa posto, alzandosi.

“Oscar, avanti… siamo tra donne, non c’è bisogno tu sia così formale…” scherza la madre.

“Madame…”

 

Le ha lasciate sole, pochi scambi sono stati sufficienti, già non ne poteva più di stare tra due fuochi, sentire sua madre domandare “Come sta il nostro André” e la di lui legittima consorte rispondere, aerea, celestiale, che è a casa a sistemare le loro cose… no, questo no. Meglio sparire, defilarsi, a fare il cavaliere della situazione e cercare qualcuno a cui passare l’ordinazione.

 

Eccole, ancora immerse nella conversazione. “E i figli?” e vorrebbe strangolare sua madre, che, quando ci si mette, è una vera carogna.

“No, no…”, poggia la tazza sul piattino.

“No?” con tanto d’occhi. Deve ammetterlo, la mamma è commediante consumata, quando vuole indagare.

“No. Stiamo bene così, vogliamo goderci un po’ il nostro tempo…”

Oscar si agita, a disagio tra le due.

“In fondo”, riprende Christine, “per una famiglia nobile è diverso… ci sono il titolo, il patrimonio da trasmettere… è normale avere numerosi figli…”

“Certamente…” Madame ha dato molto, alla causa.

“Ma per dei borghesi la norma è uno, massimo due. Non ci si può permettere di mantenerne di più…” fa notare lei, mentre Oscar sente le budella contorcersi a quell’uno, due, anzi, per lei, sarebbe meglio zero, e basta, basta, silenzio, il nulla, il vuoto… ridatemi solo André com’era prima e al diavolo il resto!

“Anche questo è vero…”

Oscar guarda fuori. Non lo fa neppure ostentatamente, ha solo cercato un’alternativa a quei discorsi da donne che la fanno star male e mai come in questi casi ringrazia la sua situazione, quello che è – e quello che non sarà mai.

 

“Purtroppo temo che la situazione non migliorerà…” sta dicendo ora sua madre. “Se andrà bene, le prossime generazioni di uomini potranno votare per censo. Se andrà bene”, sottolinea. “Ma temo che per le donne dovranno passare ancora secoli…”

“Già… che vergogna…” fa eco Christine.

Mentre Oscar tace.

Non che non gliene freghi qualcosa, in linea teorica. Anzi. Solo, spera che il tempo passi veloce, mentre le voci corrono ovattate, neanche poi troppo, in sottofondo e il cielo si fa scuro.

 

“Come mai ha parlato di ex colleghi?”, la interroga sua madre, nel profondo ovattato della carrozza.

Si riscuote dal torpore. S’era avvolta nel mantello, abbandonata sul sedile scomodo, la testa reclinata all’indietro. Vorrebbe solo un bel bagno caldo e il cuore vuoto.

Non ha voglia di rispondere.

“Quando si è sposata le hanno tolto l’incarico al giornale… fortuna che c’è la libreria…” si costringe ad articolare, commento compreso, sperando che sia sufficiente e non ci sia altro da aggiungere.

“…”

 

“Certo, è molto carina…”

Ma quanto diavolo dura la strada fino a casa, si domanda, scornata.

“No?” insiste sua madre.

“A me sembra bella…”

“Diciamo che André ha buon gusto…” la stuzzica la genitrice, mentre lei si domanda perché tutti i discorsi debbano, immancabilmente, portare a lui. Sperava in qualche ora di quiete, sola con lei, e invece… in questo momento desidererebbe soltanto poter stare da sola. Immersa nell’acqua e nel silenzio. E, dopo, nel buio. Sprofondare nell’oblio, dimenticare tutto. Lui. Tutto.

Poi, è un attimo. Sente l’abbraccio di sua madre attrarla a sé. E non sfugge. Si abbandona, contro di lei, lasciando andare tutto quanto.

Resta lì, sua madre, ad accarezzarle un po’ i capelli, piano, in silenzio. Una consolazione muta.

Ci pensa, a volte, Madame, che è colpa sua. Colpa sua se Oscar è quella che è e si chiama così e non Françoise e basta.

Perché è stata lei a porre un freno al marito, a dirgli che non si sarebbe più prestata, basta tentativi, li risolvesse in un altro modo, i suoi problemi. Era stato così, che la sesta era diventata Oscar. Per liberarla. E perché fosse libera. Un equo scambio. Donare una remota opportunità di vita diversa e senza padroni alla figlia che era strumento, infine, della sua libertà. In fondo, aveva sempre pensato che a quella figlia avrebbe regalato più possibilità che alle altre. Una cultura più approfondita, la possibilità di un incarico, di vivere in prima persona; in ultima analisi, la libertà. Oscar era stata il suo esperimento.

E André era stato l’altro. Metterglielo accanto. Crescerlo secondo principi moderni. Fare di lui il perfetto alter ego di lei. Perché, un giorno, ci fosse un uomo adatto ad Oscar. Che non la trovasse strana. Che la comprendesse. Che la rispettasse. Che non le chiedesse di cambiare.

Alla fine, ripensa, erano stati un fallimento. Oscar non aveva mai osato guardare André, per timore di scontentare chi da lei s’aspettava altro. E André aveva mollato, almeno così pareva… poveri ragazzi, in che casino li aveva ficcati.

Resta a lungo, in silenzio, come a proteggerla. Le dita che piano cullano i riccioli.

E solo dopo, lentamente, a bassa voce, “Ti ama, lo sai…” lo sai anche tu… e lei resta lì, che non sa cosa rispondere, abbandonata in quell’abbraccio strano, e finge di dormire, ma pensa che, sì, è vero, ma conta davvero poco, in questo momento.

 

Non riesce a toglierselo dalla testa. Figuriamoci dal cuore.

L’immagine viva delle sue dita attorno al boccale di birra. Le gocce sul vetro, la schiuma. Gli occhi di lui, chiusi, pacifici, mentre beveva, tornare poi ardenti e tristi, mentre appoggiava il recipiente sulle assi del vecchio tavolo. Legno, nodi, imperfezioni, la sua pelle chiara, le dita. Il polso, risalire indietro, intuire la pelle sotto la stoffa. Basta… scuote la testa. Basta! Si impone.

Sembra più bello, sembra quasi splendere. Nel ricordo di quella serata insieme, a stare lì, con lei, per scelta e non per dovere, e non con sua moglie. E, purtroppo, anche a stargli accanto.

Ha rubato occhiate di lui, immagini, visioni fugaci tutta la sera. Ogni gesto. Parola. Movimento. Perfino la mano che si è portato al viso, riflettendo, massaggiandosi la barba rasata, e poi sotto il mento – argh, posa plastica da uccidermi, ricorda di aver annotato, lei -, e quell’indice a sottolineare, in un gesto pensoso, il naso, la fronte, tra i capelli. Si è odiata, Oscar, eppure non può fare a meno di stargli vicino. Più onestamente che può. Il che non significa del tutto. Si odia per averlo lasciato andare, per non aver saputo comunicare, per non sapere approfittare delle occasioni. Si odia perché in fondo è onesta. E lo è anche lui. Poi, il livello di quell’in fondo, quanto in fondo, resta da stabilire – e, probabilmente, dipende ampiamente dalla personale visione delle cose.

Poi, l’ha visto alzarsi. È finita, ha pensato. È finita un’altra volta. L’ha seguito, finché ha potuto, rincorrendo i suoi silenzi, le sue parole. Fino a che non è rimasta lì, a guardarlo andare via, e ha pensato che, fino a poco prima – e quel prima si faceva sempre più distante -, erano state poche le volte in cui l’aveva visto allontanarsi solo. Senza di lei.

Eppure, quelle volte, ora, stavano diventando infinite.[6]

 

L’ha accompagnata fino alle stalle. E lei si domanda se sia l’abitudine dura a morire o qualcos’altro. A volte le impressioni contrastano. E la razionalità soffoca l’istinto.

È così difficile allontanarsi volontariamente da lui che quasi le si spacca il cuore. Dal dolore. Dalla desolazione. Per sé, lui, tutti loro. Eppure, tocca a lei non fare il primo passo. Oggi no, oggi no. Quasi si abbandona contro il legno, che ancora trattiene un ricordo del calore del tramonto. E lo sente, attraverso la stoffa, insieme al gelo che, piano, la circonda. Gelo e buio. E tristezza. Solitudine. Voglia di piangere, senza riuscirci.

Ma è giusto un attimo.

Una mano, calda, sulla spalla.

Un gesto affettuoso a scostarle i riccioli.

Il cuore si ferma.

E lui è lì, fermo, accanto a lei.

Un bacio sui capelli. E lei trasale.

“Buonanotte, Oscar…”

E, dolce, un sorriso triste e luminoso insieme, gli occhi che brillano, fugge via, un gesto della mano, il suo saluto. Solo per lei.[7]

 

Dita fredde e dolci scivolano sul suo viso.

Una presenza nota.

Sa quanto è forte, ma le sue mani si muovono delicate. Sempre.

Ha sentito il rumore, alle sue spalle, ma non s’è nemmeno girata a guardare. Tanto…

Tanto non s’aspetta niente, per il suo compleanno. La mattina è stata grigia di neve. Nessuno che poteva muoversi. E, ora che il sole è tramontato, di sicuro nessuno oserà quello che non aveva osato di giorno.

E così se ne sta lì, sola, davanti al camino, ad aspettare la sera per bere, con l’ennesima tazza fumante di tea, che non riesce neanche ad ammettere di essere scornata, tanto quel compleanno, con annesso Natale, le è piovuto addosso ingrato. O, forse, si dice, è lei l’ingrata. Potrebbe andare peggio… in fondo, ha la soddisfazione di essere due anni più giovane dell’altra.

E, invece, quando non se l’aspettava più, ha sentito il fresco della sua pelle giusto accanto alla sua, poco dietro il viso. E il suo respiro.

Prima ancora della sua voce.

Non ci credeva. Ha ancora le chiavi, s’è sorpresa ad articolare. Per forza, s’è detta poi, lavora ancora qui.

“Buon compleanno, bionda”, le ha detto, scherzando, mentre, infreddolito, sgattaiola a sedere accanto a lei, fregandole metà della coperta. E lei si domanda perché non si sia comportato così, prima. Ma, forse, riflette, è che ora si sente al sicuro, protetto. O, forse, è disperato quanto lei – uno squarcio acido di speranza subito represso.

“Ehi, sposino, che ci fai qui”, si è voltata ad osservarlo in tralice. Sorpresa. Piacevolmente. Incuriosita.

E quella morsa di nausea che le contorce lo stomaco, ogni volta che pensa a lui, a lei.

Mentre lui, come un enorme gatto, si è impadronito del plaid blu e cerca di scaldarsi.

“Si gela, là fuori…”

Lo annusa, mentre se lo preme contro, in un gesto che potrebbe passare per la metafora di qualcos’altro, e Oscar, scornata e intenerita, nota un’altra assurda abitudine che ha preso dalla moglie.

“Ha il tuo odore…” constata, e se lo stringe di più addosso.

Perplessa.

È un attimo. “Cos’hai, lì”, e le sfila dalle mani la tazza, a cui, fino ad un attimo prima, era stata aggrappata, modello scaldino. Soddisfatto, si impossessa anche di quella e ora la stringe, lui, tra le mani e, noncurante, posa le labbra dove erano le sue.

Non osa dire.

Sa solo restare lì, impaurita di qualsiasi parola o gesto possa rompere quel minimo istante.

E pensa che dev’essere matto, a venire lì, a provocarla, quando lei non sa decidersi se preferirebbe stringerselo contro, e riscaldarlo sotto i suoi vestiti.[8] O scoparselo – una sana scopata non guasta mai. Soprattutto, col freddo, aiuta a scaldarsi. E si allarma profondamente quando scopre questi pensieri in libertà da assolutamente sobria -. O coccolarlo, magari si mette a fare le fusa – ce lo vede.

E chissà dove l’ha lasciata. E quasi si odia, per la rara capacità di rovinarsi anche uno straccio di momento buono. Ma non ha il tempo di odiarsi e neppure di domandarselo o di esporre a lui il quesito. Le si è rannicchiato contro, per bene. “Che freddo…” La tazza per terra. E lei lì, rigida come un palo, che quasi riesce solo a pensare addio al tea... E, come se non bastasse, ora le ha appoggiato la testa sulla spalla, dolcissimo, l’espressione beata di chi è in pace col mondo.

La pace, invece, per Oscar sembra dura meta da conquistare. Si domanda se lui si renda minimamente conto dell’effetto che può sortire su di lei. La vicinanza. Il contatto. Lui. Il suo odore. Il suo peso contro. La sua presenza. Tutto.

Sbircia il viso, dolce. “Non dovevi uscire, con questo tempo…” Una mano osa, timida, scorrere una carezza tra i capelli.

Lui gliela conquista, e se la passa attorno alle spalle. Sornione. Soddisfatto.

Molla la presa solo quando, dopo un po’, le scivola in grembo. “Resta con me…”

E riconquista la mano, di nuovo. In un sorriso.

E chi si muove, pensa lei.

 

“Ero venuto a portarti il regalo di compleanno…” Si strofina gli occhi. È tardissimo.

Il fuoco è spento, ormai. Lei non s’è mossa, a ravvivarlo. Non ha osato.

Lo guarda, che s’è appena svegliato, e deve averla presa per un cuscino alquanto scomodo. “Saresti tu il regalo…” Gli sorride. Lo squadra perplessa.

“E tu che dici…”

“Non mi lamento…” dopo un’occhiata di apprezzamento.

Nota sulla spalla un pelo di gatto. Sorride, un po’, pensando ai nugolo di fortunati felini. Lo allontana, un gesto lieve.

Che si guadagna uno sguardo sorpreso. Forse speranzoso.

“Pelo di gatto…”, spiega.

“Peccato”, fa lui, deluso.

“Fai la persona seria…”

Disarmante. “Mai stato più serio.”

Si solleva a sedere. Un braccio troppo vicino alle sue gambe. E uno sguardo troppo intenso. Che si affretta a distogliere. Perché è matto, sì, ma non pazzo.

“Tieni.” Fogli tenuti insieme da un nastro.

Li spiega, mentre lui si alza.

Resta lì, senza le parole, le dita a scorrere gli accordi.

“Sono appena usciti…” le fa. “Trascrizione per piano…”, spiega, prendendole dalle mani le pagine, “e, vedi?, per violino.” Sorride, speranzoso. Timido.[9]

“Grazie… sono bellissimi…” e si ferma, perché la voce trema. Troppo.

“Li avevi già…” s’informa.

“No, no…” si affretta. Scuote la testa. I riccioli danzano.

 

“Ti prego, fammela ascoltare…” la guarda, scoperto. “Lo sai, la adoro…” un’occhiata disperante. Come si fa a dire di no, si domanda.

 

Chiusi, gli occhi. Le mani tra i capelli, sciolti.

A lasciarsi trasportare da quella musica infinita. Immensa. Come solo dal vivo sa essere. Come solo lei, pensa, sa suonare.

E sta lì, rapito, perso. Completamente trasportato dalla musica di lei.

Poi, quando ha finito, “Ti prego, ricomincia…”

 

E sedersi, accanto a lei, le dita che, timide, sfiorerebbero i tasti. Ma resta lì, desolato, un po’ triste. Abituato a trattenersi.

Ma lei gli prende la mano, dolce, e la poggia sui tasti bianchi d’avorio, un piccolo segno d’usura tra le due parti, come un’incrinatura, per troppo uso. Sorride al pensiero. E un dolore, dentro, sordo, insieme a quell’apertura verso di lui. Che si ritrae. In un sorriso timido, come a dire che, no, non è roba per lui. Eppure, eppure… sono suoi gli occhi che brillano. Sua la voce che pare vibrare, alla musica. Ma la vita è un’altra.

 

Lo guarda andare via nella notte. I capelli scompigliati. Il corpo che arde doloroso. Stringe gli occhi, ad osservarlo farsi sempre più lontano. Voltarsi a salutarla, ancora. Fino a non distinguere più la macchia pallida del viso. Poi, quella del mantello.

Si guarda le mani. Poi, il plaid, abbandonato davanti al camino.

Si china a raccoglierlo.

Adesso ha il tuo odore, pensa.

 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-luglio 2006, pubblicazione sul sito Little Corner luglio 2006

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Grazie ad Alessandra, Elisa, Luana, Sydreana per i suggerimenti sui miei dubbi. Alla fine ho trovato la forma che mi convinceva.

[2] Ho sempre pensato che, quando André sostiene con Alain di essere figlio di un falegname, l’abbia fatto per depistarlo. Probabilmente, essendo lui un tipo ironico e autoironico, giustificava così il fatto di non poter più fare un lavoro, quello paterno, in cui occorresse il senso della profondità (come se per sparare o combattere non occorresse…) e l’ascendenza evangelica del “babbo falegname” lo divertiva. Probabilmente era anche un rimando alla nascita di Oscar, dal proprio punto di vista. Inoltre ho sempre pensato fosse una risposta degli sceneggiatori al 25 dicembre come data di nascita imposta dalla Ikeda ad Oscar: loro avranno pensato di fare un personale richiamo a Gesù attraverso san Giuseppe, mi sono detta. Il tutto, ovviamente, per come queste cose possono essere viste all’estero, un po’ come i giapponesi avevano ritratto Parigi senza considerare i cambiamenti architettonici intervenuti nell’Ottocento o, anche, usato Bach come colonna sonora senza considerare che divenne famoso solo parecchio più tardi; alla stessa maniera, ho pensato, avranno fatto questa citazione – e così la Ikeda – per un mero valore “simbolico” e senza considerare che è accertato che la datazione della nascita collegata alle varie figure che si concentrano in capo al personaggio di Gesù è diversa, sia come mese sia come anno, e che molto di quanto viene trasmesso a livello di credenza religiosa popolare è diverso da quanto storicamente accertato nelle fonti ed ha origine tarda, spesso, per di più, legata a pratiche devozionali che si è voluto introdurre presso la popolazione solo in progresso di tempo e, in alcuni casi, anche piuttosto recentemente.

[3] Appunto su sms del 23-5-06.

[4] Grazie ad Elisa per avermi aiutato a sciogliere il dubbio tra passate, consegnate e destinate, che avevano implicazioni, come lei ha intuito, diverse.

[5] Grazie a Luana.

[6] Da appunto sms 16-6-2006 trascritto ed ampliato il I-7-2006.

[7] Da appunto sms 19-6-2006 trascritto ed ampliato il I-7-2006.

[8] Omaggio a COCCIANTE, Ti amo ancora di più, da Istantanea Tour 1998, una delle mie favorite.

[9] Ho scelto di riprendere da Maria Assunta, At my own Risk, l’idea di Oscar che suona entrambi gli strumenti. Mi è piaciuta moltissimo.