Christine
Parte V
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
Era notte, ormai. Uscì a cercarlo. André era in giardino, seduto sul bordo della fontana, di spalle. Lo raggiunse. Guardava lontano. Si abbassò verso di lui, mettendogli le mani sulle spalle, appoggiandosi a lui. Strano come, proprio ora, avvicinarsi a lui le risultasse meno difficile… I capelli gli sfioravano il viso.
"Non vai a dormire?" Era vicinissima a lui. Si concesse il lusso di guardarlo, a lungo.
Lui ebbe un sorriso leggero: "No…"
Gli strinse le braccia, in un gesto affettuoso, avvicinando il viso al suo. "Lo sposo non può presentarsi con le occhiaie, domani…", lo prese in giro. "Penseranno a male…"
Lui si alzò, voltandosi verso di lei. La prese per le braccia. La guardava negli occhi.
Rimase così a lungo. Come se qualcosa stesse macerando, dentro di lui.
Lei, sospesa. Incatenata al suo sguardo, al suo viso.
"Sto facendo un errore enorme…"
Oscar non sapeva come sostenere quello sguardo.
"Dimmi di non farlo…"
“Io ti amo…” Un’espressione disperata. La stretta più febbrile. Calda.
Oscar abbassò gli occhi. "Non posso."
"Lo so…", le lasciò le braccia. "Scusami…" Respirava lentamente. "Oscar…"
Lei non disse niente.
"Io… ti amo… da tanto tempo…”
“…”
”Ti voglio bene. E questo non lo posso cancellare…"
E sono ancora innamorato di te, anche se so che è strano… anche se so che, forse, non dovrei…
Oscar si avvicinò a lui. "Anch'io ti voglio bene…", gli disse, la voce chiara, quasi con sgomento.
André sollevò su di lei gli occhi, tristi e stupiti. “Perché non me l’hai detto prima…”
“Scusami…” non riuscì a dire altro. La voce le tremava troppo. Non poteva spiegargli tutti i vincoli che sentiva. E come non le paresse naturale. Come non volesse rovinare quello che c’era tra loro. Il loro rapporto. L’amicizia. La complicità. Come temesse di perderli per amore. Per qualcosa di ignoto. E il fatto che temesse di tradire suo padre. La famiglia. Assurdità. Che avevano rovinato la vita a lei e anche a lui. Legami. Difficili, a volte impossibili, da sciogliere.
Per una vita intera aveva dovuto reprimere i sentimenti. Ciò che era veramente. E che non trovava più, persa nel passato. Dopo anni ed anni così, come sarebbe stato possibile riuscire a ritrovare uno straccio di naturalità?
Avrebbe voluto abbracciarlo. Pensò che non ne sarebbe stata capace. E lui era di un'altra… Fece per allontanarsi, bruscamente, quando André la trattenne per un braccio, se la strinse contro.
"Oscar…", piangeva, il viso nascosto tra i suoi capelli…
Oscar, prima irrigidita, si lasciò andare. Si strinse a lui, forte, come a cercare aiuto, rifugio, pietà, senza poter piangere. Non riusciva a dire niente. Era solo infinitamente triste. Come se qualcosa di infinito e nero la stesse ricoprendo, ma lei era ancora viva e sentiva tutto. Poi, si sciolse dall'abbraccio.
"Voglio che tu sia felice. Per favore…", gli disse, cercando di recuperare un tono scherzoso. "Io… tengo molto a te…". Era imbarazzata… "Cerca di capirmi… è l'unico modo che ho per riparare a quello che ho fatto…"
"Oscar, ma…"
"Vedi", Oscar faceva fatica a parlare… "…io ho sbagliato, con te…", la voce le tremava. "Avrei dovuto dirti allora quello che pensavo. Avrei dovuto chiederti di aspettare ancora un po', spiegarti che non mi sentivo pronta… Invece… non l'ho fatto. Non mi sono neanche resa conto di quanto fosse importante. Che ti avrei perso. Né quanto ti avrei fatto soffrire… E, così", concluse, "l'unica cosa che adesso voglio è riparare… E tutto quello che posso fare è sperare che tu sia felice…" Adesso che aveva parlato, si sentiva più leggera. Guardò André con affetto. "Te l'ho detto, Christine mi piace…", disse con calore. "Se fossi un uomo, non potrei desiderare di meglio…"
"No. Il meglio eri tu…", considerò André tristemente…
"Ehi", Oscar lo prese per un braccio, "non voglio più sentire queste cose o vedere un viso così triste!" Lo scrollò. "Avanti, ragazzo!!!! Domani sarà un giorno bellissimo!
Domani…
Domani…
“Resta con me…”
Lo guarda. Non sa se con speranza. O tristezza. O dolore.
“Resta con me. Stanotte.”
E’ così bello, lui, con quell’espressione infinita e la voce che non dà scampo. In quelle che sembrano domande. E sono richieste.
Per tutte le volte che avrebbe voluto rispondere sì, mille voci ora le dicono no.
Come farà a saperlo di un’altra? A sopportare questa idea, questa realtà? Anche se ormai ci fa i conti da un pezzo?
Come potrà accettarlo, di averlo perduto definitivamente – lei, che in fondo non l’ha mai avuto.
E, così, sceglie di non rispondere, lui l’ha già presa per mano, e la sta conducendo con sé.
Domani…
Forse abbiamo ancora un po’ di tempo, pensa, mentre al tempo sta rubando tutto quello che può. Mentre André, lento, alla luce chiara della luna, la spoglia. Silenzioso. Attento. Quasi trattenendo il respiro. Come in una cerimonia.
Vede la sua pelle dai riflessi di notte e di luna. Un pallido contorno azzurro a delineare braccia, mani. Sente la stoffa scivolarle addosso. L’aria fredda. Poi, sente il calore di lui. La pelle fresca, un velo di barba, avvicinarsi, quasi timido e disperato, e sfiorarla, prima piano. E il respiro di lui, caldo, che la fa fremere, quando le delinea il collo, quando cerca tra i capelli e le lambisce l’orecchio, leggero.
Oscar lo osserva, e vede quel corpo, che le sembra così bello, vicino al suo. Piccoli particolari. La linea dei fianchi. Un polso. Dita che si intrecciano.
Nella notte gli slaccia il nastro,[1] per tenerlo per sé. Per non restituirlo mai più. E lo guarda, mentre i capelli le spiovono addosso, e gli incorniciano il viso, in un’espressione a tratti disperata. E le sembra più bello.
È persa dentro i suoi baci, ogni volta che il contatto con le labbra di lui la fa impazzire, e persa nel dolore di non poterlo avere. Mai più.
E anche lui vuole solo farsi folle di lei, averla, ora, per sempre, perché quella notte non sia la fine del loro amore.
Lo lascia fare. E ricaccia indietro le lacrime. Si lascia amare. E poi lo ama. Ed ancora. E asciuga le sue lacrime innocenti. In quella notte di timide disperate parole. Di “Ti amo” infiniti, ripetuti mille volte. Loro, che non sanno ancora come chiamarsi. In quella notte di gesti febbrili che imparano d’amore.
È già domani…
Si svegliò, mentre lui la proteggeva ancora in un abbraccio. O, forse, cercava di non lasciarla. Dipende dai punti di vista, si disse. Poi, la coscienza tornò, e sentì tutto il peso, il dolore, il senso di colpa, la disperazione, la dolcezza, l’amore.
Si mosse, tra le sue braccia. Piano, per non svegliarlo. Perché non sapeva cosa avrebbe pensato lui, un rifiuto, avercela con se stesso o con lei, o se quello che si erano detti nella notte poteva essere ancora vero…
I suoi erano i gesti di un automa. Si domandò spesso, dopo, perché non si fosse fermato in tempo, perché avesse continuato. Ma non seppe darsi una risposta. Forse, doveva essere così.
Gliel’aveva chiesto, al risveglio, supplicandola: “Dimmi di sì, ti prego…” non era ancora troppo tardi. L’avrebbe lasciata, sarebbero stati male, lei l’avrebbe odiato, magari, poi sarebbe passata – lo sapeva, in fondo. Ma lei non si era sentita di condannarlo a vivere la sua vita. Forse per amore. Sicuramente per troppa tristezza. Oscar non aveva ancora imparato neppure a cercare di essere felice, rifletté, triste.
E, così, senza neanche guardarsi allo specchio, si stava preparando.
Aveva fatto sparire le tracce di ieri. Le pieghe del letto sgualcito. I tamponi di Oscar, i suoi profilattici. Tutto nel secchio, anche la nostra vita.
Si stava facendo tardi. Uscì a cercarla.
Ma lei non c’era. Se ne era andata.
La sua stanza era vuota.
Ma ebbe un presentimento, quando notò qualcosa sullo scrittoio.
Aprì il biglietto legato dal nastro alla rosa bianca. Lasciato per colui che sapeva dove lei usasse scrivere. Per colui che la conosceva. Per lui solo. In un pensiero infinito.
Non si può essere sempre divisi, diceva. Vivi, mio André, e sii felice.[2]
Oscar… Oscar… Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Pensò alla solitudine e al dolore in cui doveva aver scritto, meditato, ponderato, quelle poche, infinite, parole. Pensò a lei.
Strinse tra le mani il nastro, il biglietto, la rosa, E lasciò che le spine liberassero il sangue del suo cuore.
Le labbra lasciano umide la presa. Un soffio leggero. Tra i lacci della camicia, il seno spunta teso.
“Sei davvero bella.”
“…” Un sorriso stirato. Lo sguardo lontano.
Lascia baci roventi lungo la spalla e il braccio. E poi, di nuovo, sul collo. E lei trema.
Le labbra di lui sulle sue, la lingua la percorre. E lei si sente persa. E ha vinto.
Le scopre tra le pieghe leggere l’altro seno. Lo sfiora e poi lo stringe tenero tra le dita. La pelle di lei è delicata e fresca. Quella di lui ruvida e calda. Lei sussulta e un rivolo di piacere bruciante e dolce le risale il ventre mentre lui le succhia il capezzolo fino a farla impazzire. E non sa dire se sia la sua lingua o le labbra calde, o il fresco dell’aria che la colpisce.
Non vuole pensare a niente, ora. Solo concedersi questo poco, niente. Qualcosa di scarso valore nell’economia generale della vita umana, che, invece, per lei ha il sapore della disperata ricerca della vendetta. O, forse, sarebbe più esatto dire della compensazione. Magari della giustizia vendicatrice.
Le labbra calde scendono, sollevano la camicia, sfiorano l’ombelico delicato e si soffermano su quella pelle candida.
“Mi piace il tuo corpo”, le sussurra, mentre con la lingua le infligge un piacere infernale e la sente arcuarsi e serrare i fianchi, come volesse attrarre e poi afferrare un infinito dentro di sé.
Parla poco, lei, e negli occhi ha l’assoluto. Assoluto abisso. Tutto, niente, lui non lo sa.
Lentamente, le sfila i pantaloni e osserva intenso la stoffa scivolare su quei fianchi magri e snelli. E’ così bella. Così bella che gli pare impossibile sia così sola. Gioca a rifare con le dita il percorso del tessuto. Senza fretta. Poi, le lascia scorrere nel calore umido tra le gambe, con lentezza, e l’eccitazione cresce, e poi dentro di lei, mentre lei respira più profondamente e risponde ai gesti di lui, che la carezza, tocca, circonda e le sembra di impazzire.
Quando abbassa lo sguardo e vede la testa bruna di lui tra le sue gambe, la bolla di piacere si fa incontrollabile. Sente la lingua di lui – una sensazione strana -, e più ancora la immagina. E immaginando crede di impazzire. Chiede di più, quello che sente si mescola a quello che vorrebbe, e si inarca su di lui, spingendolo contro di sé. Di più. Di più.
E mentre lui la percorre, la lambisce, la svuota, lei esplode nel piacere, animalesca, incontrollata, a lungo e poi ancora.
Giace così, abbandonata, placata, e poi di nuovo, mentre il piacere torna e ancora scorre via in lunghi brividi di quegli incontri rubati.
Lui aspetterà ancora, forse. Non le importa. Non c’è gelosia e neppure attesa, in questo rapporto. Vuole solo un po’ di amicizia. Vuole solo prendere un po’ di piacere. Non fa niente di male. Lui lo sa. Lo accetta, anzi, è stato lui a proporlo, forse.
Lo sfiora con uno sguardo, mentre, accanto a lei, con le dita bagnate dal suo piacere, si serra spasmodico il sesso, in un’espressione infinita. E forse dovrebbe essere lei a farlo.[3] Forse lo vorrebbe. Ma, per essere del tutto onesta con se stessa, ora non se la sente. Ora, davvero, ha bisogno di qualcosa per sé e basta.
L’ha conosciuto durante una delle sue tristi peregrinazioni serali.
Una taverna, una di quelle in cui andava con André. Un luogo per scacciare i pensieri cattivi e per non pensare alla solitudine.
Era seduta al banco. Lui le si è avvicinato.
“Siamo tristi, stasera, eh, ragazzino…”
Lei gli aveva lanciato uno sguardo sconcertato.
Lui era rimasto di sasso.
“Scusa… non mi ero accorto…”
Un sorriso triste le stira le labbra. “Tranquillo, non se ne accorge nessuno…”
Lei non accenna ad andarsene. Che se ne vada il giovane rompiscatole, prima.
“Ti ho visto, l’altra sera…”
Lei aggrotta le sopracciglia.
“Con quello straniero…” Ricorda benissimo il tavolo appartato nella penombra, quel tipo alto e asciutto dall’accento diverso e il ragazzino biondo. “Ne avete fatta di baldoria, eh?!”
Oscar sorride, pensando all’epilogo della serata, i caldi baci di Hans, le sue mani sapienti, le dita insinuanti, una notevole eccitazione, qualche preliminare, poi quel suo fermo diniego. “Non vorrete tradire le vostre molte conquiste… ed io… non voglio tradire il mio unico amore…”
Lui l’aveva presa con cavalleria.
“E’ davvero un peccato… siete troppo bella”, le aveva detto, mentre si riallacciava la camicia, mentre lei si domandava quale fosse il canone del troppo.
“Cosa ci fai qui, tutte le sere…”
Lei non risponde. Insomma, te ne vai? E poi, non è tutte le sere…
“Da sola, poi…”
Un lampo di ribellione.
“Non vorrai farmi la predica perché sono da sola…” Ci manca solo questo! Quello stronzo che mi lascia sola, troppo preso dalla sua vita, e questo cretino che rigira il coltello nella piaga… andiamo bene! Detesto chi usa quella parola. Dovrebbero abolirla. Nessuno dovrebbe più essere definito solo – e nemmeno sentirsi così… Un’occhiata al bicchiere. Ragazzi, forse ho esagerato… solo un pochino…
“Calma, ehi… no, no, sono solo curioso…” che reazione…
Osserva il contenuto del bicchiere e, dall’aspetto, lo cataloga tra i generi più costosi del locale. Si serve bene, la ragazza, qui.
Allunga le mani e le prende il bicchiere. Lei sorpresa. Tace. Guarda attraverso il liquido, ora, e il suo sguardo sembra vagare lontano.
“Se hai qualcuno da dimenticare, non ci riuscirai stando qui…” Improvvisamente serio. Ingolla il liquore sotto lo sguardo stupefatto di lei. Il mio cognac!!! “Vieni”, alzandosi, le porge il mantello, “andiamo via…”
“Ma che cosa…”
La prende per un braccio, non c’è violenza, solo decisione, in quella stretta, e la conduce, fuori, dove regnano la notte ed il freddo.
Non conosce bene quella zona della città. Non si è mai preoccupata di conoscerla, bastava lui. E’ sempre André a condurla, quando vengono qui. Era e venivano, bisogna correggersi. Ora lei è sola e decisa a mettersi alle spalle André e tutto quello che ha sentimentalmente a che fare con lui. Avuto, pardon, a che fare con lui.
La notte è buia.
“Dove abiti?”
“Più lontano…”
“Dove…”
“…”
“Non vuoi dirmelo…”
“Lungo la strada verso Versailles…” glissa.
“Torni a cavallo…”
Annuisce. Perché la gente fa tante domande?
Il ragazzo si ferma e la scruta. Lei lo guarda. “Allora?”
Sono lì, tutti e due, il soldato e il colonnello Due schiene diverse, forse, due solitudini. Le mani intrecciate, appoggiati alla spalletta del ponte, gli occhi lontani, a perdersi nell’acqua torbida della notte, che inghiotte tutto. Ma non abbastanza.
“Allora, non vuoi proprio dirmelo…” La guarda di sottecchi. “Forse poi staresti meglio…”
Le labbra le si stirano, alza le spalle.
“Va bene…”
Oh, finalmente la pianta…
“Sei fidanzata…”
E invece no, non la pianta…
Lo guarda sconcertata. “Io?” Associare a se stessa il termine fidanzamento le lascia un certo strascico di ribrezzo. O, forse, di imbarazzo.
“Sposata, allora…”
Imbufalita, semmai… “Ma quando mai!”
“Hai qualcuno, che ne so…”
E qui non sa cosa rispondere.
Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-aprile 2006 maggio 2006, pubblicazione sul sito Little Corner maggio 2006
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