Christine
Parte XXII
Warning!!!
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
“Posso… posso provare a tenerlo?” Una domanda posta d’impulso, lei, che si è sempre sottratta al confronto.
Un’occhiata di lui, stravolto, ammirato, curioso, schiacciato, una piccola crepa nella maschera di disperazione, una minuscola luce negli occhi tristi, che scintillano, in quel breve sguardo rubato, di tristezza, ma forse è qualcos’altro.
Daniel che, stranamente, si sistema contro di lei, che si sente una ignobile usurpatrice, e non piange.[1]
Poi, la vita va avanti. Il tempo passa.
Non ha avuto cuore, non ha osato, chiedergli di accompagnarla a corte. Non se l’è sentita né di avere ancora di fronte quegli occhi lucidi, né di darlo in pasto a quei pochi che sanno e l’avrebbero guardato con curiosità e degnazione, ironizzando su quelli come lui, come se chi non è nobile non avesse diritto alla dignità, all’amore, al dolore.
Poi, lentamente, è stato lui a domandare di poter tornare al lavoro. “È come sempre”, le ha detto, semplicemente. E così la mattina, con poche ore di sonno addosso, segue Daniel e poi lei, al lavoro. E forse entrambi sperano che questo lo aiuti.[2]
Si disperano su come cambiare un pannolino.
“Non c’è un manuale?”, annaspa lei? “Chiama tua nonna”, implora. Poi, “Se scrivono trattati su come funziona un’arma, perché non dovrebbero farne su come vanno usati questi arnesi malefici?” Si lamenta, brandendo una fascia.
André la guarda, tra lo sgomento e il divertito. Mai avrebbe pensato di vederla girare attorno al pargolo con aria circospetta, curiosa. “Chiamo aiuto”, si risolve, infine.
E accorre un nugolo tra cameriere e altri, chi curioso, chi sarcastico.
Decisamente, si tratta di cosa impegnativa, perlomeno per loro due messi insieme. Oscar spalmata sul letto, depressa, si chiede come si gestisca una situazione simile. Sempre più solidarizza con Christine. Sempre più pensa a come sventare il malefico pargolo urlante ed emittente. Sempre più considera che sarebbe il caso di educatamente eclissarsi, neanche educatamente, poi. Che il frugolo non è suo, che esistono le balie, esistono le nonne.
Senza contare che, poi, lui, quando la crisi sembra al culmine, lentamente, si riscuote, e, in silenzio, come in trance, lo cambia, senza nessun problema. E allora, dillo!
Lo faceva, prima, lei lo sa. Le fa quasi schifo vederlo così, povero coglione esperto di pannolini. Le fa pena. Non sa più cosa le faccia, ad essere onesta. È una sensazione strana, attutita dal dolore, dal trauma. André è lì, praticamente tutto a sua disposizione, e lei non è che non sappia cosa farsene, ma si astiene, ha come sospeso ogni pensiero, per il lutto, la decenza, il rimorso. Non lo sa.
È molto difficile per entrambi: André è sconvolto dalla perdita di Christine e sente come mai il vuoto. Si sente tremendamente in colpa con lei. E non vuole abusare dei presunti sentimenti di Oscar. Non vuole che si senta usata da lui.
Oscar vive una duplice situazione: da un lato, l’animo ferito da anni di dolore. Dall’altro, il non volersi imporre a lui, per lasciargli i suoi spazi, i suoi tempi. Questo, al di là del cercare in qualche modo di occuparsi di Daniel. Cosa che non ha nessuna voglia di fare, e che deve trovare il modo di dire. Non vuole trovarsi invischiata con un infante. Si è guadagnata il suo tempo, il suo spazio, la sua libertà. A carissimo prezzo. Cambiando, mettendosi in gioco, perdendo parte di quella che era, diventando qualcos’altro. E intende goderseli.
Sanno, in un certo senso, entrambi, che sono l’uno per l’altra.
Ma sanno anche che non è possibile ferirsi di nuovo, troppo a lungo. O imporsi situazioni. Infanti. A costo di essere crudeli. Cinici. È una questione di sottili e fragili equilibri.
Eppure, André non parla di lei. Di Christine.
E sembra non confrontare il passato col presente. Neppure dentro di sé. Ha imparato dai propri errori e sa che la memoria di lei è fin troppo presente anche in Oscar. E se qualcosa di quell’amore è rimasto, sembra custodirlo, muto, dentro di sé, come un dolore sordo ed insopportabile. Troppo pesante anche da dire. È difficile accettare una perdita. Più difficile sopravvivere.
Solo una volta, quando, nella loro stanza, ha ritrovato un libro. È impallidito, allora, stringendolo tra le mani. Ed è crollato, “Povera Christine… non è riuscita neanche a leggerlo…” e lei, accanto a lui, in silenzio, ha cercato di abbracciarlo, piano, commossa. Ma lui è rimasto come immoto.
André seduto sul letto, schiena al muro, tiene Daniel in braccio, è stanchissimo, s’addormenta. Oscar, esausta, s’è appisolata lì accanto. Daniel se l’accaparra, piano piano, gattonando. André si sveglia e lo trova che le si è praticamente attaccato al collo.
Lo stacca da lei, con cautela. Mentre lei riapre gli occhi.
“…” Si passa una mano sul viso.
“Si era addormentato abbracciato a te…” Con delicatezza, lo copre, nella culla. Resta a guardarlo per un po’, pensieroso, controlla se respiri bene, se sia adagiato correttamente. Non le ha detto che era al suo seno che aveva l’impressione si fosse attaccato. Sa che queste cose, come l’uso di certi termini, la mettono in imbarazzo e non vuole infierire. È così difficile, ora, tra di loro. Ora che sono ancora più vicini, ma un’ombra di pena e disagio pare dividerli.
Lo raggiunge da dietro. Vorrebbe dirgli che è carino, ora, che quando dorme pare così angelico… ma tace, pensando che non sia il massimo far notare ad un padre in erba che il suo pargolo è apprezzabile quando ronfa e tace… si sente vagamente stronza, a pensare che proprio non le escono cose decenti da dire. Ma non è così. È solo in imbarazzo. Non sa bene come comportarsi. I bambini la mettono in crisi. Non vuole usurpare il posto di lei. E non vuole sostituirsi a lei. Quel bambino una madre l’ha avuta. Ed è giusto che la ricordi. Anche se ora non c’è più.
Lo guarda lasciare la loro casa. Avrà per sempre la visione rubata di quella mano, bellissima, a chiudere l’ennesimo cassetto vuoto. E il ricordo dell’impotenza di fronte al volerlo abbracciare, proteggerlo, in qualche modo, e non muoversi di un passo, per non rovinare tutto un’altra volta. A scavare altre distanze. A turbare quel dolore. Un ultimo sguardo ad abbracciare le pareti, ora spoglie. Hanno trascorso l’ultima settimana ad impacchettare cose, oggetti. Quelle di lui. Quelle di lei, che lui vorrebbe poter tenere. Pochi anni, in quanti bauli possono entrare?
Gli ha visto buttare pacchi di fogli, riviste, abiti. Ha provato a dirgli di tenerli, almeno per Daniel. Ma si rendeva conto che quello era soprattutto un esorcismo, il chiudere definitivamente quell’angolo di vita. Christine sarebbe rimasta talmente in profondo, che non ci sarebbe stato nessun bisogno di oggetti, ricordi. L’avrebbero solo banalizzata.
I genitori di Christine hanno chiesto di liberare la casa. Che era della figlia. Che non è passata, di comune accordo, a lui col matrimonio. Che Christine aveva voluto lasciare al marito e al figlio. Ma i suoceri fingono di ignorare la cosa. Lo stato legale dei fatti.
Lui – Oscar non ne comprende la ragione, e prova rabbia, per l’ingiustizia, dolore, per quello che lui è costretto a lasciare in termini affettivi, e sollievo, perché non vuole che stia in quella casa – ha accettato, remissivo. “Non è mia…” si è limitato a dire. Sembrava troppo stanco. Forse in realtà è orgoglio. Forse, per quanto abbia amato quella casa e per quanto di sé abbia dato, non vuole qualcosa che non sia suo. Qualcosa che ritiene di non avere neppure meritato.
A lei, che, battagliera, gli fa notare che è assurdo, risponde soltanto “Non ho un posto dove andare… lo so…” e lei si sente mancare il terreno sotto i piedi, perché vorrebbe potergli dire che, invece, sì. E non uno solo. Ma non può correre. Non può aggredirlo di sentimenti. Deve lasciarli i suoi tempi.
“Sì, invece…” una carezza leggera.
Lui trasale.
Non ricambia.
“Lo sai…”
Ma si stupisce della sua espressione. Non c’è rabbia. C’è il rimpianto. E il sentimento doloroso di distacco. Aveva già lasciato la casa, in fondo. Oscar aveva insistito, c’era da occuparsi del bambino, non era possibile così. Ma non era qualcosa di definitivo. Di definito. Era stata la risposta all’emergenza dei primi giorni.
Ora, invece, è l’addio.
E, d’altra parte, si è costretti a rinunciare per sempre a chi amiamo. Cosa può essere, in confronto a questo, una casa, anche se è stata quella in cui si è vissuto il nostro amore? Che si è tirata su pezzo dopo pezzo? Insieme? Di cui ogni cosa, anche uno sfregio, una macchia, riporta alla memoria e al cuore mille sensazioni, di quando pensavamo di avere tutto davanti, di prima degli errori, di cose che solo noi possiamo capire, di quello che non può tornare… Eppure, anche se l’ha sempre saputo, anche se ha cercato di creare una stabilità, in una situazione che sapeva non appartenergli, ora sente un altro pezzo di sé staccarsi. Lacerato. Perdersi.
E si domanda se resterà ancora qualcosa, dopo.
Perché avrebbe voluto poter guardare ancora i luoghi di lei, di loro. E continuare qualcosa di quello che loro due erano stati, nonostante tutto. Ritrovarsi nei ricordi, negli odori, nei colori. Avrebbe significato qualcosa. E, invece, è perduto. Col resto.
“Ascolta… se è questo che vuoi, va bene.” Inutile discutere. Inutile tormentarlo. Lui è troppo leale. Lealtà che rischia di danneggiarlo, un giorno.
Resta lì, i capelli a proteggerlo. Da lei. Dalle sue parole. Dal fuoco la arde e che lui ricorda troppo bene. Da quella mente lucida, spietata.
“Se non vuoi avere a che fare con certa gente, ti capisco… anche se penso che sarà molto doloroso.” Gli stringe un braccio. Cerca di comunicargli calore. Non sa cosa percepisca lui.
Un sorriso pallido. Nessun’altra reazione.
“Però, quello che resta di importante, al di là di tutto quello che lasci…” non osa neppure guardarlo “è vostro figlio…”
Qualcosa brilla tra i capelli. Sembra colpito.
“è lui che continuerà quello che eravate…”
La guarda.
L’ha scrutata per mesi. Non sa più neanche quanti. Le volte che rientrava a casa sua. Le volte che restava lì, con lui.
In silenzio. A domandarsi se fosse l’ennesimo errore. Suo. O anche di lei. Si è dato del tempo. Gliene ha concesso. Per ricostruire le sofferenze e il dolore. E la vita che è mancata. Ma ora, ora?
La vuole. Come allora.
In tutto quello che è. Nei tentativi imbranati di trattare con Daniel. Nell’eterno sfuggirgli per non soffrire. Negli sprazzi sinceri che ancora affiorano tra loro due.
Quanto tempo è passato, si domanda. E non saprebbe rispondersi.
Le ha preso una mano, piano. Intimidito.
Era sera.
“Oscar…”
Si è quasi ritratta. L’ha scrutato senza riuscire a nascondere l’allarme in fondo agli occhi.
Le ha trattenuto le dita tra le sue. Leggere. Forti.
Sentiva il suo respiro. Piano. come un ragazzino. Si è sentita male per lui. Ha sperato non tornasse più un momento simile, per non farlo soffrire, per non tornare a soffrire. Ed eccolo che si butta a precipizio.
Si è portato le dita alle labbra. No, non farlo, André… ma è rimasta lì.
“Io avevo dimenticato di amarti…” annota, con tristezza.
Scuote la testa, come incredulo.
“Sono… riuscita a dimenticarlo…”
Le tende le braccia. L’attrae a sé. Ma lei ancora resiste.
“E allora torna indietro. Ritorna a com’eravamo…”
“No.” Ferma. “Non voglio più soffrire…” Abbassa gli occhi.
La costringe a guardarlo. “Allora, andiamo avanti insieme…”
“Non voglio…” Esita. “Non voglio più…”
“Non è vero.”
Non ha lasciato che liberasse la mano.
Non l’ha mai desiderata tanto come stanotte. Come ognuna delle volte, in ognuno dei giorni in cui, nascosti al mondo, si sono ritrovati.
Cercarla. Scorrerla.
Le labbra su di lei, le mani a non lasciare mai la stretta attorno a lei come a temere di perderla. Senza smettere di provare l’odore dei suoi capelli. Della sua pelle. Memorizzarlo, ricordarlo, ritrovarlo. Senza finire di schiuderla a sé e raggiungerla. Fin nel profondo.
Quante volte l’ha sentita ansimare. E quante volte sia venuto, appena uscito da lei. Le ha contate, poi, ha smesso. Perché siano infinite. Più di sempre.
Perché quello che ha perduto, lui, ora, lo rivuole.
“È troppo tempo che non lo faccio…” Gliel’ha detto così, semplicemente, la prima volta, duro contro di lei, calda. Come fossero una coppia da sempre.
Troppo tempo che non sente i suoi seni sotto le sue mani.
Che le sue dita non la sfiorano. Non la percorrono.
“Anche io…” in un brivido.
Ma i loro gesti sono silenziosi e cauti, ora, per non svegliarlo, in quella penombra strana, due ombre che si lasciano andare, due fantasmi del passato, e le lacrime, della vita, degli errori, di altre presenze, della morte, della colpa, e gli abbracci non bastano, forse non basteranno più. E, allora, il dolore si può solo annegare nell’amore.
Laura, autunno 2006, revisione giugno 2011 pubblicazione sul sito Little Corner luglio 2011
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