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Christine

Parte XX

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Non si sente più bene. È sempre più debole. Il pargolo, però, lievita e produce quantità inenarrabili di inquinante. Il di lui padre latita, e lei vuole andarsene. Sta prendendo i contatti, tessendo gli addii.

Forse è più dignitoso lasciarlo libero. C’è stato un momento in cui ha creduto di poter prendere il posto di Oscar. Di essere l’eterna seconda. Si rende conto, ora, che non è possibile.

Non lo vuole, ma neanche André lo rende possibile.

 

Deve parlare con Oscar.

Oscar che cova una strana tranquillità, una strana forza, e questo non le piace, la disorienta. Non che avesse basato la propria vita sull’instabilità o il confronto con la vita di lei, ma saperla contrariata, distorta, sola, era, in fondo, un segno della sua vittoria. Oscar, invece, è vero, è sola, ma pare tirare fuori, da non si sa dove, un’energia incredibile per affrontare le cose.

È vero che ogni sera rientra, e c’è il buio, dietro le finestre. Da loro, invece, c’è sempre una luce. Ma Oscar se ne frega, riesce a scaldare, creare, anche senza fare la vacca fattrice. Lei, invece, dov’è? Dove si è persa? A che è servito infilarsi in un ménage iper-collaudato, strappare il pezzo forte, rinchiuderlo nella propria collezione, coinvolgerlo, quando lui, in realtà, è assente? O a mezzo servizio?

Ha sbagliato.

E più male di tutto le fa la vittoria di Oscar.

Vittoria inconsapevole, quanto male ogni gesto vitale di Oscar, ogni passo, ogni istante in cui non crolla, non cade, anzi, vive, le faccia, Oscar, questo, non lo sa. Non saprà che Christine la invidia, la detesta, la odia per le sue scelte, perché è come è e non cerca di essere diversa, non cerca di fare quello che tutti fanno perché si deve, perché è ora. Oscar è sola, e probabilmente lo sarebbe anche con André accanto, perché c’è qualcosa che lei ha capito e Christine no.

Oscar sta davvero creando un suo mondo, di sostanza e di pensieri, di equilibri e gesti, lei, invece, questo mondo l’ha finto. Oscar non lo saprà, non immaginerà che sconfitta sonora, cocente, ogni suo istante, ogni gesto, infligge a Christine, ma è così.

 

Eppure, c’è rispetto per la ex-rivale. C’è, in quel rispetto, un subdolo tentativo di poterla controllare. Dominare. Gestire, a posteriori, la sua vita, quello che sarà poi con André. E il fatto che Oscar sia inconsapevole  o la lasci fare e capisca benissimo ma abbia deciso di lasciarla giocare – le fa quasi peggio che essere scoperta.

È un rapporto ambivalente: a lei Oscar piace, in fondo.

 

Al di là dei piani per il futuro, la realtà è che si sente sempre peggio e si preoccupa che, se le succeda qualcosa, i suoi genitori mandino via André. Sa che André non ha altro, vorrebbe, comunque, tutelarlo, ha sentito un notaio.

 

Si deve sedere. Una pausa. Un momento. Per capire. Per non impazzire.

La mano che la stringe è fredda e senza forze. Pare di una morta.

“Promettimelo, ti prego…” E invece brillano di una vita malata, gli occhi di lei, tra i capelli scompigliati. Quello che prova è un senso di ribrezzo, di repulsione, perché legge, in quelle righe, l’ennesimo tentativo di controllo, di André e anche di lei. E non vuole, non vuole… è stanca di accettare, sopportare, essere presa in mezzo alla vita di altri. Le basta la sua, non ne vuole più sapere.

Il problema reale è che ci sono situazioni, neanche create da noi, a cui non ci si può sottrarre.

O, forse, sì.

Se lo domanda, mentre l’altra la incalza.

“…”

“Per favore…”

“Non dirlo… non lo devi dire…”

Sì, invece, non può impedirle di parlare, di esprimere quelle paure, di condividerle con lei, perché André non ce la farebbe, lo sa. E così se le accolla, porteranno quel peso insieme, e le promette tutto.

 

“E troverai chi si occupi dei gatti… qualcuno che venga qui… non…” le costa quasi di più ammettere quella debolezza. “Non li manderai via…” una pausa. “E le piante”, le aveva domandato, la voce piana. Un brivido. Paura e sofferenza.

Aveva annuito. “Certo…” ma cosa diavolo vuoi, da me?

 

Che strano, ritrovare due persone che ritengono di saldare i propri reciproci debiti.

Guarda in basso, foglie che mulinano, i suoi stivali, i passi che procedono. Scosta una ciocca di capelli dagli occhi. Quanto vento, in questa stagione… Cosa diavolo vuole… cosa vuole… che mi lasci in pace!

Una volta, e Christine lo sa – quello che non sa sono le mille altre volte –, ha rinunciato ad André per lei. Per cercare di restituire a lui una parvenza di normalità. Per non dilaniarlo. Lui, che un padre quasi non l’aveva avuto, e che voleva essere presente, per suo figlio. Ora l’altra si prepara a saldare il debito. Donandole, affidandole tutto quello di cui le importa. Affinché sia lei, Oscar, a proteggerlo. Custodirlo.

Così ha lasciato intendere.

Non ce la fa. Non ce la fa, si dice, a pensare, e neppure a camminare. Non riesce neanche a piangere, niente. E, a mente fredda, non sa neanche se lo vorrebbe, quell’impegno.

Ma poi arriva lì, vicino a quel piccolo ponte in pietra, e, senza pensarci, lo aggira, e corre sull’argine. Verde, rigoglioso, una pozzanghera ampia, sul declivio scosceso, l’umidità che fa prosperare le piante. E la sente, sotto le dita, quando si siede, e la mano scivola sull’erba. Mentre i capelli nascondono le lacrime.

Si sorprende a pensare che vorrebbe non accadesse mai. Mai. Mai. Mai.

Che può stare sola, decentemente, e lui stare con l’altra. Continuare ad amarlo. Dimenticarlo. Vivere. A pensare che non vuole occuparsi di un bambino, assolutamente! Né di ritrovarsi a carico padre e figlio. Si sente infelice.

Non è una vittoria, è l’ennesima sconfitta.

È non decidere della propria vita.

Ma dentro lo sa. Il gioco è lanciato. E indietro non si torna.

 

Cosa dovrebbe pensare?

Che sia una vittoria morale?

Quando specifica a se stessa, riferendosi ad André che l’aveva vista con Alain, "fosse stata solo quella volta (in cui mi hai visto)", e le viene da ridere e da piangere, insieme. Un primo schiaffo.

Quando lui ha insistito, unico, coraggioso (o incosciente) ad osare metterle tra le braccia il figlio, con un'enorme fiducia in lei, fiducia che nessuno ha avuto.

Eppure, che importa? Lei non aspira a fare la madre, eppure, con un po' di rammarico, sa osservare che nessuno la ritiene capace, neppure come zia.

Sa di essere percepita come un fenomeno, nel senso latino, un monstruum, per cui nessuno le affiderebbe il figlio.

Un uomo è adatto a fare il padre, e lei, donna, neanche a fare la zia.

Eppure, le vittorie morali sono queste. Lui, che si è ostinato, per anni, a offrirle segnali di fiducia. Prima sessualmente, perché è il primo ad essersi innamorato di lei. Poi, a livello di gruppo, perché è quello che si affida a lei, non ha paura di affidarle il figlio.

Alla fine, Oscar sa che da nessun altro accetterebbe stimoli al cambiamento, che non fosse lui. E questo è un segno di rispetto. Eppure, queste pretese di Christine, ora, lei le vive con ambivalenza, sentendosi manipolata, controllata.

 

Com’è strano pensare, una mattina, che esci di casa e, quando ci rientri, le cose che avevi, che erano, non esistono più. E così le persone. Via, in un infinito attimo.

Cosa provano, cosa avranno provato, in quel momento. Se sia stato un azzeramento immediato. Uno spegnersi lento. Fino al buio. Se sia stato lo stupore. O il dolore, l’ultimo loro pensiero. Se abbiano sofferto. O no. Se la consapevolezza li abbia accompagnati, terrorizzati, o se, invece, sia stata la mancanza di coscienza.

Pensare se avresti potuto evitarlo. O poter fare ancora qualcosa per loro. Averle trattate diversamente. Averle amate. Amate di più. Amate in tempo.

Pensare che l’energia che scorreva in quella mano, il cui tocco ti era tanto familiare da passare per scontato, è andata e quel tocco non ti restituirà né la sensazione della presenza di quella persona, né, più, calore, gesto, riflesso, un qualsiasi segnale di quella che era stata la sua esistenza.[1]

Pensare che mentre la vita li abbandonava, soli, ad affrontare quel passo, sarai stato assente, magari per la prima volta, magari per l’ennesima, impegnato in qualcosa d’altro e lontano, e non avrai la possibilità di sapere dove tu esattamente fossi, in quel momento. Ad occuparti delle cose più banali. Scontate. Importanti. Saranno state importanti, allora, e non lo sono più. Il valore relativo cambia, di fronte agli eventi.

Cambia quello che avresti fatto, che avresti pensato, se avessi saputo che…

Forse l’avresti resa più partecipe della tua vita. Forse l’avresti rispettata di più. Forse.

 

A volte il cielo pare terso in un omaggio, azzurro e limpido. A volte piangere la perdita dei nostri affetti. Meriterà un cielo immenso, una persona che ha avuto un gran cuore? O sarà salutata dal più nero dei temporali, per il dolore che lascia?

Quando è morto mio padre, il grigio che ci sovrastava pareva gravare sui nostri cuori e piangere le nostre lacrime. Acqua, acqua che scorreva. E un freddo pungente. E tu eri vicino a me.

Quando è morta mia madre, la giornata era limpida, quasi calda. Era forse il saluto per chi smette di soffrire? Quando hanno letto il mio saluto a lei, mi hai stretto la mano. E ho trattenuto la commozione.

E ora, ora che sei qui, ancora una volta, e però non puoi tenermi la mano, per decenza, e così aspetti, un po’ distante, e mi sorreggi con lo sguardo, fino a che gli altri, loro, il mondo, non se ne saranno andati, e potrai avvicinarti, e darmi la tua forza. Perché tu conosci il mio dolore. E forse non lo giudichi. E io so che quel dolore è anche tuo.

Dritto, pallido, lo sguardo lontano. Il vento che gli scompiglia i capelli e muove il mantello. In silenzio, le mani serrate. A trattenere le lacrime, davanti a quegli estranei.

 

L’ha trovata così, un piccolo straccio di vestiti, in una pozza di sangue sulle sue amate piastrelle esagonali del pavimento. Una pozza di sangue per annegare una vita.

Lì, sola, com’era stata negli ultimi tempi.

Quando l’hanno mandato a chiamare, sul lavoro, ha pensato subito a male. Si è sentito subito gelare il cuore e le mani.

Uno sguardo agghiacciato a lei, che ha capito, ha stretto le redini, è corso via. Lei, impaurita, ha dato disposizioni brevi e drammatiche, Girodel non realizzava, e l’ha seguito, il cuore in gola. Sapeva che non poteva essere successo altro che qualcosa di grave.

 

Ricorda che tutto era grigio.

Il cielo che sembrava incombere. Le pietre del cortile e delle scale.

Ricorda la confusione di vicini, accorsi, mentre saliva i pochi gradini. Del medico. Della madre di lei, che non piangeva, accusava solo lui, come una bestia. E lui non reagiva. Stava lì, accanto a lei, la teneva, senza peso, tra le braccia, sporco del suo sangue. Incredulo. Pallido.

 

Poi, ricorda quando è entrata, e ha capito che Daniel non c’era.

Ricorda il disagio e il dolore di stare in quelle stanze, e la paura che aveva preso il sopravvento, di fronte ai cassetti aperti, alle cose alla rinfusa, sparse senza cura.

“André”, l’ha chiamato. “Il… il bambino…” le tremava la voce.

Lui neanche la sentiva, continuava a cullare l’altra tra le braccia, inginocchiato sulle pietre, sporco del suo sangue.

Gli va davanti, una mano sulla spalla, a profanare quel dolore. Il tono fermo. “Il bambino… non c’è…” Perdonami, rossa…

 

Fa paura la reazione di lui. Quando la lascia delicatamente andare, i capelli, i vestiti, tutto scivola giù, senza vita, e si alza, pallidissimo, tirato. E la lentezza di quei gesti si confonde coi passi, concitati, in casa. Il tempo di un sospetto. Uno sguardo alla madre di lei. Da assassino.

“Dov’è il bambino…” quasi senza voce.

E quella risposta di sfida e sdegno, muta, una condanna che si somma alle altre.

“Ditemi dov’è.” La sovrasta. Oscar fa qualche passo avanti, le dita serrate sulla spada.

è al sicuro.”

Un altro passo. “Dov’è?”

“Vieni, sarà a casa loro, andiamo… non perdiamo tempo…” cerca di distoglierlo, lei, pragmatica. “Sarà spaventato…”

“Non ci provate, voi! Avete rovinato il matrimonio di mia figlia!”

Non sembra dolore, sembra livore, annota Oscar, mentre, la voce che le trema, articola, faticando a non commuoversi:

“Signora, non vi permettete di intromettervi nella vita di vostra figlia, che ha sempre cercato di difendere suo figlio e suo marito da voi! Non vi permettete! Daniel” e André si stupisce a sentire pronunciare quelle parole da lei, ”ha un padre, e deve stare con lui.” Poi, rivolta a lui, “E ora andiamo, André”.

 

Quanto a lungo si può sostenere un dolore, l’ansia? Non sa rispondere, mentre lo scorge, davanti a sé, e non osa pensare come si possa sentire. Perdere tutto, in pochi istanti. Non essere più quello che si era, le relazioni che definivano i rapporti. Era stato un compagno. E un padre. Lo sarebbe stato ancora?

 

Non avrebbe voluto assistere alla scena. Ma preferisce esserci stata. Non averlo lasciato solo ad affrontare anche quella prova. Aver vissuto il dolore, la tenerezza, l’ansia, la rabbia. Quando, insieme, trafelati, commossi, un peso enorme addosso, sono corsi a casa dei genitori di lei. Quando, tra le minacce, si sono fatti aprire e il bambino piangeva, si sono guardati, non c’è stata più esitazione. Lui è corso da Daniel, e Oscar ora sa come l’ha sollevato, con cautela e amore e dolcezza, e se l’è stretto contro, delicato e forte, a proteggerlo, mentre era lei a difenderli, a pronunciare la loro difesa, parole accorate e inutili e, in un piccolo, assurdo trionfo, sono andati via, le cose del bambino, sottratte, lasciate lì, e Daniel tra le braccia, trofeo già orfano e conteso.

 

Poi, non ricorda più molto.

Quando l’ha detto a sua madre, e lei quasi s’è sentita male, “Poveri ragazzi”, ha detto solo, e non sapeva neppure lei a chi si riferisse e poi s’è preoccupata del bambino e ancora Oscar non sa spiegarsi perché André a lei l’abbia affidato, non sa dire il senso dello sguardo che ha visto volare tra di loro, come fiducia, disperazione, mutuo accordo, un affetto antico di una madre putativa che li ha visti crescere, ha sperato, sofferto, e avrebbe voluto piangere, ma si vergognava e doveva resistere, anche per lui, per quando sarebbe crollato. Sarebbe successo, lo sapeva, era solo questione di tempo.

 

È morta sola… è sempre stata sola… e così è morta…

Non l’ho nemmeno salutata. Nemmeno un bacio, una parola. Ed è finita.

Si sente morire dalla pena. È morta sentendosi sola.

C’erano le sue cose sul tavolo. La tazza della colazione.[2]

 

E avrebbe preferito mille volte subire lo smacco dell’orgoglio ferito e di saperla via, lontana. Viva. E invece era morta. Non aveva fatto in tempo a sfuggirgli.[3]


 



 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, novembre 2010, pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2010

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