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Christine

Parte XIX

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

È difficile anestetizzarsi le orecchie, in presenza di un neonato che urla a squarciagola. Se ne sta appoggiata alla soglia della finestra, lo sguardo perplesso, mentre Christine non fa che scusarsi “Di solito non fa così…” e lei annota, spietata e silenziosa, un minimo margine di consolante trionfo, che, da quanto le hanno riferito, fa sempre così.

Secondo lei, anzi, piange meno quando lo tiene André.

Osserva i gesti della ragazza, mentre lo cambia. Sembrano precisi, come se li conoscesse da sempre. Sempre più perplessa, riflette che lei non ne sarebbe capace. Non saprebbe come trattare con l’infante. Anzi, le farebbe anche un po’ senso. Più che altro paura di romperlo.

“Avvicinati”, le fa Christine, amichevole, intuendo il suo disagio.

Agita le mani davanti a sé “No, no… non c’è problema…”

“Avanti, non succede niente…” sorride, alzando la voce per sovrastare quella del figlio. “Niente di peggio di questo baccano, intendo…” un’occhiata densa di significati. Ricambiata.

Chissà perché i novelli genitori sembrano così ansiosi di condividere l’esperienza con altri? Sperano forse di convincerli e poi coinvolgerli in uno stoico mal comune? O è obnubilamento da entusiasmo? O, magari, da stanchezza?

è che sono a disagio…” confessa. Ma immagina che lei già sappia tutto. La fama la precede. Ed ha l’utile, a suo parere, corollario di rendere superflue spiegazioni note. “Non li capisco…” qualche passo incerto verso la fonte del trambusto. Vorrebbe tapparsi le orecchie, ma resiste, non le pare granché educato.

Le sorride, Christine. “Scusa… non sono affari miei, ma tu… tu non pensi di…”

Per carità di dio, ci manca solo questo, si dice. E, imbarazzatissima, si trincera dietro un “E come potrei…” che lascia libero campo alle interpretazioni. Dalle più ottimistiche, a quelle più pessimistiche. E che, dicendo tutto e niente, chiude il discorso. Bisogna fare sempre così, ha imparato, altrimenti alle donne vengono ripetutamente chieste spiegazioni, che, tra l’altro, non approdano mai a niente, se non a frasi e luoghi comuni. Fiato sprecato, tempo sprecato. Condannate ad un ruolo, condannate a giustificarsi, se vogliono difendersene – difendersene per il solo ed unico obiettivo di fare altro –. Un uomo non dovrà mai farlo, un uomo non dovrà mai spiegare perché. Anzi, ad un uomo nessuno mai lo chiederà. Tutto qui. Siamo condannati in ruoli e personaggi e schemi, solo che lei non vuole, non vuole e basta. Ha questa possibilità, dolorosa, strana, di essere se stessa, al di fuori di ogni struttura e ipotesi, l’ha vinta alla lotteria della vita, condanna o privilegio, dalla nascita, e vuole sfruttarla. Avere una vita piena, fatta di anche di sé, delle proprie passioni, senza doversi sentire diversa, strana, per questo.

Se Oscar risplende, così, senz’altro che se stessa e la sua vita interiore, che male c’è? Se Oscar, dal dolore, dagli errori, fosse anche solo dal passato e dal tempo, sta imparando, perché ributtarla indietro? Che mi lascino vivere, pensa!

 

Le grida risuonano nel vuoto delle pareti. Hanno un che di metallico. Ha un mal di testa feroce, e non riesce a farlo smettere. Non ci riesce.

 

Un’occhiata. Si stupisce di come ciò che prima la rallegrasse, ora la lascia indifferente. Non la scalda più.

Guarda le piante con un velo sul cuore, oppressa. Le cura. Ma non trae più gioia da esse.

Cos’è che spegne Christine giorno per giorno? Cos’è che le fa sentire un male di vivere che prima le era estraneo? La distanza di André, certo, anche se ora sembra in parte colmata. Quello era stato il primo segnale. Capire che le cose erano cambiate, che lui non si trovava bene, con lei. E il senso di solitudine e sconfitta che aveva provato, nel venire a patti con la consapevolezza di quella realtà diversa. E decidere che con lui era finita. Dirglielo. Era stato un colpo pesante, ma lei è forte, lei vuole andare avanti. Ora lui vorrebbe restare, invece. E fa di tutto perché lei lo apprezzi. Si sente stanca, e confusa. A volte vorrebbe tornare ad abbandonarsi alla fiducia. A volte, sta troppo male per tutto. E c’è Daniel, così piccolo e indifeso, e dolce, e urlante, che le ricorda troppo lui e che le riempie la vita. E lei vuole vivere. Per lui e per se stessa. Ne è convinta. Lo vuole.

Faccia quello che vuole, André. Lei il suo errore l’ha fatto, e non vuole ripeterlo. Lei l’ha lasciato libero. Vada. Resti. Faccia come crede.

Non se ne è ancora andato e la scusa è il bambino. E aiutarla. Lo vede, ci tiene moltissimo. Le fa quasi tenerezza. E, allora, che resti, se è più tranquillo, ma non è detto che le cose possano tornare come erano. Che la aiuti pure, se ci tiene, in quel primo periodo, così pesante e lei è così stanca, e poi si vedrà.

Ma non è neanche questo. Qualcosa che trascende situazioni contingenti, anche pesanti. Qualcosa che la logora da dentro.

Si sente debole, Christine, come consumata.

Non ha le forze per alzarsi, a volte. Per ripetere gesti consueti.

Per sollevare suo figlio e allora si meraviglia di quanto velocemente stia crescendo e non si rende conto che è a lei che mancano le forze.

“Addio, André. Io me ne vado…”

 

Si gode, in santa pace, il silenzio, la quiete di stanze ovattate. Colori pastello. Il camino acceso.

Casa. Magica parola, troppo a lungo sottovalutata. Casa. Persona. Adulta. Non più figlia. Autonoma.

Se ne sta sprofondata nel divanetto, un plaid addosso, libri a portata di mano, completamente impigrita. E, tutto sommato, soddisfatta. Cerca di non pensare a lui. Chi sei, se non sono io a darti potere sulla mia vita, André? Chi sei, se non riesco a strapparti dalla mia vita, da così dentro che è impossibile pensare. Così profondamente radicato nella mente, nel cuore, nei ricordi, nella pelle, negli occhi. Nelle mani. è passata, prima, sotto casa sua, ha visto le finestre illuminate, l’ha immaginato, raddolcita e rattristata, gelosa e orgogliosa, a spupazzare il pargolo. Ha sentito freddo, dentro, e il bisogno di rintanarsi in casa sua. Come al sicuro.

Anche se casa sua era buia. Vuota.

E, quando è entrata, quando quell’ambiente che ancora si stupisce d’aver saputo mettere insieme le si è presentato, avvolgendola col suo calore, si è sentita un po’ meglio. Forse aveva bisogno di sentirsi meglio.

Ha lasciato che i gesti consueti la prendessero. Come cullandola.

Annusato l’odore di legno dei mobili. Passato una mano sulle superfici. Lentamente riappropriandosi della propria quotidianità. Di quello che lei è. Ora. Dopo tutto quanto.

Ha fatto partire il camino. Una pira sontuosa, al diavolo, stasera va di lusso! Non morirò sola e di freddo, si è detta.

L’acqua calda l’ha distesa. Si è sentita meglio, riemergendo dalla vasca.

Lentamente, rilassata, ha letto un po’, poi, i morsi della fame, e, quasi non reggendosi in piedi – digiuna dalla mattina –, si è trascinata, libro sotto il braccio, lasciato come al solito sull’angolo del tavolo, nella cucina, piccola, ma attrezzata con tutti i moderni ritrovati, funzionale pure per una come lei, che non se la cava molto, ma prova divertimento, come in ogni attività creativa – al di là di quel piccolo tocco di fastidio al pensiero che, nelle famiglie non nobili, sia “attività da donne”, e una certa vaga consolazione al pensiero che i migliori chef sono uomini, chiosando sul fatto che è perché non si investe sulla formazione delle donne che restano ai margini della società –, ed è piena di curiosità, domanda, prova, si scoraggia, a volte riesce, come tutti.

Guarda nella dispensa. Spesso Nanny fa in modo che sia rifornita di brodi, preparati, verdure, in modo che lei debba solo scaldarli. A volte le fa trovare pronto. A volte, fa lei. Dipende. “Mhh, vediamo cosa c’è stasera…” si dice.

 

Ricorda…

“Ma quanto strilla? Com’è che urla così tanto?” Ti entra nel cervello. “Eravamo così anche noi?” le domanda, accorata.

Scuote la testa energicamente, nanny. Disapprova. “No, certamente. Voi eravate tranquillissimi. André dormiva sempre, tu eri sempre impegnata in qualcosa, ma eravate molto buoni.”

Allarga le braccia, come a domandare ‘com’è possibile, allora’.

La guarda in tralice, la nonna. “Oscar, i bambini capiscono…”

Perplessa. Ma quello è un lattante… “E allora?”

“Capiscono quando c’è aria di crisi, quando non c’è accordo tra i genitori.”

“Ma cosa dici? Guarda che…” è un coso in fasce, cosa vuoi che capisca?

“Che quei due si separeranno, stai tranquilla… così non va avanti.” La apostrofa col mestolo. “E il bambino intuisce questo disagio…”

 

Non le spiace affatto starsene sola. A piccole dosi. Se l’equilibrio l’aiuta a non cedere.

Non le pesa, alla fine, se può recuperare i i suoi tempi e ritmi. Se stessa.

Quando, senza che nessuno le metta fretta, si siede al tavolo e cena. E, poi, un libro, le pagine sfogliate voracemente, a ritrovare, poi, le parole lette troppo in fretta, o la musica. Infine, il sonno che la vince e a volte s’addormenta lì, rannicchiata tra le coperte, al sicuro nella sua tana.

 

La guarda incuriosito, André.

È passato a prenderla, come quasi ogni mattina. E l’ha trovata ancora semiaddormentata. Ha sbirciato, incuriosito, dentro, notato la coperta sul divano.

“Entra, è freddo”, gli fa.

“Dammi tempo di lavarmi, faccio presto…” e gli sfreccia davanti. “Scusa, non mi sono svegliata… preparati qualcosa, se vuoi, magari mi metti su anche un tea…” la voce più lontana, già sulle scale.

Sorride, lui, di quell’aria da coppia collaudata. Oscar dice che è più buono, il tea, quando lo prepara lui. Lui sospetta che non sia la sua bravura, ma il fatto che sia qualcun altro a farlo. E si mette al lavoro, considerando che sono buffe, le donne. Quando cucini per loro fanno una faccia strana, apprezzano tutto, probabilmente non tanto il cibo quanto il gesto. Lui si ritiene abbastanza bravo, quindi, pensa, anche i suoi manicaretti. In fondo, è un esperto di pappe, strategie a base di cene di riconciliazione, pianificatissime colazioni a sorpresa, nutrizione notturna del pargolo, sua pulizia e affini… un santo, praticamente. Un po’ ribaldo.

Sale, cauto, i gradini verso la zona notte.

“Scusa, Oscar, ti spiace se mi faccio un caffè?” Si sente importuno ma casca dal sonno.

“Fai pure” risponde con naturalezza la voce di lei, avvolta dall’acqua.

Annota con un misto di naturalezza e intima soddisfazione, forse rimpianto – ma stamattina si sente felice, chissà –, che conosce la disposizione di quasi tutto, in quella casa (il quasi rimanente fa parte della comune rinuncia e lo mette a dura prova). Approva, anche, silenziosamente. Oscar fa tutto bene. Non ha mai avuto dubbi, lui, sorride, orgoglioso, mentre stende una tovaglietta e sistema con cura le stoviglie. Sa che lei è sempre di corsa, ma spera di sorprenderla, facendole trovare apparecchiato. E immagina lo stupore. Pregusta. Spera. Magari invece lo critica per aver fatto qualcosa di sostanzialmente inutile e solo “carino”… nell’attesa, sperando non sia troppo lunga ché si fredda tutto, sprofonda nel divano, dov’e stata lei e forse si sente ancora un po’ del suo calore. E crolla.

 

Due occhi limpidi lo fissano divertiti. A pochi centimetri dal suo viso.

“Buongiorno… di nuovo.”

Perplesso. Poi riconnette.

Troppo vicina, lei.

Troppo vicino il bianco della camicia.

L’odore della stoffa.

Troppo, i suoi capelli, che gli spiovono sopra e lei, con un gesto, li scansa indietro e intanto continua a fissarlo, divertita. Ignara. Forse. Che importa.

“Scusa…” stropicciandosi gli occhi, e lei pensa che quando dorme è bellissimo, con quell’aria indifesa. Innocente. Innocente un corno. Maledetto traditore, nonché inseminatore incosciente. Cretino. Idiota. Calma, ragazza, non è tuo. Molla.

Si rialza.

E, che secondo risveglio, pensa, sfiorandole le spalle, con lo sguardo, poi le gambe. Oddio…

“Tranquillo…”, mentre lui nota che, infischiandosene dell’apparecchiatura, lei regge tra le mani la sua tazza fumante. “Grazie, a proposito”, sollevandola leggermente ad indicarlo. “Tiene caldo…” e sorride, infinita.

 

“Volevo passare da te, ieri sera”, ammette.

Mentre lui, appoggiato al camino, sta terminando il suo caffè, e un lampo di delusione gli attraversa gli occhi.

“Perché non l’hai fatto?”

“Non lo so…”

Il fatto che continui a fissarla, la fa sentire come inchiodata.

“Perché no?”

“Sono cose tue…”

“Ma cosa dici?”

è la tua vita…” alza le spalle, come noncurante.

non voglio che tu ne stia fuori…” e glielo dice con un tono accorato, una voce, che la struggono.

 

Fosse vero.

Potesse essere vero.

 

“Non voglio che tu ne stia fuori”, dice. Ma lei ne è fuori. E se non lo fosse, volontariamente, sarebbe solo un gran guaio. È così.

Ora, si tratta solo di non crollare in depressione e di tenere insieme i pezzi.

Fosse semplice…

 

E invece. Invece vorrei spogliarti, e inchiodarti a quel tavolo, e prenderti e non smettere.

Non smettere mai.


 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, revisione da aprile 2010, pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2010

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

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