Christine

Parte XVII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Non è che ne avesse voglia, stasera.

Ma certo, una mano che si insinua a cercare, tra la pelle e la stoffa, più in basso. E più ancora. E che insiste. Indugiando. Certo, non la lascia indifferente. In questa fame di qualcosa che somigli all’amore. E quelle labbra, le sue, che, sorprese, si premono contro di lui. E con tutto il corpo. Forse, quelle, sul principio, la sorprendono.

Ed è poco, di gesti, che l’altra mano conquista un seno. E neanche la spoglia, quando la conduce fino al letto, e scosta le coperte, sulle lenzuola di raso.

Mentre lei, ancora incerta, sente il corpo premere contro di lui. Il desiderio arcuarsi. E impossessarsi di lei, pigra, che neanche ha voglia di aprire gli occhi.

Solo, gli riporta una mano sul seno. “Qui…” articola, roca.

Mentre le parole sommesse la sfiorano. Di desiderio.

La accendono.

E i respiri. Di lui. Su di lei.

E lei geme.

Lo sente.

Ma non sa che rispondere. Mentre avvampa.

E, lentamente, la sua voce, piegarla, umida.

Le sue labbra.

Calde. Che la sfiorano.

E vincerla. Per quanto tempo occorrerà.

Come una preda.

Ma, riflette, tra loro due non è ben sicura di chi sia la vittima e chi il carnefice.

Mentre, tra le ciglia sfocate, lo vede, disteso, i capelli sul cuscino. Le mani che la serrano. La percorrono.

Mentre la pervade e lei, impazzita, su di lui. I capelli che le spiovono addosso. Lunghissimi. E la nascondono.

E lui la trova bellissima.

E sa che non è sua.

 

“Tuo fratello non c’è?” Affacciata alla porta.

La ragazzina la guarda, illuminata e timida. Ora se ne andrà, pensa… se lui non c’è…

“Mi fai entrare?”

Insperato.

Sembra più ordinato, il soggiorno, quando lui è assente. Le viene da ridere. Per l’osservazione, orrendamente tipicamente femminile, e per di più su di lui. Osserva i libri sul tavolo spoglio.

“Cosa leggevi?”

“Storia… ma”, si affretta a precisare, come a scusarsi, “il libro è così vecchio… è scritto in un modo talmente…” cerca inutilmente la parola.

“Arcaico?”, suggerisce lei.

Annuisce, sempre timida, ma rinfrancata.

 

Riprende il mantello dallo schienale della sedia.

E coglie lo sguardo di delusione. No, non pensava di andare via, no… “Usciamo”, le fa, incoraggiante.

“Dove…”

è un pomeriggio di un tramonto arioso, quello. Un raro sprazzo d’autunno nel freddo bieco dell’inverno.

Cosa si dà ad una ragazzina che non ha altro che la propria dignità, si domanda.

 

Ma sarebbe più onesto domandarsi cosa si vuole da una ragazzina in un pomeriggio di solitudine, di quella solitudine che solo l’amore o l’amicizia vera, quella che può nascere tra donne comunque sole, che siano in coppia o no, possono sanare. A volte ci si sente persi. A volte, un gesto salva. L’abisso si colma, almeno per un po’, e quella voce, quella persona, diventano un’ancora.[1]

 

“Vieni”, in un sorriso complice. “Andiamo a trovare un amico.”

Nota l’occhiata triste, torva.

“Un vecchio amico”, puntualizza. Ma tu guarda la ragazzina, come protegge il fratello… “E mi prometti che resta fra noi.”

 

Non ha avuto, per tutto questo tempo, il coraggio di avvicinarsi, anche se avrebbe voluto incontrarlo. Quella porta era quasi sempre chiusa. Non stava a lei bussare. Sarebbe stato a loro aprire. Era la loro vita, le pareva di intromettersi indebitamente. E li odiava per quello che rappresentavano, anche se non era certo quello che avrebbe desiderato per sé. Ora, ogni passo, il solo aver concepito quell’idea, le pare come aver iniziato a scacciare un demone. Ogni istante più vicina alla guarigione.[2]

 

Non l’aspettava, davvero, a quell’ora. E lei, non sa cosa le sia preso. Si era imposta di starne alla larga. Ma, forse, la presenza della ragazzina la fa sentire al sicuro. Dalle tentazioni. E ha così tanta voglia di vederlo.

Ha l’aria sorpresa, s’illumina, quando apre la porta e se le trova davanti.

 

 

Seduti, al bancone.

Nota che lei lo osserva, attenta.

La ragazzina sembra persa dietro il boccale  di birra, più grande di lei.

“Stai tranquilla”, le ha detto leggera. “Anche tuo fratello la beve spesso…”

André si muove, a disagio, sullo sgabello. Non osa commentare. Oscar, bellicosa, forte, incattivita. E lui? Lui, un mezzo coglione preso in un gioco di donne, che poi è nato come suo gioco? Al massacro, s’intende, trattandosi di loro…

Eppure, se ne stanno lì, si lasciano andare. E si sorprende a ritrovare il suo solito tono, a sfiorarle, trasalendo, la giacca e, piano, intrecciare le dita con le sue.

Sotto lo sguardo torvo della ragazzina. Che pare accampare una sorta di diritto di possesso. Valle a capire, le donne.

Si salutano, poi, ed è come un addio. Come tornare a lasciare una parte di sé.

Anche se è stata ben attenta a non guardare troppo André, a darlo per perduto, come è. A tenere leggero il tono e semplicemente godere di una buona compagnia.

Anche se.

Anche se André ha una casa, sua, vera, in cui tornare e lei fa finta di avere una vita. O forse tutto è nel profondo una finzione, ad analizzarlo in maniera radicale. Quante cose hanno un senso davvero? Quante non si fanno solo per fare, perché usa, senza domandarsene il senso profondo?

 

Mentre solleva la pila di biancheria da stirare, la biancheria di una casa vera, appunto, e dalla cucina arrivano odori invitanti che gli danno la nausea, la rivede, come fosse lì, con lui. Improbabile che Oscar possa essere lì, con lui, a smazzare panni da stirare, onestamente. Oscar… che ti ho fatto?... cosa sei diventata…

In fondo, non è una novità che sia il nostro amore a rendere ai nostri occhi speciali le persone, e non sempre le loro doti. È il nostro amore a vedere in loro qualcosa. Chissà cosa Oscar ha visto in lui. E lui? è lui che, col proprio amore, rende Oscar un qualcosa di unico? No… non è così, o, perlomeno, non è solo così…

“André?!” Una voce scazzata lo richiama alla realtà.

“Arrivo…”[3]

 

“L’hai portata per taverne?” Si scandalizza.

“E, prima, per librerie”, puntualizza lei, paziente. Sull’intermezzo, tace, di comune accordo con la compagna d’avventure.

“Le hai fatto fare tardi! E in che posti…”

“Quelli che frequento io… che frequenti tu…” gli fa notare.

“Sì, ma lei è…” e non sa come proseguire.

è una donna?”

“Ecco!”

“E io no?”

“Ma cosa…”

è tua sorella?”

“Ecco! E…”

“E, vediamo…” si domanda quale sia il più vieto campionario che un fratello cazzone possa annoverare sulle spalle del mito della sorella vergine pura ed eterna bambina. “Ah, ecco! E lei queste cose non le conosce, non conosce il mondo?”

“Giusto!” Approva.

“E, mhhh, vediamo, è ovviamente diversa dalle altre, da ogni donna che ti sei scopato, quindi destinata, nel tuo immaginario, a trascendere ogni tipo di questi problemi…”

“Ma che cavolo…”

“Insomma, non essere infantile. Non puoi tenerla tutta la vita sotto una campana di vetro. O le farai solo del male.”

“Non è tua sorella!”

“Se questa è l’unica obiezione sensata che riesci a fare… lasciamo perdere…” se ne va. Delusa. Ma cosa si aspettava?

Poi, però, torna sui suoi passi. “Razza di idiota! Pensavo fossi diverso!”

“Che vuoi dire?!” Provocato. Allarmato.

“Sei un retrogrado.”

 

Si preme la testa di lui contro il corpo.

Sente il suo respiro sulla pelle.

 

Piano, lentamente, l’ha spogliata.

Ha cercato con la mano i seni, tra i lacci della camicia.

Poi, le labbra.

Scivolando tra pelle e stoffa.

Oggi ha gli occhi tristi. Sembra domandargli di farle dimenticare tutto. Sembra voler annegare nel sesso.

È come una sfida, distrarla.

 

Si è premuta addosso le mani di lui.

Desiderava solo la facesse impazzire. Affidarsi totalmente a lui e non pensare più a niente.

 

 

“Ti va?” Speranzosa. Timida. Ma la maschera è l’indifferenza, pronta a parare il rifiuto. Lo capirebbe. Ha da fare, compagno, famiglia.

Un’incursione a sorpresa. Una proposta imprevista. Ma ha davvero voglia di andare via, di staccare.

“Perché no?” Rosalie, la sua amica avvocato, poco più giovane di lei, una storia con un ex collega passato al giornalismo, un figlio piccolo, François, chiamato così in suo onore.

“Ma è sempre per lui?” si domanda, con un’ombra. Non è disapprovazione, no. È la tristezza di vedere chi si ama accanirsi alla ricerca del dolore. Senza scampo. Non c’è bisogno di nominarlo. Conosce la storia, anche se lei gliene ha parlato pochissimo. A sprazzi. Con amarezza, a volte distacco. E pudore.

Riprende il mantello. Un sorriso. “Dai, ti faccio sapere, penso di partire giovedì prossimo…”

“No, aspetta, fermati.” La richiama. “Parlami di lui.”

Si volta, sorpresa, la mano già sulla porta.

E la richiude dietro di sé, lenta.

 

Si sorprende. È abituato a sapere dove è, ad esserci. “Come mai?” Con un senso di inquietudine.

“Un pellegrinaggio della memoria”, sorride, in un’allusione triste.

È un distacco malinconico, per entrambi. Ma Oscar non sa come altro sopravvivere. E lui deve accettare.

 

“Ci vediamo quando torni, allora”, le ha detto, l’altro. Ma anche lui registra come un senso di mancanza. Gli viene da pensare che, sì, è nato a Parigi, ma è tanto che vorrebbe andare via, lontano. Giù, al sud. Su, al nord. Chissà, su una collina, da cui si veda il mare. C’è stato, in un posto così… quando andrà in pensione, forse, comprerà un terreno in un posto così… ma quell’inverno sembra più freddo degli altri, e il braciere non scalda mai abbastanza.

 

E, così, se ne vanno, loro tre, sole. Libere.

Il che, riflette, vuol dire inequivocabilmente sole.

Meglio così. Si dice.

Si sente meno, il freddo, quando non si è soli.

 

La libertà non sa cosa sia. Si sente il peso, addosso.

Si domanda se loro vedano il suo stupido, insulso, dolore. Il suo cuore spezzato.

 

Se ne stanno lì, attorno al fuoco.

Le fiamme scaldano i riflessi pallidi delle loro figure. Colorandoli di calore.

Sono parole di silenzio, quelle che risuonano sorde nel buio. Sembrano piatte, prima. Inutili. Ma dirle le riempie. Scambiarle dà loro più senso. E pena.

Si potrebbe anche tacere – e spesso lo si fa –. A volte, no.

Quando il dolore, il disagio, vanno pronunciati, non perché acquistino realtà, ma consistenza a chi parla e a chi sa ascoltare. 

Spiagge. Fuori stagione. Abbandonate. Sole. Quando le onde bruciano di gelo, grigie. E il cielo si richiude su di loro.

Non sarà mai più lì, con lui, sì dice, e non sa cosa passi per gli occhi e la mente delle altre due. Gli occhi grigi dell’amica, quelli scuri della ragazzina. Le mani intrecciate. Gli sguardi pensosi. Quali realtà nascondano. I loro cuori. I loro segreti.

Sente l’umidità fuori stagione. Dell’abbandono. Della solitudine. Sono paesaggi fatti per le coppie, riflette, e, anche se loro tre non sono sole, non va bene comunque.

 

Nasconde un peso, dentro, la ragazzina. Perché ha capito. E sa che non sarà lei. E neanche lei arriverà a salvarla da quella vita. L’amicizia, la vicinanza, non è egoismo. E, così, le vuole bene, anche se sa che non le cambierà la vita, e di essere destinata alla desolazione, dei sentimenti e dei mezzi. Ma, ora, questa realtà esiste, tanto vale viverla, si dice.

 

Si è quasi abituata, a svegliarsi con lui accanto.

Ora, non le accade più di sorprendersi. Di restarci male.

Capita, quando i turni lo consentono. E lui subito la raggiunge. Se può.

Non sta male, con lui.

André l’ha chiuso in fondo al cuore.[4]

 

La guarda, che si copre con le lenzuola. Calda di sonno.

Ha finito il turno di notte. Un lampo di follia. Farle una sorpresa. È entrato con le sue chiavi. “In caso d’emergenza”, gli aveva sorriso, ironica, quando gliele aveva consegnate. Ma non pensava che ne avrebbe fatto quell’uso. Sagace, il ragazzo.

Ed è l’immagine più intima ed erotica che abbia mai visto, lei, il raso che le scivola addosso, mentre si gira nel letto, e gli tende una mano.

È appena l’alba. Hanno ancora qualche ora.

 

Le scorre dentro in un brivido.

“Non sai quanto lo desideravo…” Le dita di lei a guidarlo, che lo sfiorano, scorrono, e lo fanno impazzire.

 

È vero. Sono giorni che desidera averlo. Notti che, lo immagina. Solitaria.

Ma non basta. Non può bastarle.

 

Lo ricorda, inginocchiato accanto al letto, le sue labbra, lingua, a premerle contro, umida. Il respiro farsi pesante. Passargli le mani tra i capelli, e volerne ancora, ancora.

 

 

Ora, il tradimento è davvero completo. Il corpo. I sentimenti. L’amicizia. La vita. Forse, l’amore.

Ora sa che di lui potrebbe innamorarsi.

Ora sa che lui le piace.

Che lo trova bello. Pieno di fascino.

André le piace. Lo ama. L’ha amato. Ora è finita. Le fa tenerezza. Lo trova bello in una maniera intima. Carica di affetto. E di amore. Sono gli sguardi, che lo accendono. Le espressioni. I sorrisi. La voce. Le mani.

Alain è bello. Bello e basta. Bello e tutto. Lo guarda, e non può fare a meno di pensarlo. Di provare un brivido. Nello scoprirsi affascinata da lui. Nel capire che le piace. Che lo trova attraente, e molto. Nel ripensare a tutto.

Dovrebbe buttarsi ogni cosa dietro le spalle, magari pensare che il peggio è passato.

E, invece, si dice, forse deve ancora venire.

Perché ha paura.

Perché forse il suo amore per André è andato. Ma lei non vuole lasciarlo morire.

Non ce l’ha, questo coraggio.

Preferisce restare, ancora una volta, sola. Senza uno straccio di compagnia. Senza le loro bevute. Le parole. I silenzi. Senza il sesso. E chiudere questo amore – o quello che è –. Prima che sia troppo tardi. Per l’amore che nasce. E per quello che altrimenti morirebbe.

 

André non li ha mai visti. È una fortuna, si dice. È stata cauta. E spera lui si sia messo l’animo in pace.

Che non accada più come è stato in passato. Che lui non torni a cercarla temendo di perderla o che qualcun altro l’abbia. Ora non è davvero il caso che combini altri guai. Non ora.

E, comunque, considera, se deve finire…

E, così, considera, sarà libera di restarsene sola, in santa pace, a soffrire come un cane.

Le mancherà da morire. André. E anche l’altro. Ma è meglio chiuderla qui, riflette. Di errori ne ha già fatti abbastanza.

 

“E chi lo dice a Diane…”

Sospira, le mani incrociate dietro la testa. Bello e deluso.

Ancora bagnato di lei. Abbandonato sui cuscini.

Non che non se l’aspettasse, anzi, era da un po’ che si domandava quando sarebbe successo.

Ma non si nasconde che ci aveva sperato. Per un lungo attimo. Illuso. Davvero.

E, anche lei, sente una fitta al cuore.

Perché si era affezionata a quella ragazzina e, ora, le infliggerà l’ennesima delle mille delusioni della vita. E, in una vita come la sua, ce ne sono già troppe.

“Mi dispiace…” gli passa un braccio attorno al corpo.

“Vieni qui…” la abbraccia.

 

Restano così, senza parlare.

Lui, che gioca coi suoi capelli. Lei che respira piano sulla sua pelle.

“E quanto durerà, questa notte…” le domanda, un po’ triste.

“Quanto vorrai…”

 

Si gira, i seni tesi, tra le sue braccia.

“Ti voglio ancora”, gli dice. “Ti prego…”

E vorrebbe piangere.

 

Le costa troppo, rendere omaggio alla memoria del suo antico amore.

Lo accompagna, quella mattina, alla porta, nella luce pallida dell’alba che pervade la stanza. Poi, stacca la mano dalla sua. Imponendosi di cancellare la memoria di quel tocco. E le immagini delle mattine in cui l’ha trovato sotto, a prepararle la colazione. E dei risvegli.

Ma non può, quando lui, all’improvviso, la serra tra le braccia. E restano lì. Soli. Feriti. Circondati dal loro addio. Per sempre.

 

Si sente meno in colpa, da quando l’ha lasciato.

E molto più sola.

 

Ha già scritto mille addii.

Basta abituarsi, in fondo. Basta costruirsi una piccola routine, delle consuetudini. Non vivere nella merda totale, che non aiuta. Non essere del tutto soli, quelle volte che si ha bisogno di una mano e potersi isolare, quando se he ha voglia. Rosalie è stata preziosa, in questo senso. Ha spesso rispettato i suoi silenzi, tollerando di sparire dalla circolazione, e camminato tanto, accanto a lei, vagolando nei discorsi e nei vuoti. Serate da ragazze, libere, stanche, avvolte nelle oscurità medievali delle strade grigie, gli sguardi azzurri al cielo, sedute sui gradini di una chiesa, una birra in mano, l’altra stringe la sua solitudine.

Le invidia, a volte, il solidissimo compagno, l’uomo che riga molto dritto. Pensa che non vorrebbe dimenticare questa serata, le sensazioni, le stelle. L’animo triste, ma che comincia ad aprirsi.

Ha amato André, ma ha chiuso. Non lo dimentica, ma lo lascia andare. Fa male, ma è così. C’è una traccia, sottile, in fondo al suo cuore, legata alle lettere del suo nome. Alla voce. Ai ricordi. E non si cancella. Ma bisogna andare avanti. È lui che, in fondo, gliel’ha insegnato.

Forse un giorno troverà qualcuno per lei. Per ora non vuole pensarci. Ha accantonato il ragazzo, e il suo amore, e ora si limita a vivere. Osservare. Recepire. Riprendere fiato.[5]

 


Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, revisione maggio, agosto 2008, aprile 2009, pubblicazione sul sito Little Corner aprile 2009

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] 19 aprile 2009.

[2] 22 maggio 2008.

[3] 19 aprile 2009.

[4] Riga aggiunta il 26-3-2007.

[5] Parte, tranne la I riga, del 26-3-2007.