Christine

Parte XVI

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

O pensare di avere un domani per stare lontani…

tutti e due immaginarsi con chi sarà…

 

F. Guccini, Farewell, 1996

 

E siamo qui, spogli, in questa stagione che unisce…

 

F. Guccini, Canzone delle domande consuete, 1990

 

Che peso, alzarsi, la mattina. E trovare un senso alla vita. Agli sguardi.

Vorrebbe odiare lui, per averla costretta a fronteggiare la realtà dell’amore. Ma non serve a niente.

 

La porta di André è sempre chiusa, ormai. Ostinatamente. Vita diversa. Vite separate. Lei, quasi sola, loro a far quadrato tra i cocci. La triste parodia di una coppietta. E lei una persona sola. Infinitamente sola. E stufa di esserlo.

Ogni volta che li vede è una stretta al cuore. Ogni volta, una sofferenza. Perché il loro restare assieme le ricorda, spietatamente, la sua solitudine. Imposta. Non scelta, e quindi più dolorosa.

Vorrebbe avere il coraggio di passare da loro, di bussare. Ma è come scendere a patti col nemico. Umiliarsi. Sola, rabbiosa, resiste, allora. Forse, un giorno, passerà.

Sono sere buie, senza sapersi godere neppure la pace, la libertà della sua casa. A volte non ha la forza di muovere un passo. Neanche di prendere un tea, un libro. Vegeta o quasi. Eppure è stanca, quando si trascina fuori di casa, dicendosi, in qualche modo, di reagire.[1]

 

 

“Chi era quella dell’altra sera”, lo apostrofa, alticcia.

“Che importa…”

“A me importa.” Un altro sorso.

“Un’amica.” Tenta di sfuggire.

“Come me?” Lo incalza.

“No.” La fissa.

“Te la porti a letto?”

“Sì…”

“E allora, non fa differenza…” conclude, logica, spietata. Un altro bicchiere. Le dita serrate.

“La fa, invece…” Stavolta non mi sfuggi.

“Perché…”

E lei sa d’aver fatto il passo sbagliato.

E teme di conoscere la risposta.

“Perché non la amo.” La inchioda. “E non ne sono neppure innamorato.”

Lo guarda, il bicchiere dimenticato tra le dita.

Crolla sul tavolo. “Cazzo…”

Un sorriso incredulo. “Ti giuro, non m’era mai capitata una risposta del genere…” La guarda, ammirato. “E non lo dico spesso, sappi…”

Lo guarda, allibita.

Vorrebbe che il tempo tornasse indietro. Che lui avesse taciuto.

Eppure, forse non c’è davvero altro da dire.

Ma lei, lei non ha ancora imparato ad essere come gli altri. Si porta dentro tutte le paure. E il dolore.

Forse è il caso di tentare uno straccio di spiegazione. Forse sarebbe piuttosto il caso di un corso rapido di risposta alle dichiarazioni, si dice. Mentre la curiosità di sapere quante volte l’abbia detto nasce, subito viene soffocata.

“No.” Ti prego. No. “Non farlo anche tu…”

“Non importa per quanto. Sparirò. Quando vorrai. Ma è una richiesta onesta… lascia solo che ti ami.”

 

La riaccompagna, nella notte.

Come le altre volte.

Ma stavolta si permette di tenerle un braccio attorno alla vita. E nota che sembra andarle bene. Quindi non lo sposta.

“Allora, non mi hai ancora risposto… chi era quella?” Sospettosa.

Ride “Ma non eri sbronza?”

“Sbronza, sì, ma connetto benissimo.”

“Senti, non c’è stata nessuna, mentre vedevo te…”

Un moto d’imbarazzo, nell’incassare quelle parole. E la realtà, duplice, sottesa.

“Ah… quindi ci vedevamo.”

“Dato che m’avevi scaricato, ho ricominciato a incontrare altre ragazze… tutto qui.”

è così semplice, per voi uomini” domanda, sarcastica. E in realtà è solo un modo per mascherare la sorpresa. E il sentirsi grata. E ferita. Per prima. Per adesso.

 

Sorpreso, la guarda prendere una strada diversa, ai margini del parco. Curioso, la osserva mentre apre una porta. Di casa.

È stato l’impulso di una sfida a se stessa. E di uno schiaffo ad André. Tradirlo. Lasciare entrare l’altro. Casa. Vita. Privato.

 

È la prima volta che mette piede lì dentro.

Aspira l’odore delicato che regna. Lascia che il calore che emana quell’ambiente lo pervada, coi suoi toni pastello, ma caldi. Gli ocra. I salmone. L’avorio di quel piccolo divano strategicamente piazzato di fronte al camino. Il carta da zucchero di alcuni mobili.

Guarda stupito attorno a sé. Poi lei. Ammirato. Poi, di nuovo, compiaciuto, intorno.

è bellissimo, qui…”

E, in quelle parole, vince l’imbarazzo e il senso di colpa e tradimento di lei, che davvero non s’aspettava un essere umano.

La raggiunge da dietro. Le mani sulle spalle. Ad aspirare il profumo dei suoi capelli. “è come se…” le si fa più vicino. “Come se ti rappresentasse…” le respira piano, vicino.

“Davvero?”, si gira, grata, tra le sue braccia.

“Sì”, intensamente.

Serrandola di più a sé e pensando che è dimagrita ancora.

Lasciandole scorrere le dita sulla schiena, tra i capelli.

E lei resta lì, contro il suo petto.

A pensare che, forse, è lo stesso.

Gli occhi pieni di lacrime di rimpianto.

 

È andato via…

È andato via…

 

Mi sento sola come un cane. È come se stessi aspettando disperatamente qualcuno che venga a salvarmi… è assurdo… ridicolo.[2] Lo vedo nei gesti. Impazienti, d’attesa. Nel non trovare requie né conforto.

Eppure, pensavo di essermi abituata a stare sola.

La mia vita non mi dispiace. Faccio le cose che amo…

Eppure, è come una mancanza ancestrale, un’assenza totale, quella che sente.

Ha sperato di potersi adattare all’idea che lui comunque, in qualche modo, stesse bene. Che dedicarsi alla propria casa la appagasse, in qualche modo. Chissà perché, riflette, ora, si tende a pensare che basti avere una bella casa, per essere felice… le pare un’enorme idiozia. Bisogna saper essere felici, se proprio si ritiene che si debba esserlo, ed è un’arte. Che richiede impegno ed energie. Una positività che lei non sente d’avere – sta appena imparando a cercare di essere serena. Di non sprofondare nel dolore. Un dolore atavico, che pare l’accompagni da una vita intera.

 

 

Poi, una sera, è arrivato lui.

E un’altra sera è tornato.

 

È stato forse come sentirsi a casa.

 

Era strano pensare di condurlo a vedere le stanze. Lui che, curioso, felino, la seguiva. Poi, osservarlo, di spalle, osservare, a sua volta. Approvare.

 

Era strano pensare di ricominciare, piano, da un tea preso insieme. E vecchi discorsi interrotti.

 

“Cucini?” Si era sorpresa. Lo squadrava ammirata.

“Certo”, come farei, altrimenti. Che tipa assurda.

 

Erano appoggiati alla finestra della piccola cucina, quando l’ha baciata. È stato all’improvviso. È stato tenero.

Era emozionata come fosse stato il primo bacio, quando si è staccata, le guance accese, gli occhi scintillanti. Quasi senza fiato.

Era come ricominciare.

 

Era come un nuovo inizio. Ma, alla fine, che importava? Inizio, fine… erano due esseri umani. Soli.

 

 

Solcherò il tuo corpo come se fosse terra

Cancellerò quei segni dell’ultima tua guerra

Poi brucerò col fuoco quest’erba tua cattiva

E ti farò con l’acqua più fertile e più viva

 

Braccia magre e definite. Ciglia scure chiuse su occhi blu.

Capelli che coprono corpi.

 

E pregherò che il sole asciughi questo pianto

E pregherò che il tempo guarisca le ferite

 

Combatterò col vento che non ti porti via

 

Poi spargerò il mio seme nella tua verde valle

E aspetteremo insieme che venga primavera

(R. Cocciante, Primavera)

 

“Prendi”, glieli passa. “Mettili.”

Cazzo, sempre fredda, ‘sta donna. Non c’è speranza neanche se si scioglie in lacrime.

“Per forza?”

“Altrimenti niente, vedi tu…”

“Va bene, che palle…”

“Non fare lo stronzo. È sempre meglio che una sega come prima, no?”

Poi aggiunge, perfida. “Tanto, la prova l’hai già fatta, no?” Sai cosa ti perderesti…

Che femmina… e la osserva armeggiare con quei cosi da donne. Quante fisse ‘sta ragazza…

Ma ne vale la pena, pensa, sommamente soddisfatto, mentre prende possesso – legittimamente, stavolta, – di lei, calda, e la fa sua. All’infinito. Come se a lei non bastasse mai e lui ne fosse consapevole. E a lui neppure. E non fosse una mera questione di sesso. Ma di solitudine. Di tristezza. Di vita o di morte.

 

Scivola fuori da lei.

E lei già ne sente la mancanza.

Aderendogli contro in ogni minima parte.

Lo costringe ancora, dentro di lei. A darle di nuovo piacere.

 “Ti voglio”, impera.

Le mani che gli graffiano la schiena.

“L’ho detto prima io…“

“Sessualmente parlando, ragazzo…” precisa lei, ansimando.

“Io non ho detto niente…”

“Ah, ecco…”

“Solo che sei mia…”

 

‘Fanculo, pensa Oscar, tra le lacrime.

I capelli sparsi sul cuscino. Le lenzuola in disordine. Come il cuore.

‘Fanculo al Grandier.

‘Cazzo, quanto sono sbronza. Forse dovrei bere ancora. Giusto un po’…

‘Fanculo lo stesso…

Appagata. Piena. Confusa.

André è meraviglioso. Ma io devo sopravvivere. Vaffanculo, stronzo.

La prossima volta, pensaci.

 

Si sveglia accanto a lui.

In quella che era stata la casa, in quello che era stato il letto, pensati per l’altro.

Oddio, e questo chi…

Ahhh… risveglio alcoolico. È l’altro…

Bello, però… ad accarezzarlo con lo sguardo.

Certo, lei ormai ha l’imprinting dei tipi come il Grandier. Ma il ragazzo non è proprio da buttare. Osserva, ammirata, quasi compiaciuta, la preda. Stenta quasi a rendersi conto che è una conquista. Però, si dice, ragazza, niente male!

 

Fa male pensare che si è scelto di mettersi alle spalle un amore.

Si osserva. Attraverso l’acqua che colma la vasca.

Guarda il ventre e pensa che è stato dentro di lei. Piacere. Disgusto. Desiderio. Disagio. Non sa cosa prevalga. Se lo voglia ancora. Se preferisca non saperne più niente.

Soffoca un brivido nell’acqua bollente.

Si domanda se si cambi, nella sostanza, ad accettare i compromessi della vita.

Non si sente più quella di prima. Era stata solo di André. C’era stato solo lui, in lei.

E adesso è diverso. E non le piace.

Anche se è difficile farne a meno. Quanto lo è venire a patti con una sorta di integrità emotiva ed affettiva.

E odia, finalmente riesce ad odiare, lei. Perché è stata costretta a parlarle alle spalle di André. E lui non saprà mai cosa ha fatto e quanto le costi. Perché per restituirglielo ha dovuto tradire. Lui. Il loro amore. Se stessa. Perché nel suo letto ora c’è un altro ed è diverso da prima, da quando lo teneva a distanza. Ora, è troppo distrutta per affrontare tutto da sola. Ora ha bisogno di qualcuno che in qualche modo la sostenga. E lui non è André.

Non vuole vederla. Mai più. Non vuole averci più niente a che fare.

Si passa le mani sugli occhi.

Come farà, si domanda, ogni giorno con lui accanto? Riuscirà a sopportarlo, ora?

Non riesce a pensare di allontanarlo. Di allontanarsi.

Ma non sa davvero come farà, d’ora in avanti.

 

Appoggiata con la schiena a quella di lui.

Le passa una mano lungo il corpo. Indolente. Insistente.

Si inarca in un brivido.

Le piace stare così.

Sa come va a finire.

Lo sente crescere contro di sé. Mentre dita scorrono umide fuori da lei e la sfiorano.

 

“Guarda che adesso stiamo insieme” le fa notare.

“Ah…” Quindi non posso scoparmi il Grandier, se capita. Tanto non capita…

Si sente lievemente a disagio con quell’idea. Ma che gliene frega, in fondo.

Lei non vuole essere di nessuno, va bene. Ma uno che scopa così non è da buttare, in fondo.

 

Ha troppa voglia di piangere, in questo periodo. Si commuove per niente. Poche righe lette in un libro, uno spartito. Ma solo quando è sola, rigorosamente. Non è che piangere sia da donne. Piangere è un lusso. E chi vive a contatto con la realtà, chi la vede, la sfiora, e la realtà non sono i problemi della corte, ma quelli della gente, deve resistere. Legge, legge furiosamente. Rilegge, spesso. E frequenta anche Rosalie e il suo compagno, condividendo con loro le sue idee politiche. Un modo, anche questo, per restare fedele a lui, a quello che le ha insegnato. In fondo, la sua formazione la deve a lui. Che ha avuto il fegato di confessarle che andava a delle riunioni politiche, per capire, che leggeva e le ha passato i testi. E, dopo, dopo quel gran rifiuto, a lungo non gliene ha più parlato, ma lei ha ritenuto un imperativo morale riprendere i suoi valori, perché li condivideva.

Si scopa il ragazzo, ma porta dentro ancora l’idea di onorare la memoria dell’altro.

 

 

L’ha incontrato, vicino ad una libreria, con una ragazzina, in libera uscita. Quasi ha provato un moto di dispetto, nel vedere quella familiarità, lui che le teneva il braccio sulla spalla, come la guardava con affetto.

“Ciao…” un po’ di disagio.

“Buongiorno, mio colonnello”, la saluta lui, irriverente.

“E lei…” taglia corto.

“Mia sorella…”

Stenta quasi a crederlo, che quella ragazzina, esile, un mare di capelli, possa avere una qualche parentela con lui. Così delicata. Bella.

“Ciao”, le porge la mano, amichevole, ora che sa che è sua sorella e prova fastidio nello scoprirsi possessiva.

 

È un soggiorno dignitoso, spoglio. Lui, di là a preparare un tea.[3]

È seduta al tavolo, si è conquistata la sospettosa curiosità e la fiducia della ragazzina, quando le ha regalato un libro. Lo hanno scelto insieme, in quel negozio.

Ma non sa che la ragazzina già un po’ la conosce.

Che il fratello le ha parlato brevemente di quella strana ragazza, così bella.

E non sa quanta ammirazione, in segreto, covi per lei.

E, ora, ora che l’ha accanto, e può osservarla, sta lì, quasi timida, e non può credere che stiano sfogliando un libro insieme.

Passano, le ore. Passa quel pomeriggio.

La saluta, ora, dalla strada.

E, forse, si sente un po’ meno sola. Ma si domanda quanto durerà.

 

La guarda pensoso, addormentata accanto a sé.

Un gesto a carezzarle i capelli. Silenzioso.

Le tracce delle lacrime. Si vedono piano.

Si domanda quale sia il nome a cui pensa, muta, prima del sonno.

 

“È un gran bel ragazzo, quel tuo amico…” butta là. Compiaciuta.

“Mh…” imbarazzata.

“È così giovane e sembra già un uomo. Vedrai come sarà tra dieci, quindici anni…”

Occhiata fugace, sempre più stupita dall’audacia.

“E André, non s’è più visto…”

Alza le spalle, lievemente scornata.

“Non l’hai più visto neanche tu?” Tocca infierire, con una ragazza così tragicamente inesperta.

“No…” desolata. Fintamente indifferente.

“Impegnato?”

“A me pare. Leggermente sposato, più che altro.” Incattivita.

“Sai, è tutta questione di tempi…” da madre a figlia.

“Ma come parli?” Qualcuno la fermi…

“Sì… dovete imparare i vostri tempi…”

Oddio, pure…

“Non è un po’ tardi?”

“Dici?” Un’occhiata assassina.

“E anche per fare questi discorsi? Non è un po’ tardi?” Alza la voce.

“No.”

Una pausa.

“Ad essere sincera, ho sempre sperato in lui, per te.” Un’alzata di spalle.

Occhi increduli.

Ma cosa…

“È intelligente. Ti rispetta. Soprattutto. E mi pare innamorato di te.”

“Non mi sembra… e comunque, non ha nessun senso.”

“Sì invece.”

“E, spiegami, come?”

“Mettiti con lui.” Un gesto noncurante. “Appena si libera, s’intende…”

“E mio padre, che direbbe?” La incalza. Con l’unico argomento che regga. Mentre il cuore sobbalza senza controllo.

“Oscar, tuo padre è uno sciocco.”

“Vuoi dire che tutta la vita mi sono sacrificata per niente?”

“La tua libertà, la tua autonomia, le chiami niente?” La guarda, con severità e disapprovazione. “Volevi finire in una famiglia a sfornare figli, tiranneggiata da una suocera e dai parenti più anziani, prima, per poi finire fagocitata dai figli? O dalla corte. O dalla vita campestre? Clavicembalo, canto, danza gli unici svaghi… Davvero avresti voluto questo?”

“No…”

“Quello che puoi avere è molto di più.” Non le lascia scampo. “Solo che non l’hai ancora considerato. Forse è ora che impari a farlo…” La mette all’angolo. “Lui ti avrebbe rispettato. Lui sarebbe stato perfetto per te.”

 

Sì, esatto! Sarebbe stato, pensa, rabbiosa, mentre serra l’altro tra le gambe, con più ostinazione del solito. E lui gode. Mentre si muove, intensa, su di lui. E lo sente scorrere. Dentro. Fuori. Ancora.

Fammelo dimenticare, ti prego…

Fammelo dimenticare…

 

 

Non è più, la mattina, incontrare André e provare la soddisfazione di aver dimostrato a se stessi di poter tradire l’amicizia di una vita. C’è un vago senso di rimorso, ora. Di rimpianto per qualcosa che lentamente si spegne. E di addio.

Non è più non poterlo neppure sfiorare con lo sguardo, per quanto fa male, dentro.

È diverso.

È rivedere altri brandelli di immagini. Altri corpi. Altre pelli. Altri respiri. E voci.

È come veder crescere la distanza. E sapere di non potersi permettere di colmarla.

Non è più neanche fingere.

Le cose cambiano.


 


Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, revisione maggio, agosto, settembre 2008, pubblicazione sul sito Little Corner ottobre 2008

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] 22 maggio 2008.

[2] 3 agosto 2006.

[3] Luana, grazie per il tea e l’idea.