Christine
Parte XV
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
André ti tiene attaccata a sé. Ti tiene avvinta.
In un modo inconsapevole, forse, o forse no, riflette, crea le condizioni perché si resti assieme. Che sia abitudine, che sia ostinarsi a negare l’errore, la sconfitta. O che sia – sia stato – amore, ancora, in qualche remoto strascico.
Prova rabbia, Christine. Stanchezza di tutto. E un dolore sordo, dentro, che quasi la spezza. André l’ha dannata alla solitudine dei sentimenti. Ai troppi silenzi che la attraversano. André è un inganno. Lo odia, e vorrebbe forse terminarlo. Vorrebbe avere la forza di lasciarlo o non averlo mai conosciuto. André è diverso. O è cambiato. O, forse, semplicemente, sono sbagliati loro due assieme.
Non sa se con l’altra sarebbe finita così, dopo un po’ di tempo. Si domanda, con cattiveria, se anche l’altra non si consideri, in fondo, una scampata al pericolo, crogiolandosi al pensiero. Ma, poi, rimugina, un’altra è la sua vita e di cosa faccia, come viva, soffra Oscar, a lei non importa. Non deve importare. Sarebbe meglio per tutti se Oscar non esistesse. Ma esiste, e c’era da prima. E questo tarlo ritorna, nonostante le parole tra loro.
Eppure, c’è un modo di tormentarsi, di farsi del male, che lei non vuole giocare. Non le interessa. Vuole solo difendersi, evitare che, ancora una volta, sia qualcun altro a farle del male. Vorrebbe solo vivere, lasciarsi indietro tutto, compreso il cuore, l’amore e la generosità, e riuscire a vivere. Con un po’ di egoismo.
Egoisti. Siamo tutti egoisti, riflette Oscar.
Abbiamo l’ambizione di volere accanto qualcuno, di pensare che con noi potrà essere felice – e cosa significa, poi? –, senza voler vedere oltre, senza domandarsi come proseguirà, come sarà, giorno per giorno, affrontare un sentimento che annaspa, si arena, si spegne.
Ci si sveglia, un giorno, e si scopre che si prova affetto per qualcuno. Si impara ad amarne le caratteristiche, a sorridere dei difetti, a ricordare e conservare i momenti con l’affetto nel cuore. Ma quanto è difficile coltivare un sentimento, non lasciare che inaridisca fino a spegnersi, renderlo vivido, giorno dopo giorno, ora dopo ora. Quanto è difficile, talvolta impossibile, resistere nell’amore?
E riuscire a saper ammettere, quando accade, che è finita. Saper lasciare andare.
È stanca anche lei, di tutto quanto, anche di André, forse. Capisce che lo sia l’altra.[1]
Cosa rimane del nostro tempo insieme…
Si domandava cosa fosse diventato. Per arrivare a farle quello…
Dimenticare quello che non era amore, e tornare quello di prima. Ma di prima quando? Perché, prima, c’era Oscar. E dopo anche.
La sentiva respirare. Accanto a sé. In quella notte senza sonno. Di attesa.
C’è stato come un segnale nuovo, stasera. Come se qualcosa, nel gelo di lei, si fosse incrinato, negli ultimi giorni. Forse è che non si sente davvero bene, le mancano le forze, ed è costretta ad appoggiarsi a lui. Così finisce per ridere, ancora risentita, dei suoi maldestri tentativi di non farla morire di fame, di prepararle qualcosa di caldo, se è stata male. E lo guarda, scuotendo la testa, usare cento arnesi per fare una cosa semplicissima. E, paziente, quando sta meglio, resta lì, con lui, a riordinare quella confusione che è stato capace di creare dall’ordine che regnava. O, forse, osa sperare, che ci possa essere un modo per rimediare. Per tornare almeno un po’ vicini. Per rifare le loro vite. Al di là della collera. Del dolore. Perché non è mai tutto bianco o nero. E lui sa che questo Christine lo sa bene.
Si fa più vicino a lei. Che da tempo non dorme più abbracciata a lui. Che gli dà le spalle. Un rifiuto ostinato.
Non gli importa. Può sopportarlo, un altro rifiuto.
La cerca. In una carezza lieve, sul collo, scostandole i capelli.
In un sussurro, piano.
Cerca il contatto. La cinge in un abbraccio lontano.
Sono i suoi occhi, lucidi nella notte, che si trova addosso. Il suo respiro. Quando si gira tra le braccia di lui.
Un gesto, per allontanarlo. Infastidita.
“No”, scuote la testa, lui.
“Lasciami in pace…”
“Ti prego… non mandarmi via…”
Sente le sue mani scivolarle tra i capelli.
Poi, sotto la stoffa.
È meno freddo, quella mattina, quando si sveglia con lei tra le braccia. Lei, ancora sulla difensiva, ma meno ostinata. La rabbia sembra aver ceduto il passo ad un velo di tristezza pensosa, nei suoi occhi.
Ha chiuso un pezzo del suo cuore, forse.
E anche lui.
Non sa se sarà possibile tornare come prima. Non sa dirlo.
Ma è un primo, piccolo passo.
Lo guarda in tralice.
Ha l’aria di chi non ha dormito molto, si dice. Un’aria che conosce. Scaccia quell’idea fastidiosa e indiscreta. E un peso addosso in meno, intuisce. Se la sarà scopata a morte, conclude, il pensiero che torna, implacabile e acido.
Considera che sarà difficile fare come se niente fosse stato. Inventare commissioni e impegni per tenerlo lontano da sé – e lui da lei. Perché entrambi possano soffrire un po’ meno. Perché possano continuare a vivere, paralleli, senza incontrarsi mai – mai più, si corregge -. Senza più fare del male a chi hanno attorno.
Ha bevuto tanto, stasera.
La giornata al lavoro l’ha distratta, ma, quando il buio s’è avvicinato, non ce l’ha fatta.
Non è servito pensare che lui la ama. Comunque. Ai loro corpi uniti. Alla piccola casa che è terminata e manca solo qualche mobile, ancora, ma già vive lì. A tutto quello che, nonostante tutto, di positivo c’è ancora.
Non è servito.
Perché lei ora è più sola che mai. L’ha restituito alla moglie. Che se lo terrà ben stretto, incastrato tra pappe, pannolini, veglie, e, magari, tra un po’ una sorellina, che, si sa, gli uomini, tranne suo padre, adorano le figlie femmine.
Ha un moto di disappunto.
Che cazzo di vita sarà la sua?
Guarda il caminetto vuoto. Passa le dita fredde sulla bellissima tappezzeria del divanetto avorio. Non s’intende di cose femminili, ma sembra avere un ottimo gusto – almeno questo, si dice –. Ma non riesce a vedere attorno a sé quello che ha saputo costruire. È stanca e non riesce a vederlo con occhi nuovi. Sente solo la mancanza di quello che non ha.
Che ha, moralmente, ma non può più avere. Perché non può condannarlo ad una vita di falsità (o forse sì?) e a dover rinunciare al figlio.
La odia. La odia a morte.
E ora corre, avvolta nel buio, neanche guarda dove sta andando. Vuole solo fuggire.
Ci vuole egoismo o troppo altruismo per non finire distrutti dall’amore.[2]
Sono occhi che domanderebbero amore, quelli che lo fissano, sorpresi. Di averlo incontrato. Lì.
Lo domanderebbero, se lui fosse l’altro, riflette.
E lui, non s’aspettava certo di trovarla.
Quando l’ha vista, sulla porta. Smarrita. Disperata.
Quando si è alzato dal bancone, “Scusa un attimo”, ha detto brevemente alla sua accompagnatrice, e le è andato incontro in fretta. Come se lei potesse fuggire. Come se per lui fosse importante.
“Perché continui a farti del male?” Gliel’ha domandato così, semplicemente. Mentre le accarezza il viso.
Mentre lei ancora piange.
Scuote la testa.
Sono vicini al ponte del loro primo incontro.
“Lascia che ti ami.”
“No.” La voce trema, tra le lacrime.
“Lascia che ti ami.”
Le prende il viso tra le mani. “Ascolta, ti ama. Lo sai. E tornerà da te. Ma devi sopravvivere.” Nel frattempo. Lo tace.
“Non dirlo!” Perché, ancora, la persecuzione di quelle parole?
Piange ancora.
Lui, lui disse così…
“Smettila! Ora basta… io… io voglio che tu viva.”
Sta lì, senza reagire. Quasi smarrita contro di lui.
“Voglio che tu sia mia.”
Lo guarda, ora. Sorpresa.
“Io ti voglio…”
Ti chiedo.
“Perché… perché?” Perché una come me…
La fa salire sul cavallo. E prende il suo.
In silenzio, la accompagna a casa.
Sul margine della proprietà, la saluta, in una carezza.
“Se vuoi, ci vediamo, uno di questi giorni…”
Lei lo guarda, indecifrabile, disperata, intensa, e non risponde.
“Cerca di stare bene…”
è sempre più difficile, con André, ogni giorno. Non sanno più neanche fingere.
Ogni volta che i loro sguardi si perdono, somiglia sempre più a mille addii.
È da un po’ che lo fissa, a tratti, ponderando i pensieri. Impulsi. Paure.
Se parlasse, potrebbe essere davvero la fine di tutto. Ma potrebbe anche essere una liberazione.
“André…” comincia, senza sapere come continuare.
Un’occhiata rapida verso di lei. Che l’annienta. Perché anche lui sa che le parole possono far male. Come la vita.
Non riuscirà a separarsi da lui. Così, gli sfiora una mano. E, si dice, se non sentirà un brivido, forse sarà davvero il segno che può finire. Ma non è un brivido, è un abisso, quello che prova. Dentro. Talmente dentro da essere qualcosa connesso a se stessa.
“Vorresti…” non sa come parlargli. E neanche se farlo. “Preferiresti un altro incarico?” Ecco, l’ha detto. E aspetta. Forse, ora, finirà.
Guarda in basso, rattristato. Poi, un sorriso a fatica.
La scienza degli addii è una scienza esatta. Asettica. Richiede un cuore duro. Allenato. La freddezza. E questa può non essere così difficile da ottenere: la rabbia, la stanchezza, possono essere temporanei aiuti. L’indifferenza. E qui è già diverso, perché non basta fare appello a sentimenti contrastanti per ottenere quella modalità giusta dell’animo. L’indifferenza nasce da lontano e prospera nel distacco. Fisico. Emotivo. Sono troppe le ragioni e Oscar non le vuole neppure provare.
Non è abbastanza brava, in questo. In questo farsi più del male, per soffrire meno, dopo. Non è brava a strapparsi dal cuore un pezzo di lui, di se stessa. È più facile chiuderlo, il cuore, che dilaniarlo in brandelli e accettare l’idea che si disperdano lontano. Senza sapere dove. Se continueranno, per assurdo, ad esistere, paralleli, lontani. Se mancheranno di esistere, senza lei.
Se ci pensa, accetterebbe di non vederlo. Più difficile sarebbe accettare di non sapere più niente di lui.
Un addio alle armi, alla battaglia, con lui. Non un addio definitivo a lui.
Anche se, a pensarci bene, anche lontano, lui avrebbe comunque fatto parte della sua vita. Lei non lo dimenticherebbe di certo. E sarebbe comunque un modo per continuare a considerarlo una parte di sé. Remoto. Perso. Ma vivo, almeno questo.
È vero, sì, si dice. Ma non si sente pronta. Non vuole che finisca per bastarle questo.
Lo guarda, allora, devastata da tutto quello che è successo. Da quello che sta per imporre a se stessa e a lui. Da quello che lui potrebbe scatenare.
E le ricambia lo sguardo. Franco. Limpido.
Lucido.
“È inutile fuggire…”
E lei rimane lì, muta. A domandare quanto altro male riusciranno ad infliggersi, per amore. A contare un’altra delle sue massime. Rare. Poche. Centellinate e, qualcosa le dice, riservate a lei sola – e non sa se rallegrarsi di questo particolare modo di lui per comunicare, di questo privilegio dell’anima, o se odiarlo, per riuscire così profondamente a toccare il cuore dei problemi.
Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio-maggio 2007, febbraio-giugno 2008, pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2008
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[1] 22 maggio 2008.
[2] Recuperato da appunto sul cell, probabilmente del febbraio-marzo 2006.