Christine

Parte XIV

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Stanca. Così infinitamente stanca come non si era forse mai sentita. Disillusa. Sola.

Ogni volta che vede quella porta, chiusa, si sente peggio. Non è questione di lui con lei, neanche questo. È che loro rappresentano tutta la sua solitudine.

Non sa quanto sia sola anche Christine. Non vuole saperlo. Sa solo che li odierebbe, se potesse, per quello che rappresentano, per quello che lei non sarà mai.

Non è neppure questione di sesso. Non si sente di avere rapporti, dopo quello che è successo. Non ne ha voglia.

A volte vorrebbe una sorella, ritrovare il fratello che era stato André. Ritrovare André e basta. A volte pensa a come sarebbe stato se avesse avuto una sorella minore. O un fratello. Se la sua vita sarebbe stata diversa.

Un fratello minore avrebbe significato dover rinunciare a tutto. Strano, pensa, interrogarsi sulla questione in termini di rinuncia, eppure è quello che sente, d’istinto. Lei è libera, molto più di altre donne e anche di altri uomini. Legata, certo, ma libera. Educata alla libertà. In fondo. Un sorriso triste.

Sarebbe stata disposta a farsi da parte, a ridursi – davvero, una riduzione – ad una vita da donna?

Se poi avesse avuto una sorella minore, chissà… a volte se l’è domandato, come sarebbe stato avere magari una persona che vivesse come lei, gli stessi problemi, magari una complice… a volte l’avrebbe voluta, come una bambola da vestire coi propri abiti, a cui far fare le sue stesse cose, da pettinare e far vivere… le sarebbe piaciuto, forse lei ed André non avrebbero unito le loro solitudini, come si suol dire… che tristezza, ridursi alle frasi fatte…

Una volta André l’aveva presa in giro, sonoramente, e lei non aveva più osato condividere con lui queste pensate. Si era fatto una sana risata, dicendo che suo padre l’avrebbe collocata in un convento, ma non come badessa, troppo tirchio, il generale. Già, aveva aggiunto col suo tono sarcastico, per la sesta figlia non avrebbe certo sprecato il denaro necessario ad una collocazione di riguardo. Lei c’era rimasta male, però si era resa conto, dopo, che André aveva un modo tutto suo di consolarla riguardo al suo stato presente. Si erano fatti l’ennesima birra, poi, sulla strada di casa, lui che la sorreggeva, semisbronza, aveva affondato. “Mhh, forse ti vedrei come curato di campagna… la tipica fine del figlio cadetto…” L’aveva guardata con occhi di fuoco – ancora lo ricordava, poi aveva aggiunto “Povera la mia Oscar…”

Altri tempi, s’era detta. Rimpianto, dolore, e, ancora, qualcosa che arde, piano, dentro.

Chissà lui cos’ha, per la testa…

Solleva la testa dai polsi, tutta la stanchezza sulle spalle.[1]

 

 

“Che cosa ti succede?”

Lo apostrofa dalla porta, mentre è seduto alla scrivania, i fogli abbandonati da tempo tra le dita e i pensieri chissà dove.

Si riscuote. “Cosa…”

La osserva e si scopre a sorprendersi di quanto lei sia cambiata, negli ultimi tempi. Neanche s’era soffermato a guardarla… prova un improvviso senso di colpa e un brivido, al pensiero che tra qualche mese nascerà.

Fa qualche passo verso di lui. Si passa una mano sulla fronte, un’esasperazione trattenuta a lungo.

“Che cosa ti succede? Non parli più con me, non mi consideri. Sembri completamente immerso nei tuoi pensieri senza vedere che ci sono anche io…”

Le trema la voce.

“Ma no…”

“No? Non ci sei mai, rientri tardissimo ed esci all’alba. Ti comporti come se io non esistessi!”

è un periodo pesante, sono davvero stanco…”

è sempre un periodo pesante! Per me, per noi non c’è mai tempo… cosa credi di fare?”

Lui la guarda, allarmato.

“Non eri così, un anno fa! E neanche pochi mesi fa! è per il bambino? Dimmelo! Non lo volevi?” Si sente rifiutata, lei, quel corpo, quella scelta. E loro figlio.

Sì, in un certo senso sì, ma non per quello che pensi tu…

“Se non volevi un figlio, potevi dirlo prima… io non avrei mai pensato che ci saremmo ritrovati così, dopo averlo voluto…”

“No, no, per favore, non è così, no…” la voce più accorata. Davvero, questo no, non l’ha mai considerato.

Ma lei è inarrestabile. “E allora, cos’è?” Cos’è che ti ha cambiato in questo modo? “Non sei più la persona che conoscevo…”

Lui la guarda, impenetrabile. Deve assolutamente cercare di calmarla. è sfinito, e non le fa bene.

“Ascolta, sbagli…” cerca di prenderle le mani, mentre, tra le dita, sente la mancanza della fede e la guarda, stordito, come se l’avesse persa. Lei, furiosa, le ritrae.

“Che cosa stai facendo? Mi tradisci?”

Il colpo lo trapassa, lasciandolo gelato. Rimane in silenzio.

“Sei andato a letto con lei?!” Quasi un’affermazione.

Il tempo sembra sospeso, infinito, in quei pochi, scarsi secondi che impiega a rispondere, pallido.

“No…” No, vorrebbe rispondere, abbiamo fatto l’amore…

Ma i sospetti si sommano ai silenzi. Alle pause. Alle esitazioni. Con logica propria del processo inquisitorio, non riesce a non ironizzare, annota che due indizi gravi, precisi e concordanti fanno una prova piena. Ma come si fa, quando la vita va a rotoli? Ed è davvero importante o in fondo vada dove vuole, l’idiota… Basterebbe che lui negasse con sufficiente convinzione. Le andrebbe bene. Ma non le concede neanche questo.

“Non sono stupida.” è esasperata. “Ho accettato la situazione, ho capito il tuo rapporto con Oscar, ma pensavo avessi accettato anche tu di avere una moglie, una vita tua…” la voce meno ferma, ora. “Pensavo lo volessi…” le viene quasi da piangere. La voce s’incrina, ma resiste.

André considera solo che non può ammettere niente. Per Oscar, almeno. Deve proteggerla. Che nessuno possa mai accusarla. Non deve cedere.

“Ma è così… perché dici questo, per favore…” tenta di blandirla. Si è alzato, le è di fronte.

“Se ti vedessi dall’esterno…”

Scuote la testa. “Per favore, non…”

“Ti rendi conto da quanto tempo non facciamo più l’amore…”

No, non lo sa. E non gli importa. Non ne sente la mancanza. Ma lei sì.

Scuote la testa, vinto.

“Ora basta, André! Ora basta…” si gira, le braccia attorno al corpo. Poi, torna verso di lui, una mano sulla scrivania.

“Chiudiamola qui.”

Lui la fissa, stravolto. “Che cosa…”

“Separiamoci.”

Lascia andare un respiro.

“Non ha senso continuare così.” Laconica.

Poi, aggiunge, come seguendo un pensiero. “Per fortuna non dipendo da te. Ho il mio lavoro, i miei beni e non sono costretta a rimanere con te per vivere. Posso decidere della mia vita.”

La voce ora è ferma. “Torna a casa tua.” Piena di tristezza. Mentre sa benissimo che non c’è nessuna casa, e l’unica è stata quella, la loro. E aggiunge, come noncurante: “Se non hai dove andare, sistemati nell’altra stanza, poi si vedrà…”

“… il bambino?” Si sente mancare il terreno sotto i piedi.

“Guarda, non importa…”

“Ma cosa…”

“Quando sarà nato, deciderai se riconoscerlo o meno… a me non importa. Davvero, sono stanca, fai come ti pare…”

Cerca di abbracciarla “Ti prego, no…”

“No, André. Non ne voglio più sapere. Mi dispiace solo che, se avessi saputo prima come sarebbe andata a finire, non avrei voluto il bambino. Comunque, non importa, sarà dura, ma ce la posso fare…”

E io… è anche mio figlio…

Lui pare distrutto. Perso in quella tempesta.

“Ti prego… no…”

Le si avvicina. Cerca di nuovo di stringerla a sé: “Non voglio buttare tutto a mare, lo capisci?”

L’hai già fatto… Lo allontana, non lo vuole vicino. “Lasciami sola.” Gli volta le spalle.

“Ti prego”, la raggiunge, la cinge da dietro.

Christine rimane rigida, tra le sue braccia. Non prova più niente. Solo dolore. Quella stretta non la scalda più, come in passato. Ora le pare una catena soffocante. Forse è più questa consapevolezza a farle male. Il resto forse lo sta già elaborando da tempo. Sente quasi un senso di fastidio e di oppressione, a quella sensazione addosso. Sente solo stanchezza. Vorrebbe solo dormire e dimenticare tutto. Anche se stessa. A che punto mi hai distrutto?

Ma lui non vuole, non vuole rinunciare a quello che si è creato. E neanche a lei. E a loro figlio. Li sente, ora, vivere, nel suo abbraccio. Vorrebbe annullare le distanze. Ora, in questo momento vorrebbe. Ma si domanda se durerà, se sarà così anche dopo. Quando la paura di poterli perdere sarà meno urgente. E non sa neppure se domani saranno ancora lì.

 

Quando finisce un amore…

Come questo. Come questo che non è mai stato…

Mi perdoni? Mi perdoni, amore, se non ho saputo darti altro?

È finito così… e io mi sento vuoto. Penso soltanto che non avrei mai voluto farti questo. Che non sarebbe mai dovuto iniziare. Che sapevo cosa rischiavo. E ti ho coinvolto lo stesso. Nonostante me. Nonostante lei… lei… Si prende la testa tra le mani. Spererebbe solo di poter tornare indietro. Solo indietro. Cancellare tutto. Rifare tutto. Tutta un’altra vita… ora sa solo che non riesce ad uscirne…

Mentre, un rettangolo di luce squarcia l’ombra.

“… Cosa ci fai qui?”, stranita, lo sorprende, la testa tra le mani, dopo la notte insonne. E lui alza su di lei uno sguardo disperato.

 

“Vieni a casa con me”, lo invita. D’impulso. L’ha costretto ad alzarsi.

S’illumina, lui. E, subito, si rabbuia. “No, non…”

Ma non intende lasciarlo fuggire. “Dai, non l’hai vista, finita…” C’è qualcosa che non le quadra. E vuole capire. “Avanti…” mentre si domanda perché non sia salito a dormire nella sua stanza, e sia rimasto nelle stalle, come quando era un ragazzino. Come quando era in crisi.

 

“Sei diventata bravissima col fuoco…” si sorprende. C’è calore, nella voce. E rimpianto. “Una perfetta piromane…”

Una volta, era lui a farlo.

Grazie a te. Non glielo dice, ma non si impedisce di pensarlo. E lo guarda, imbarazzato, accanto a lei, che nasconde qualcosa, forse vorrebbe parlare.

“Aspetta, lascia fare a me…” Ha notato i guanti accanto al legno, probabilmente per proteggere la pelle troppo delicata dalle schegge. Sorride, triste, mentre osserva il camino, per capire come farlo andare meglio, perché ogni focolare è a sé. Giusto un’occhiata a lei, carica di disperazione, che non riesce a nascondere.

“Cos’è successo?” Mentre gli scosta dalla schiena qualche filo di paglia.

E, quando lo vede distogliere lo sguardo, quasi rifugiarsi nei gesti consueti, nell’incanto delle fiamme, crede di capire.

 

“Parlale”. La voce accorata.

Seduti, vicini, nel suo soggiorno. I mobili che odorano di nuovo.

Le ha acceso un bel fuoco nel camino.

Scuote la testa. “Non serve a niente. Non ne vuole sapere.”

“Capirà quanto stai male…”

“Siamo oltre quel punto.”

Gli passa una mano sulle spalle, in un gesto carico d’affetto.

“Neanche tu lo meriti…”

Che altro può dire, a lui che ama? All’amico di sempre che, teso, silenzioso, non osava spiegarle, ma, da troppo tempo sembrava stravolto? Lo aveva intuito, lei. Se lo aspettava. Ma non prova né soddisfazione né sollievo. Solo la pena di vederlo così. Perché sa che il problema non sono i sentimenti di lui. Sull’amore di lui non ha dubbi. Ma che sarebbe puro egoismo sciogliere la famiglia, ora che c’è un figlio in arrivo. E lui non è quel tipo di persona.

“Cosa pensi di fare?”

Alza le spalle, depresso. “Non lo so…”

“Non può impedirti di vederlo…”

Si volta verso di lei. In un moto di ribellione: “Ha detto… che non le importa se lo riconosco.” La voce che trema. “Per lei potrei anche scomparire…”

“Ma è assurdo!” Stringe tra le mani la tazza. È davvero troppo. Capisce che sia ferita. Ma negargli il figlio così, senza uno straccio di prova, è di una cattiveria assurda.

La guarda. Poi, gli occhi troppo brillanti, abbassa lo sguardo sul tavolo. La desolazione nelle sue parole. “Io… volevo vederlo crescere, stare con lui… non così…” gira la testa dall’altra parte. Le mani intrecciate. Ora che osa confessare i suoi pensieri. Lui, che il padre non l’ha avuto, e che non vorrebbe crescere un altro bambino solo.

Si alza. Quando i passi sembrano un’eternità. E il dolore paralizza.

Lo abbraccia da dietro.

Resta lì, appoggiata alla schiena di lui. Il viso accanto al suo. Le braccia che lo circondano. A respirare piano, in quei momenti sospesi. Quando consolazione non c’è.

E le si gela il cuore, perché in un attimo di dolore ha capito cosa deve fare. E sarà solo la fine.

 

“Ascolta”. Le riesce difficile intavolare quel discorso. Ma non vuole sottrarsi.

Preferisce andare dritta all’obiettivo.

Lei è così debole, che non vorrebbe proprio infierire. Ma lui è a pezzi.

Un’occhiata. “Dimmi.” Un gesto nervoso con le mani. “Ma se è di lui che vuoi parlarmi, lasciamo stare, per favore.”

“No.” Si sorprende di quel tono perentorio. Ma vuole difenderlo.

“Non m’importa più di quello che avete fatto, se, cosa…” glielo dice così. “Voglio solo essere lasciata in pace.”

“Ti prego. Lui ti ama.”

“Lui ama te.”

Un tuffo al cuore e, subito. “No. È te che vuole.” Minuzie. Questione di parole.

La guarda negli occhi.

“Lo sai. Vuole te”, un cenno, “vostro figlio. Quello che avete saputo costruire, insieme.”

La guarda stupita, la rivale.

“Lo sai che con me non potrebbe mai…” aggiunge. A scavare più in profondità. Tattiche di guerra difensiva. Deformazione professionale.

“Tu c’eri da prima…”

“Io non ci sono più…” Non è vero, ma non importa. Ora, ora non deve succedere. Non può fargli altro male. E non permetterà nemmeno a lei di fargliene.

“Ti prego. Non ha mai avuto molto. Non togliergli anche questo.” Insiste. “Ti rendi conto di cosa sta passando?”

“Ed io?” Rabbia, dolore, in quelle parole.

“Non sei la sola a soffrire”, le risponde, come lontana. Tristemente. Come se enunciasse una regola e non quella che dovrebbe restare un’eccezione.

E, mentre Christine la osserva, sospesa, aggiunge. “Ma puoi fare qualcosa per voi.”

 

Incontra André, quella sera, tornando a casa. E le sembra più bello. Ora che è andata. Ora che lei lo riprenderà.

Lo stringe in un abbraccio fraterno, pieno d’affetto.

“Vedrai, si risolverà”, lo saluta, come in un addio.

 

Niente potrà più dividerci, è vero.

Perché tu sei mio, amore. Ed io, tua.

Ma è vero anche che io non posso averti. Ora, davvero, non posso più averti.

Come farò a sopportarlo… come potrò riuscirci?


Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio-maggio 2007, febbraio-marzo 2008, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2008

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Appunto del 17-2-2008, pensato il 16.