Christine
Parte XIII
Warning!!!
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
Via.
Galoppa, nella notte, veloce. Più in fretta. Più in fretta.
Bussa febbrile alla porta del dottore. Che la lascia entrare, discreto.
Che la tranquillizza.
Ma cosa succede alla piccola Jarjayes, si domanda, mentre, nel buio, la guarda allontanarsi. Che cosa le è successo…
La sua stanza le fa paura. Non riesce a dormire, lì. È come se fosse abitata da incubi.
Non è la prima volta, che si rifugia nella camera di André. Tanto, ora è vuota. Non darà fastidio a nessuno…
C’è una delle sue giacche, in ordine, sulla sedia. Un paio di libri sul comodino.
Ne prende uno. Lascia scorrere le dita sulla copertina, tra le pagine. Come a cercare una traccia della presenza di lui.
Timida, disperata, si rannicchia sul letto, le ginocchia contro il petto. Stringendo a sé il libro. E solo lì, tra quelle cose che sanno di lui, su quel cuscino che è stato il suo, riesce ad abbandonarsi alle lacrime impietose, a lungo, senza ristoro.
La risveglia una carezza lieve, che le scosta i capelli dalla fronte.
L’ha trovata così, André, quando, in un’alba pallida, è salito nella sua stanza per cambiarsi, perché lascia lì i vestiti che usa al lavoro, per non svegliare Christine, in quelle poche ore di tregua.
L’ha trovata rannicchiata sul suo letto, e ha provato una stretta di tenerezza, al cuore.
Si è seduto accanto a lei, osservandola in silenzio, a lungo, gli occhi lucidi e stanchi. Senza osare muoversi. Fino a che la mano non gli è corsa a lei, in un moto di dolcezza infinita.
Intreccia le dita a quelle di lei. Delicato.
Nota e poi scruta la tristezza in quegli occhi. E i segni di pianto. Prova una pena infinita.
“Cos’hai…” le domanda. Lei non risponde, ma fa fatica a trattenersi.
“Cos’è successo…”
E lei, che forse non aspetta altro, gli si nasconde tra le braccia, in un pianto disperato, senza fine. Come se lui fosse davvero l’ultimo rifugio.
Se almeno lui potesse assolverla…
Ma non può dargli anche questo peso. Non vuole dirgli che l’ha tradito. Suo malgrado.
Rimane lì, ad accarezzarla, a sussurrarle in silenzio parole senza senso che sanno di conforto. La tiene stretta, forte, piano, quasi piange con lei, il viso accostato al suo, le dita intrecciate.
Lei sembra senza consolazione. Neanche lui può fare qualcosa.
Triste, stanco, osserva il sole salire.
La sua ragazza…
La guarda, intenso. Unico. Unica.
Le solleva il mento. “Ascolta…”, come davvero direbbe a sua figlia. “Mando qualcuno a Corte a dire che stai poco bene…” Lo sguardo di lei sembra davvero dipendere dalle sue parole. Come tutta la luce del mondo. Come la speranza.
“…”
Le carezza il viso, dolcissimo.
“Ora dormi… e poi passeremo tutta la giornata insieme, ce ne staremo tranquilli, faremo quello che vuoi tu…” Le stringe le spalle. “Va bene?”
Annuisce, come davvero fosse tornata indietro. Forse lo vorrebbe, tornare agli anni in cui il sesso non era che qualcosa di lontano e meramente riferito all’anatomia, in cui l’affetto era puro e senza interessi altri. Ha bisogno di lui, ora, così.
Gli si rannicchia contro, singhiozza ancora, ma sembra placata. E, così, lentamente, si abbandona al sonno.
Ancora per un po’.
La nostra tregua, amore…
Si è sorpresa di svegliarsi tra le sue braccia.
Che sembravano proteggerla.
Per un attimo si è sentita felice. Appagata.
Poi, ha ricordato.
Che lui non è suo, anche se lo considera tale. E la notte appena trascorsa.
La promessa di lui.
Si è sentita sola. Sporca. Desolata.
Si è aggrappata a quella promessa ed a lui, rannicchiandoglisi contro.
Ha sperato non fosse l’ennesima delusione.
Piano l’ha chiamato “amore”.
Anche se sente che ora è diverso. Ora che il tradimento è consumato. Anche se non l’ha voluto.
Ma quando lui apre gli occhi, sorpreso, a quella parola, quasi dimentica tutto. E lo bacia, e lo culla tra le braccia.
Ed è una giornata indimenticabile, quella che passano insieme.
Un’ombra di rammarico la vela, e le brucia il ricordo dell’umiliazione, dell’essersi scoperta senza controllo. Ma lui è dolcissimo, accanto a lei, e quasi non riesce a crederlo, quando, tenendolo per mano, lo guida a scoprire la piccola casa che si sta sistemando – e i lavori sono così avanti, ormai è terminata, nonostante tutti i problemi che ci sono, sempre, e lui annuisce, sì, c’è passato anche lui, è così difficile trattare con le maestranze -. Che, forse, aveva pensato per loro. Sembrano una coppia che azzarda timidi progetti. Una piccola luce pare rinascere negli occhi di lei, dopo tutti i tormenti.
Forse, riflette, si è sentita ambivalente, la vendetta, su André, e la dolcezza delle ore trascorse insieme. Ora il tradimento è completo. Suo malgrado.
Si è tolta la fede, e non l’ha rimessa neppure per tacitare le domande silenziose negli occhi della nonna, delle cameriere, quelle rare volte che ormai accetta di andare a Canossa. D’altronde, lui non l’ha mai portata. “Mi dà fastidio”, ha detto all’inizio, a lei che non gli aveva domandato niente, non aveva osato. E, ora, sente che dà fastidio anche a lei.
“Oscar…”
“No.”
“Voglio solo parlarti… spiegarti… e voglio da te una spiegazione…”
“Non ho voglia di parlare.”
Le si siede vicino.
Oscar s’irrigidisce.
No, questo è il nostro luogo, non profanarlo, lascia i miei ricordi in pace.
Passa un po’ di tempo…
Oscar accarezza l’erba. Sulla difensiva lo scruta.
Perché l’ha raggiunta proprio in quel luogo, quello in cui, fin da ragazzi, hanno avuto luogo i loro discorsi, le loro discussioni, quella prima, dolcissima, furtiva, stretta di mano?
“Che cosa vuoi…”
Lui la guarda. Non parla. Lascia solo andare un respiro, quasi trattenuto.
Per lungo tempo, poi, il silenzio. Solo la sensazione della sua presenza, lì, accanto.
“Ora puoi dirmelo?”
Ancora silenzio.[1]
Poi, come da sola, “Perché vuoi saperlo?”
“Ne ho bisogno…”
“Non era previsto, mi pare…” amarezza, rimpianto, un senso di vergogna dentro quelle parole.
“Sai, mi sta bene fare il rimpiazzo…” fa una pausa. “Ma a volte ho bisogno di sapere cosa ti passa per la testa. A volte lo so già, a volte non mi importa, mi sta bene così… a volte ne ho bisogno.”
Lo sa già? Si gira a squadrarlo, da sopra la spalla, interrogativa e sospesa. Come si permette di saperlo… è la mia vita… cosa vuoi saperne, ragazzo…
“…”
“Ho sentito le cameriere che parlavano di lui…”
Lei in silenzio. Sospesa.
“Di André”, precisa.
Ecco, la spiegazione… Oscar attende. Il resto. Il colpo. L’affondo.
Trasale. E’ come una profanazione che lui pronunci quel nome. Ma forse è un bene.
“E…?”, senza osare né volere aggiungere altro.
Sorride, ora. “E, per farla breve, loro erano convinte che lui sia – cito – ancora innamorato di te e che tu non abbia capito in tempo di esserlo di lui. E tutto il resto come da copione… Hanno capito male? Ho capito male?”
Oscar sospira. Le verrebbe da ridere se non fosse la tragicommedia di una vita. La sua. E, peggio, quella di lui. E di lei. E dell’altro. E pensa che forse è il caso di mettere la parola fine a tutto quanto. E che cavolo! Per come la raccontano le ragazze, pare una comica! Un po’ di rispetto, un po’ di solidarietà femminile, pensa sconsolata… Si passa le mani sul viso e lascia andare un sorriso, scoperta. Alza le sopracciglia. “Più o meno…”
Stringe in mano un ciuffo d’erba, è stanca.
Lui si stende accanto a lei.
Era il suo posto, quello, pensa. Ma non lo caccia.
Lui ha un sorriso stanco. Guarda il cielo. “Fortunato…”
“Eh…?”
“… prima o poi ti avrà…”
Ora basta, ora basta con i giochi.
Si alza in piedi, contro il cielo. “Se era questo che volevi dirmi, va bene, ho capito.”
Si gira, fa per allontanarsi, mentre aggiunge “Non c’è altro”. E lui resta lì, perso tra gli ultimi riflessi dell’acqua e i fili d’erba.
Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio-maggio 2007 febbraio 2008, pubblicazione sul sito Little Corner febbraio 2008
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[1] Grazie a Luana per aver farmi notato le incongruenze che la scena, nella primissima stesura aveva. Aveva perfettamente ragione.