Christine

Parte XII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Oscar è china sullo schienale. Uno sguardo sfugge, rapido, e scorre sul viso di lui. Che, per un attimo soltanto, osa ricambiare in un sorriso. E carezza le mappe sulla scrivania, come fosse pelle.

Irrompe, Christine, scosta la porta con la spalla, le energie che ancora conserva, a prendersi cura dei due. Un vassoio di biscotti, la sua vitalità, la voce argentina. A riscuoterli. Scoprirli.

Forse non l’ha notato.

O forse sì, ma non significa niente. È una ragazza che incamera e riflette. Non è detto che non noti.

Sicuramente vede quanto siano vicini i due. Come siano stati posti, fianco a fianco, dalla vita. Dal lavoro. Dalle occasioni che per loro si sono create. Quelle di cui lei non condivide quasi niente, se non l’esserne testimone quasi assente. Solitaria suo malgrado. Infelice, ora osa comporre questa parola nella voce della mente, che arriva prima che non le parole immaginate.

Fuori, il giorno muore. Con uno sguardo trafigge il tramonto, e sente l’infinito, dentro. Loro due, invece, sembrano non accorgersi di nulla, e continuano a scambiarsi frasi, lavoro, sguardi. Ignari. Il mondo non esiste, il tramonto neppure. Solo loro. Pensa che non hanno davvero tempo, per cose così, mentre lei sì. Pensa che sono tanto distanti, forse troppo. Distanti loro due, da lei, ma vicini. Pensa che si sente distante una vita, lei, le sue piccole infinitesimali cose, la sua esistenza.[1]

 

In fondo, sono le persone più vicine ad accorgersene per ultime, riflette, amara. Se l’avesse tradita, è probabile che altri l’avrebbero capito e lei no. Mai avrebbe pensato di rientrare in quella categoria. Che capitasse a lei. Lei, che non aveva cercato l’amore. Lei che viveva tranquilla coi suoi libri polverosi e antichi e i gatti. Di ritrovarsi come le altre mogli. Le compagne. Quelle che hai cercato, desiderato fino a pensare di non poterne fare a meno, di essere solo infelice e vuoto senza di loro, per poi lasciarle indietro. Si domanda a cosa serva, questo strano tipo di amore-possesso. Se si diventi, agli occhi dell’altro, una sorta di preda, o di ricompensa, da tenere nel nido. Se sia una tranquillità, che si pensa di aver raggiunto. E non si considera più che si possa anche perdere. Volontariamente. O meno. A volte, si dice, non occorre neppure operare scelte radicali o dolorose. È la vita a scegliere per te. Il tempo. Le forze. O qualcun altro.

Non era questo che si era aspettata. Avrebbe voluto un compagno – e questo le aveva lasciato intravedere lui. Non credeva di meritarlo. E lui neppure. Di ingannarsi in quel modo.

Un’occhiata torva.

Un dolore sordo, dentro, di delusione e desolazione.

Volevo essere una compagna, André, non una moglie… ma tu una compagna l’avevi già… l’hai sempre avuta… ti sentivi solamente troppo solo, in quel periodo, e abbiamo fatto un errore indicibile…[2]

Stringe le mani sulle braccia. Che resti almeno la dignità. E il senso di affetto che come un vuoto la spezza, quando pensa a lui. Lui è come una malattia. E non le resta che guarire. Ha fatto un errore, molti, ma non è finita. Non è una condanna a morte. Ha tempo per rimediare. Per curarsi. Ricominciare. Questa storia non la ridurrà una pazza urlante, rabbiosa, aggressiva. Se è così che deve andare, può sopportarlo. Forse. Purché lui, a cui vuole un bene infinito, anche se, certo, diverso da quello che può volergli l’altra – e un’onda di tristezza l’avvolge, e di rabbia, e di malinconia, perché lei no, non lo conosce da una vita e questo non la rende, ma la fa sentire, in qualche modo, infima, di fronte all’altra, che lo guarda con vent’anni di conoscenza dietro le spalle a rassicurarla che, in qualche modo, lui, sempre, ci sarà –, lui, che ama, come amico, come compagno, stia bene. Purché quell’errore non distrugga tutti. Se gliene parlerà, pensa, cercheranno di trovare una soluzione a qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere. Se no, si dice, vedremo come va… e resta lì, tesa e delusa, a domandarsi come sarebbe stato se lui non fosse mai entrato nella sua vita. Se, quel giorno, non fosse entrato nella libreria. Se l’avesse lasciata alla sua vita ritirata e silenziosa.

 

Si domanda se davvero lui sarebbe capace di farle una cosa del genere. Tradirla. Avere un’altra. Un’altra vita.

Perché per tradire occorre egoismo. La volontà di non considerare l’altro. Il chiudere gli occhi all’idea di fare del male al nostro compagno, di farlo soffrire e non tenere conto di questo. E André, che le vuole bene – e questo lo sa –, sarebbe davvero capace di farlo, di nasconderle una parte così grande, di distruggerla?

A volte le pare impossibile. Altre volte, però, non riesce a spiegarsi certi suoi comportamenti, le assenze, i silenzi, e si trova ad intuire che, forse, è una soluzione possibile. Plausibile. A considerare che una moglie, tenuta in disparte, cieca d’amore e affetto, è forse l’ultima a fare due più due. Capace di non farlo mai.

Quando si affidano i propri sentimenti ad un’altra persona, si investe talmente tanto che non è affatto facile venire anche solo a patti col dubbio, meno che mai con l’idea che sia andata male.

Si può comprendere che i sentimenti cambino. Lo si vive, giorno per giorno. A volte lo si nota con rassicurante serenità. Arrivano l’appagamento, l’abitudine. A volte è frustrante. Ma si fa un percorso insieme. Ma come si può capire che i sentimenti non solo finiscano, ma siano violati?

Lei lo sa. Sa come si tutela un amore. Sa come chiudere gli occhi di fronte al possibile interesse per un uomo. Quante volte è successo, quante volte si è resa conto che le cose sarebbero potute andare oltre e le ha fermate in tempo? Un amore si può coltivare e proteggere. Lei l’ha fatto.

Perché ha creduto in loro due.

 

Perché non l’ha fatto anche lui? Se lo domanda. E vorrebbe domandarglielo – neanche, porglielo come capo d’accusa. Un’affermazione netta. Evidente e non confutabile. A meno che lui non offra confutazione e ragione. Ma dubita che lo farebbe in maniera convincente. E tace. Tace i suoi dubbi. Il dolore. La solitudine. La frustrazione.

 

Cresce, dentro di lei, il feto.

L’idea di loro figlio.

Christine è tormentata. Cerca di tirare avanti. Ormai l’errore è fatto, bisogna cercare di non peggiorare la situazione. Vive una rivolta silenziosa che la rende vivida. È ancora più bella, ma a volte come un’ombra l’attraversa. È seduta di fronte a lei, ora, e nota con imbarazzo che quasi non riesce a staccare gli occhi dalla scollatura, che lascia intravedere un seno morbido, una pelle vellutata. Cerca di non guardare più in basso.

“Scusa, se ti ho disturbato…” esordisce.

“Figurati…” Le sorride, dolce e triste. “Dimmi…”

“Oscar, io… io sono preoccupata…”

La lascia parlare, a lungo. Cercando di ascoltare e ponderare. Di essere razionale. Di dare un consiglio giusto – lei, che si sente profondamente inadeguata di fronte alla vita. Si sente irragionevolmente sollevata, quando capisce che non sono i dubbi su loro due a sconvolgerla. È un presentimento, quello che Christine sente. E la paura, comprensibile, per André, per loro figlio. Vuole fare qualcosa per loro, finché è possibile. Metterli al riparo. Dalla sua famiglia. Perché la casa è sua, è rimasta sua proprietà dopo il matrimonio, e ha paura che potrebbero toglierla ad André.[3] è per questo che ha voluto parlarne con Oscar. Perché sente che anche lei tiene ad André. E saprà tenere anche al figlio di lui. Se le succede qualcosa.

Oscar cerca di rassicurarla. Ricorda, le confessa, quando le sorelle aspettavano un figlio e si sentivano vulnerabili, andavano soggette a crisi di pianto, sbalzi d’umore. Stringendole un braccio, con una voce insospettabilmente dolce, finora riservata solo a lui, cerca di tranquillizzarla. Ma quando Christine le chiede di consigliarle un notaio, e, poi, di accompagnarla, accetta di farlo. Si sente in colpa, perché è come sperare che le succeda qualcosa – ma mai lo farebbe -, ma sa anche che è solo così che davvero può esserle d’aiuto.

 

 

Il dubbio l’assale come una coltellata, gelandole il cuore e le mani. Perché, perché non ci ha pensato prima? Proprio loro due! Lui così distante e scontento, Oscar quasi imbarazzata, che, da qualche tempo, non li frequenta più. Può essere che lui, lui ed Oscar… non è possibile, si dice. Lui non le farebbe mai una cosa del genere. Non sarebbe capace. Le vuole bene. Non sarebbe capace di farla soffrire così. Lei non lo farebbe, perché lui dovrebbe? Eppure, sa benissimo che rapporto c’è stato – e c’è ancora – tra loro. Sa che André è stato innamorato di Oscar e sa anche che, in fondo, lo è ancora. Ma chiude gli occhi e si tappa le orecchie. Non vuole vedere. Non vuole sentire. Non vuole neanche pensarci. Spera solo che non succeda, che non sia mai, e si dice che, forse, è davvero meglio non saperlo. Non sapere. Non saperne niente…

 

 

È da un quella sera, che lei è strana. Distratta. Poi preoccupata. Nervosa. Sfuggente. Poi, svagata. Si sono visti pochissimo. Giusto un paio di birre insieme. E basta.

E vuole sapere cosa sta succedendo.

 

È divertente, nelle cucine del palazzo. Ora che si è ambientato. Peccato che Oscar sia sempre così tesa.

È passato anche André, stamattina presto. E così l’ha visto da vicino…

Quel volto teso, pallido. La figura alta, nel controluce disegnato sui riquadri della porta-finestra.

Ha salutato brevemente, scambiato due parole con una ragazza, poi è volato via, in cerca di Oscar, lo guardo un po’ triste.

“Certo che ora che non c’è André… potrebbero prendere un ragazzo nuovo, bello, no?”

Queste ragazze… chi le tiene? Lo saprà, Oscar, dei discorsi che fanno?

“André passa spesso qui…”

“Ma non è la stessa cosa…”

“E poi tanto lui non ci stava…”

“Sì, ma vuoi mettere… e poi guardare non è peccato…”

“Ma cosa guardi…”

“Vuoi l’elenco?”

Ridono. Sanno prendere in giro la vita. L’elenco… l’elenco… conosce ragazze più esplicite, ma queste sono di un altro ambiente.

“Dai, tanto lui è sempre stato impegnato… prima Madamigella Oscar, e che strazio, per anni, e poi la moglie… povera ragazza, non vorrei essere nei suoi panni…”

“Dai…”

“Lui è ancora innamorato di Oscar…”

“Dici?”

“Guardalo…”

“Certo che è matto come un cavallo…”

“E bono…”

“Pure…” Lo sguardo attraverso il calderone, senza vederlo, in cui gravitano verdure in pezzi.

“No, dico… pensaci. Ma che s’era messo in testa? Di aspettarla tutta la vita? Fare il casto, solo per lei… ma dai…”

“Ah”, fece la biondina, agitandosi le mani davanti al viso, in una nuvola di farina, mentre impastava la massa, “sarebbe stata proprio una storiella divertente!”

“Già, per un romanzaccio…”

“Fortuna che ci ha ripensato…”

“Mah…”

“Non sei convinta…”

“…”

“Cambiamo discorso. Secondo te Oscar è innamorata di lui?”

Lui si agita, a disagio, sulla sedia.

“Prima, non lo so…” fa, meditabonda. “Certo però che se consideriamo come si comporta da quando lui s’è sposato… e ora è ancora peggio…”

“Quindi tu dici di sì…”

“Se ne sarà accorta dopo, poveraccia…”

“Ma che poveraccia… mica fa la fame…”

“No, certo… però…”

“Shh…”

 

Uno sguardo sorpreso ne incrocia un altro, imbarazzato.

“Salve… cosa ci fai qui…” gli tende la mano.

“Vieni… usciamo…” e salva la situazione e quelle povere ragazze pettegole.

 

“Ci vediamo questa sera?” Sembra tagliente la sua espressione, stavolta.

E’ stanca. Sospira. Un peso enorme sulle spalle. “Scusami, un’altra volta…”

“Domani, allora?”

Tende i fili della trappola che sta per prepararle. Ora vuole saperlo. E la aspetterà al varco.

 

“E così il problema si chiama André…” si è girato verso di lei.

Oscar serra le labbra. Incrocia le braccia, lo sguardo prima nei suoi occhi, poi a terra. Si appoggia al muro lurido con la schiena. Davvero, non ha voglia di affrontare quell’argomento. Si sente solo stanca. E pensa che sia ora di chiudere quella storia. Forse, è l’occasione per dirglielo.

“Perché non mi hai parlato di lui…” è risentito. Intristito.

“E cosa c’è da dire…” la voce lontana e tagliente. Non ammette intromissioni. E’ giusto così.

“Giusto, non c’è niente da dire.”

La blocca contro il muro. Lei aggrotta le sopracciglia.

Cosa c’è? Non ti va di giocare, stasera? Non ti va di divertirti?

“Perché?” insiste.

“Perché cosa?”

“Perché scappi tra le mie braccia, cosa ti ha fatto lui, cosa è successo?”

Abbassa gli occhi. Colpita. Triste.

La prende per i polsi, la costringe a guardarlo.

Lei ha le lacrime agli occhi. “Lasciami.”

Non l’ha mai vista così.

La lascia andare, e lei si svuota a terra. Rannicchiata. Come sotto un peso enorme. Non vorrebbe piangere, ma i singhiozzi le scuotono le spalle. Non vorrebbe che proprio lui la vedesse così. Si sente nuda.

 

Lui si siede sul letto. Aspetta.

Aspetta che quel dolore assurdo si plachi. Poi, arriverà il momento. Così non c’è gusto.

 

Sente di aver sbagliato, stasera, ogni volta. Ad essere lì. Ogni volta che c’è stato un lì. E vorrebbe lavarsi via tutto di dosso. Anche se non c’è poi stato molto.

Si alza. Sentendosi infinitamente sola.

Raccoglie il mantello.

“Dove vai…” la ferma, mentre fa qualche passo verso la porta.

“Via…” è finita. Forse lo sa anche lui.

“Un’ultima volta”. La raggiunge. Le è dietro. “Una volta sola.” Le si avvicina, sente il respiro di lui sul viso.

“No.”

Ma lui sa come prenderla. Sa che la ragione indica e che il corpo contraddice. Sa cosa fare per renderla accogliente, calda, per averla, per vincerla.

La ama, e non vuole perderla. Non adesso.

La ama, e la desidera. In maniera bruciante. Come non poterne fare a meno.

Non parla più, ora. La bacia, la cerca, la provoca, come in una guerra. Come se dovesse vincerla. Anche ricorrendo all’inganno.

E lei combatte. Resiste. Si oppone. Tenta. Poi, non più.

Quando, umida e impazzita, lo sente, enorme, scivolarle dentro, impadronirsi del suo corpo, prendere possesso di lei. Fino a riempire tutto di lei. Gonfiarle il ventre, che, nonostante la sua ragione, lo accoglie e serra, tenderle l’ombelico delicato. Nei movimenti condannarla ad un piacere che non vuole, incontrollabile. Mentre sente tutto di lui. E freme, con schifo, orrore, pietà di sé. Piacere. Vergogna. Mentre lui la divora, la cerca fino in fondo, spingendosi dentro il suo calore, come se fosse terra e lui il suo seme, e lei, senza nessuna possibilità, in spasmi febbrili ne gode, attraendolo, muta, impotente, tra le lacrime.

Non l’hai capito, Oscar! Io ti voglio… io ti amo…

Gli sembra come una bambola spezzata, mentre, rabbioso, disperato, cerca il limite, e viene fuori di lei. Avrebbe voluto confondere il suo seme dentro di lei. Distruggerla, in fondo. Ma non è così bastardo.

Non sa perché, ma la ama.

Lei.

Lei che neanche lo guarda. Sembra non vedere niente.

Solo il respiro, piano, e le lacrime.

Capelli. E seni.

Lenzuola.

Vinta, il viso girato di lato, le lacrime che si perdono tra i capelli sparsi. Un rivolo di piacere tra le gambe abbandonate, una mano sul ventre, l’ha fatta sentire come una cagna in calore; si sente una spoglia di guerra, una puttana del nemico, fatta a pezzi. Eppure io… io sono un essere umano…

 

Ti odio. Ti odio!

 

Ora è finita.

Ora è finita davvero.

 

Ha spostato con un gesto rabbioso, la mano che le pesava sui capezzoli.

Giocavano, a volte, dopo l’amore, gli piaceva toccarla. Ora, è finito.

Sente freddo dentro.

Lo odia.

Ancora più odia se stessa per non averlo fermato.

 

È andata di là, in silenzio, e la sente armeggiare con l’acqua. Qualche lavanda, di sicuro. Bionda isterica. Si siede, è stanco. Sfatto. Quando fa così la odia.

 

Lo guarda con occhi da assassina.

Non parla, mentre si riveste.

 

“Oscar, cosa…” l’ha osservata in silenzio per tutto il tempo.

Gli si avvicina.

Lo schiaffeggia con tutta la disperazione che ha. “Vaffanculo!”

Lui rimane di sasso.

“Stronzo!”

“Io non sono una prostituta!” Lo capisci? Gli è addosso.

“Tu non mi paghi! Non puoi farmi quello che vuoi!” Lo guarda, feroce.

“Ma tu non…”

“Mai più!”

“Ma cosa dici… sono stato attento…”

“Non permetterti mai più!

Alza la voce, ora.

“Mai più di mettere le mani addosso ad una donna che non lo vuole!”

“Mi sembrava non ti dispiacesse…”

Davvero una motivazione lodevole… davvero come una cagna… la giustificazione del perfetto stupratore…

“Io non te lo avevo permesso…” è furibonda. Con lui. Con se stessa. Si sente tradita. Anche da lui. Da se stessa. E perché, poi, ha dato fiducia proprio a lui, che non la meritava? Si sente uno schifo. Sporca. Violata. Infangata.

Serra la maniglia.

“Non voglio vederti mai più.”


 

Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio-maggio 2007, novembre 2007, pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2007

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] 1-11-2007 da appunto sms maggio-settembre 2007.

[2] Appunti primavera 2007.

[3] Tranne casi di ereditiere, i beni passavano al marito, col matrimonio. Era altresì necessario il suo consenso per il lavoro della moglie. Quindi, perché Christine potesse firmare i propri pezzi, nelle sue collaborazioni, era necessario il consenso di lui. N. RATTNER GELBART, “Le donne…”, cit., pp. 435-454.