Christine
Parte XI
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
André è rientrato in fretta. Stanchissimo. Anche stasera.
Lo guarda mentre si immerge in un libro, alla scrivania. Un bicchiere di liquore a portata di mano.
La cena, che si è forzata a preparare, nonostante si sentisse davvero male e stanca, intatta.
“Grazie, ho mangiato…” le ha detto, evitando di intercettare quello sguardo rassegnato. “Scusami, era talmente tardi…” ha aggiunto, sentendosi un verme.
Sospira, Christine. Sente di non avere nessun valore.
Prova ad avvicinarsi, intimidita da quella distanza. Lo sfiora con un bacio. “Com’è andata…” azzarda.
Lui non reagisce. Sembra completamente preso dalla lettura.
Lo abbraccia da dietro. “Oggi ho… venduto diversi libri…” riprova, altro argomento, speranzosa. Ma, tanto, si sorprenderebbe di fronte ad un segnale d’attenzione. Ormai è così da troppo tempo. Ma quanto è troppo? Quanto può sopportare, un essere umano? Quando scatta quel qualcosa che ti spinge a dire basta?
Delusa, sentendosi infinitamente stupida, si stacca da lui. Si sente morire.
Non riesce a pensare. Ha come il buio, dentro, e vorrebbe avere una pietra, al posto del cuore, e non sentire più questa agonia.
No… non era questo che volevo, no. Non lo merito…
E non sa davvero capire, mentre cerca rifugio nella loro stanza vuota. Mentre si rannicchia contro il muro senza riuscire a reagire. Se dipenda da lei. Se lui la rifiuti. Se sia a causa di quel feto, che sente agitarsi dentro di lei, che ora cinge, annientata, sola, con le braccia, e che, invece di unirli di più, sembra starli portando sull’orlo del collasso. Non sa cosa pensare di questo cambiamento, non sa cosa pensare di questo André che non è quello che conosceva. Sono queste le distanze di un amore? È questa la vita a due? Io, questo, non lo voglio…
La trova abbandonata sul letto, André, ancora vestita, le braccia attorno al grembo. La sveglia, piano “Vieni a dormire…”, le dice, la voce piatta, che le scava una voragine di solitudine, dentro, e di dolore.
Poi, in silenzio, senza sfiorarla, le gira le spalle e si mette a dormire, lasciandola sola coi suoi dubbi.
“Pensi davvero di convincermi che è divertente convivere con la tua assenza?” Sferzante.
Sorpreso, si gira a guardarla. Se non risponde, forse c’è un modo di non affrontare il problema.
“Allora?” Si avvicina.
È tutto perduto? Deve essere ora? Non lo sa. Davvero, non sa rispondersi.
“Veramente pensavo fosse molto divertente vivere con me…”
“Per chi ti sta accanto, forse…”
Sguardo interrogativo, occhioni da cerbiatto, l’innocenza fatta persona. Poi, espressione eloquente.
“No, ti sbagli. Non sono io che ti vedo nei paraggi, ultimamente…”
Lo conosce. Sa che preferisce glissare e buttarla sullo scherzo. Può stare al gioco l’ennesima volta, ma si domanda se lui si renda conto che questa è la strada verso la fine, per loro due, e non una tregua duratura.[1]
Il respiro tagliato. La paura.
Non pensava potesse succedere a lei.
Che fa sempre così attenzione. E lui anche. Oddio, sempre è una parola grossa… per quelle straccio di volte e con tutte le precauzioni. Rabbia… impotenza. Frustrazione.
Ha passato momenti d’inferno e terrore. Un incidente di percorso. Può capitare… E ora lo guarda in modo strano e si domanda come reagirebbe.
Un problema che si aggiunge al resto.
Ma lei sa già che non è quel tipo di donna. Che non gli direbbe niente.
Ha già deciso cosa fare, nel caso.
“Dottore, ho un ritardo...” La voce chiara. Sola come un cane. “E in quel caso, lo sapete…” Lei non incastrerà nessuno.
La guarda, un po’ preoccupato, il dottore. La trova decisamente deperita.
Un braccio sulle spalle, per quella figlia mai avuta.[2]
“Ora mettetevi tranquilla. E ditemi tutto…”
Si sente più leggera, ora. Solo perché il dottore le ha detto che la trova assolutamente deperita, dimagrita, senza forze, ma, assolutamente non incinta. È chiaro, le ha ricordato, che il ciclo è la prima cosa che sballa, in uno stato generale di debolezza.
“Vi siete vista?” le ha fatto notare.
“Che vita fate? Quanto peso avete perso, negli ultimi mesi?” Sembrava anche dispiaciuto, per lei. “Mangiate abbastanza?” L’ha rimproverata.
E poi, ed è stata una cosa che l’ha fatta sentire infinitamente meglio, meno sola, le ha detto “State tranquilla… siamo nel secolo dei Lumi, non in un’epoca di oscurantismo… nessuno può obbligarvi a qualcosa che non sentite. Finché potete scegliere, fare quello che desiderate, voi siete libera…”
Un sorriso pallido. “…” Un piccolo conforto.
“Ci sarà un momento in cui anche alle altre donne, a quelle meno colte e abbienti, sarà dato modo di scegliere. Di determinarsi.”
“…” Assentirebbe, in un altro frangente. Ora è solo un crollare di tensione e riemergere di respiro, lentamente, come a riprendere contatto con la libertà, con quella che è la sua vita.
“Alle donne, alle minoranze, i riconoscimenti dei diritti tocca sempre aspettarli. E nel frattempo le vite passano, e loro possono solo restare nell’ombra, per continuare a conservare quel barlume di libertà… sono costrette a salvare la forma dell’oppressione, ad agire contro le norme…”
“è triste…” Non sa che altro dire. Ma il dottore ha ragione. “è… pazzesco…” precisa.
“La libertà delle donne, Oscar, come di chi ha diritti minori – o non li ha –, fa paura…”
“Già… ma esistiamo…” Intreccia le dita, “e nel frattempo non si può osare rivendicare. Il caso isolato, come me, si accetta, il resto no…. Che vergogna…”
Le ha stretto la mano, sulla porta. Era come un’intesa silenziosa.
Il dottore uscito allo scoperto… sorride, mentre cammina, e si sente almeno più leggera. Strana, perché quando il fisico sballa, anche solo un po’, sembra ti abbandoni, è come se buttasse all’aria un piccolo mondo di certezze – scarse per la verità –, che uno ha osato acquisire sperando di non incorrere nella hybris o di vivere senza apparire troppo nel mondo. Ma se non altro è sollevata. Perché la stanchezza è quella che è, e fa brutti scherzi. Meglio così. Meglio che non fosse qualcosa di peggio. Meglio non pensarci…
E così, ha dato appuntamento al suo – di chi, esattamente, non saprebbe dire – André al Café Procope, e si sta godendo dei sontuosi pasticcini, in un orario in cui lui non l’ha mai vista mangiare, anzi, la scruta un po’ perplesso, perché, di solito, la buona forchetta è lui.
“Cosa festeggiamo?” azzarda.
Un sorso di cioccolato caldo. Al diavolo il leggero tea, oggi! Vorrebbe continuare a potersi sentire spensierata.
Gli sorride. “La libertà!” Tua e mia. Omaggi allo scampato pericolo! Ma non lo dice.
“Bello…”, ricambia lui, sempre più confuso.[3]
La notte, stesa sul letto, senza riuscire a dormire nel chiarore azzurro della stanza, ripensa alle parole del dottore. Quello che desiderate, ha detto. Lei sa cosa le fa paura. Ma cosa vorrebbe, forse, non è così semplice da chiarire.
Si alza a sedere. Raggiunge il cognac, di là, al buio. I passi che cominciano a conoscere la casa. Poi, si ferma. Ci ripensa. Si versa solo dell’acqua.
Sarebbe bello stordirsi, e non pensare. Ma se il suo corpo comincia a dare segni di stanchezza, forse è meglio non esagerare. In fondo, è bella, la notte che l’avvolge, e potrebbe perdersi là, lontano tra quelle stelle, se solo riuscisse a sentirsi più libera.
Invece, André la lega.
Vorrebbe dimenticarlo, andare lontano, e strapparselo dal cuore. Ma lui esiste e lei ogni attimo prega che stia bene, viva sereno, non gli accada niente.
Fa brutti scherzi, l’amore. A volte, è come una prigione.
Se lo domanda, a volte. Perché André l’abbia tradita. Perché abbia interrotto quel loro percorso di solitudini parallele, per un’altra. Per provare a vivere – come se accanto a lei fosse morto... Perché non l’abbia, in fondo, aspettata. Avrebbero potuto invecchiare accanto. Sentirsi soli e frustrati assieme. O, forse, se lui avesse riprovato in un momento diverso, dandole i suoi tempi, lei avrebbe ceduto e, dopo, chissà, dopo aver imposto la propria decisione a suo padre, alla corte, al mondo, sarebbero stati insieme. Forse felici.
Non lo sa. Non sa rispondersi.
Non capisce.
Perché lui abbia preso l’altra strada. Si sia sposato. E addirittura si stia riproducendo. Non riesce a capacitarsi che lui l’abbia fatto davvero. Le sembra paradossalmente più normale l’idea di vivere soli e infelici, quella di amarsi e nascondersi al mondo, e perfino di tradire, ma non quella di saperlo lontano da sé, separato, in un addio lungo non sa quanti anni, di due che si amano, che sono uniti, ma devono restare, nella finzione, lontani.
Non sa neppure cosa farebbe, se potesse tornare indietro e rivivere tutto. Forse, gli chiederebbe tempo. Più tempo. Lei è una vigliacca, in realtà. O, forse, starebbe con lui. Forse ricaccerebbe indietro la paura e combatterebbe. Non si combatte solo con le armi.
Ma quell’infinito addio, no.
Le ha consigliato anche, il medico, di prendersi una vacanza. Magari in campagna. O al mare.
Ma non ne ha voglia.
Non ha voglia di andare senza di lui.
E non può domandargli di lasciare la moglie per fare un viaggetto con lei… davvero non è il caso. Fosse una missione, riflette, sarebbe diverso. Deve trovare il modo di farsi mandare in missione, si dice. Certo che una missione non è affatto riposo… però potrebbe essere divertente. Molto egoista, ma divertente…
L’ha aspettato tutta la notte.
Nonostante non si sentisse bene.
Nonostante i fastidi alla schiena, alle gambe. E una giornata di lavoro pesante.
Ha atteso che rientrasse da una missione di giorni. Giorni senza notizie. E non aveva voglia di andare a mendicarle dalla nonna. Giorni durante i quali, ha appena fatto in tempo ad abituarsi a stare sola.
Ormai, la sua è una vita sfasata. Si abitua alla sua assenza e lui ricompare. Si riabitua ad averlo per casa, e lui sparisce. Senza spiegazioni. Non è più come prima, quando la metteva a parte della sua vita.
Ora, sta bene attento a dosare le informazioni. Se ne è accorta. Ora non è più solidale con lei. Non è più il loro rapporto, sembra, la cosa da difendere, ma qualcos’altro.
In fondo, si dice, è giusto così. Se ci si sta reciprocamente addosso, se non ci si lascia spazi, si soffoca l’amore. O lo si dimentica.
Eppure, l’amore andrebbe coltivato. Non è qualcosa di astratto, non soltanto, perlomeno. Ha bisogno di cure. Come le piante. Come i gatti. Come ogni cosa a cui si tenga. Ha bisogno di tempo. Di tempi.
Certo, a non vedersi quasi mai, sempre di corsa, la stanchezza che la fa da padrona, può sembrare un buon modo, per non rovinare nella noia, nella quotidianità. Ma cosa succede, quando mancano i tempi per ricaricarsi? Quando uno dei due sembra non dare più alcun peso – e valore – a quello che prima sembrava contare?
Com’è possibile che si cambi così profondamente?
Si domanda se sia così per tutte le coppie. E, più radicalmente, se sia così per tutto.
Si domanda se lui fosse così anche prima. Con l’altra. Con lei no, non era stato così. Sembrava diverso, allora. E lo era stato, fino ad un certo punto.
Tanto che aveva pensato di poterci fare un figlio assieme – sembrava una persona affidabile. Affettuosa. Presente. Un’idea di quello che sarebbe potuto essere un buon padre. E invece…
André è l’apoteosi dell’assenza.
È arrivato, infine. Stanco, disfatto. Quando il cielo era come pervaso dall’immensità dell’alba.
Neanche un abbraccio. L’ha baciato lei e lui è sfuggito, voleva solo poter dormire.
Sembra portarsi addosso una stanchezza di secoli.
Uno sguardo desolato alla sacca, abbandonata, polverosa di strade sterrate, sul pavimento tirato a lucido. Dovrà pulire, domani. E la schiena le fa così male. Una volta, ci stava attento. Ora, dà tutto per scontato. Il mantello, umido, scivola dalla spalliera della sedia. A fatica, soffocando un gemito, si china a raccoglierlo, la rugiada che lo rende più pesante e lei, che di forze sente di non averne più. Lui, non se ne cura. Mantello, moglie. Non fa grande differenza.
Lo osserva, di spalle, sullo scorcio della porta della camera.
I capelli lunghi, sciolti, il nastro lì, per terra, e lui, e la linea delle spalle, e quello sguardo bello e malinconico, contro l’armonia di colori che regnava, una volta, nella loro stanza – ora le pare a volte dissonante, a volte senza senso tanto accanirsi sui particolari, quando conta la sostanza –, le lenzuola turchesi, i cuscini dei gatti lì attorno, lame di luce d’alba che cominciano a filtrare, attraverso le imposte accostate.
Sa che dovrebbe abbracciarla stretta, e chiederle come va, com’è stato il tempo trascorso lontani. Com’è andato il lavoro, e se ci sono stati ancora problemi con quel fornitore e con l’inquilino moroso. E come si sente, se va tutto bene. Non ha voglia di niente, invece, di parlare, di ridere. Eppure, era allegro, le sere precedenti, quando, con Oscar, dopo il lavoro, scherzava, rilassato, di fronte ad un pasto, ad un cognac. Quando è corso a prenderle qualcosa per quel mal di testa terribile, pare frutto di mestruazioni torrenziali che l’hanno stesa per un paio di giorni, anche se lei sembrava meno incazzosa del solito a riguardo. Ed era allegro, un tempo, con lei. Sa che dovrebbe fugare ogni dubbio, prenderla in giro e renderla partecipe – sarebbe facile, in fondo –. Perché è stato lui a sceglierla. A volerla. A cominciare tutto, coinvolgendola in qualcosa che avrebbe forse dovuto restare un gioco al massacro a due, che sarebbe durato, forse, tutta la vita. Ma ha avuto bisogno di poter sperare, almeno una volta. E, nella vita, tutto ha un prezzo.
Compresi i suoi silenzi, quelli che può, ancora, permettersi.
Eppure, spera che lei abbia ancora un po’ di pazienza. Che lo capisca, per l’ennesima volta. Che non lo giudichi. Che non intuisca.
Sa che non resterà lì in eterno in fiduciosa attesa.
Sa che la vita fa brutti scherzi. Anche a lui, che pensava di essere immune e lontano dai vizi del mondo.
Eppure, commette l’errore di darla per scontata.
Se Oscar è fuggita, Christine è lì, e ci sarà comunque, per lui. Lei, che lo aspetta alle cinque di mattina, con la cena pronta in tavola, a digiuno, pronta a stupirsi – lei, e non lui – dell’alba tra i tetti, e non batte ciglio se lui salta i piatti amorevolmente preparati e si infila nel letto – per dormire. Una così, ci sarà sempre, fino alla noia.
Eppure, non è noia. Non è neppure mancanza d’amore. È qualcosa di più vicino alla disperazione. Ad un sentimento che lo devasta, a volte, e altre lo dilania. Che gli fa desiderare di non essere mai nato, perché nessuno di loro meritava quel casino in cui lui li ha cacciati.
Eppure, Christine è lì. Ancora. Con un affetto che sembra alimentarsi dalla distanza, forse dal rifiuto, che inizia ad intuire, mentre continua a credere in loro due, nella loro coppia. Senza capricci. Senza illusioni. Senza più forze. Ma facendo di questo una forza che sembra totale.
Un’unione non è una famigliola felice, un quadretto sterile. Un’unione è qualcosa di diverso, più profondo, intimamente connaturato all’essere. Radicato nel cuore. Nella mente. E Christine, che sembra sentire, assolutamente, questo, verso di lui, e più volte gliel’ha detto, resta sola a portare avanti quella scommessa, che era nata assieme.
Perché lui aveva sperato nell’idea di una coppia. L’aveva sperimentata. Poi, aveva finito per cercarvi rifugio. Infine si era reso conto che non riusciva a strapparsi dal cuore Oscar, che continuava a vivere, anzi, sembrava, senza di lui, brillare come un richiamo. Christine, invece, che si spegneva, a quell’idea aveva dato tutta se stessa. Nonostante fosse su di lei che pesava maggiormente. E, tra i due, non avesse niente da guadagnare. Non doveva fuggire da niente, lei.
Se resiste in un’alba come quella, a cosa non potrebbe resistere?
La vede, che non ce la fa. Ma non le dice che l’ha notato. Non sa neppure lui, perché. Forse, perché sa che non c’è bisogno di parole. Che lei lo intuisce, cosa gli passa per la testa. Che lei riconosce il suo affetto. Che può fare a meno di parole, perché crede nella sostanza. Con lei non è necessario darsi. Sa che è salda, sa che crede in loro due. E deve farsi forza su questo. Spera che aspetti ancora un po’, che capisca che è un momento, e che forse passerà.
Lei, che, stanca, pallida, resta lì, a guardarlo, delusa, infuriata, perché sa delle albe ad Arras con l’altra, altre ne immagina, e s’incazza che con lei non dà uno straccio di occhiata neppure alle albe a domicilio – guardati intorno, cazzo! Guarda che cosa straordinaria! –, poi, raddolcita, di fronte a quella stanchezza, a quel viso innocente, comprensiva, ragionevole, mentre lui non ha nemmeno la forza di togliersi il gilet e, con la camicia, si abbandona sul letto. E già sprofonda nel sonno.
Lo osserva, e non può fare a meno di intenerirsi, di fronte alla sua espressione soddisfatta, da bambino perbene, come se avesse tutto quello che può desiderare. Mentre una gattina gli si è acciambellata contro e lei, temendo di svegliarlo, con cautela la sposta, sistemandola in uno dei cesti.
Eppure, vorrebbe riuscire a odiarlo. Mentre, piano, per non svegliarlo, cerca di coprirlo, o prenderà freddo.
E mentre si sistema accanto a lui, scivolando sotto le coperte, sente il braccio di lui che si appropria, soddisfatto, dei suoi fianchi, che la stringe a sé, e le dà, nonostante tutto, un calore doloroso e bello.
Non è normale quello che sta succedendo. Si lascia andare ai pensieri, mentre sente il respiro di lui tra i capelli, la mano sotto le vesti, poi, più in basso.
Non è normale che la dia così per scontata, come se dovesse esserci sempre, per lui.
André sta giocando col fuoco. Probabilmente consapevolmente.
E, così, nei silenzi e nelle assenze, si domanda fra quanto sarà morto il loro amore.
Si sente stanca da morire, pensa, mentre, allo specchio, sistemando l’uniforme con gesti consueti, dà un’occhiata distratta al viso teso.
Poi, si guarda attorno. Una persona non è ciò che ha, ma quello che è, vero. Ma anche considerare quello che si è riusciti a mettere insieme, a volte, aiuta. Per non buttarsi giù. Per considerare quello che di positivo c’è. Nonostante tutto.
Si sente sola. Lascerebbe tutto così, eppure, nei singoli gesti di far partire il camino, si allontana da quel dolore che l’avvolgeva. Lo stesso è potersi sedere con un libro in mano. Aiuta. Bisogna accettare di guarire, però.
Sono così belli, Christine ed André, quando, mano nella mano, sembrano sfidare il mondo e invece sfidano solo la nonna… sono venuti a trovarla, un gesto distensivo lungamente trattato. Nanny sfodera le sue torte migliori, cerca disperatamente di sembrare apprezzare la ragazza, ma non ci riesce, la considera un’intrusa che ha occupato un posto che sarebbe dovuto rimanere… vuoto. Vuoto in nome di Oscar, ovviamente. Eppure Christine è bella, piena di vita, pare illuminare quello che le sta attorno, anche André, pallido, quasi silenzioso, che, seduto al tavolo accanto a lei, le tiene la mano in un gesto abituale, che sembra pieno di devozione, mentre le ragazze sono schierate – e invidiose –, per poter finalmente ammirare l’illustre sconosciuta che le ha orbate del loro idolo. La osserva e si stupisce di come paia trovarsi a proprio agio in mezzo a persone quasi mai viste prima. La osserva e si domanda se si noti. Se si noti che oggi Christine è allegra perché finalmente ha un contatto col mondo, perché oggi non è sola, oggi non è chiusa in casa o al lavoro e c’è qualcuno che parla con lei, che le risponde!, – e magari poi starà a fare le pulci su quello che ha detto –, perché lui da tempo con lei parla a sprazzi, non comunica e questo le fa male. La sta distruggendo.
Gli è diventato pesante tornare a casa. Ci sta bene e lei lo adora, ma, da quando ha visto Oscar nel parco, più ancora che da quando ha fatto l’amore di nuovo con lei, prova un dolore sordo, che prima era riuscito ad acquietare.
Un dolore che lo rende cupo. Che lo ha come spento. Sul lavoro fa le stesse cose di prima, con la stessa energia. Ma, quando stacca, si sente come perduto. Perché il lavoro è anche Oscar, è in qualche modo tenere un contatto con lei, scrutarla cercandole addosso segni di qualcosa, di un cambiamento, la speranza che non accada più, mai più di veder scorrere su di lei le mani di un altro. È cercare di tenerla sotto controllo, anche se è orribile doverlo ammettere, da una distanza di sicurezza, per poter intervenire, in caso di pericolo, che, poi, significa mutamenti di comportamento ed umore tali da far pensare ad un possibile uomo in vista. È stare con lei e desiderare l’occasione di farlo ancora, cercando disperatamente di non farlo. Egoista, profondamente egoista come non avrebbe mai voluto essere. Egoista con Oscar e con Christine.
Oscar è sotto controllo, uno sguardo, una stretta, qualche parola e pare placarsi, forse in nome del fatto che ora lei non è lei, ma l’altra… Ma Christine non può accettare quello che sta succedendo. Non è Christine ad averlo allontanato, a non averlo fermato. E se Oscar tace, lei no. Non è lei a poter accettare il cambiamento di André negli ultimi mesi.
Ci ha provato, André, a nasconderlo. Senza riuscirci. Stare in casa sempre meno, estraniarsi, poche parole… Christine ha sopportato, tenendo duro, senza fare domande. Si è detta che forse lui era preoccupato per il lavoro, per il bambino che lei soprattutto aveva voluto. Ha sperato passasse quel brutto periodo.
Ma non passava. Non passava mai.
“In fondo è carina…” azzarda timidamente una delle ragazze, subito fulminata dallo sguardo della governante. L’eco dell’impressione fatta da Christine è ancora presente. E da vicino non è quel mostro che la nonna dipinge.
Scuote la testa, un’altra “Secondo lui somiglia ad Oscar…” guadagnandosi l’assoluta disapprovazione di Marie.
“Ho detto secondo lui…”
Un cenno al piatto, la torta quasi intatta. “Guarda, non ha toccato quasi cibo… così gracile…” un affronto per una cuoca. Ma è troppo pretendere che la rivale gradisca uno dei piatti preferiti della sua diletta.
“Neanche Oscar mangia molto… mi pare sia magra anche lei… anzi, ultimamente è dimagrita ancora.”
“Oscar non è gracile”, giammai la sua bambina può essere descritta con un tale affronto.
Mai, mai riuscirà a capire il nipote. Scuote la testa, sconsolata. Poi, s’illumina quando la sua bambina appare nelle cucine, svagata come al solito, e le voci delle ragazze si zittiscono.
“Oscar, c’è la tua torta salata… ne vuoi un po’?” offre, speranzosa, la ricerca di una piccola vendetta, di una soddisfazione, mentre Oscar si versa dell’acqua bollente per il tea.
Uno sguardo distratto al trionfo di colori ed aromi che troneggia sul centrotavola. “No, grazie… magari più tardi.”
Grazie ad Assunta ed a Luana per il proof-reading 2006. ^_^;
Nota: La parte di Oscar dal dottore non era assolutamente prevista nelle tematiche di questo testo, ma è nata dalla mia valutazione di Beside Christine che Luana stava scrivendo a seguito della lettura del mio work in progress. Lei, nel leggermi, nell’autunno 2005, non solo mi dava le sue opinioni, ma aveva pensato alcune situazioni svolte secondo il suo modo di scrivere. Io gliele avevo, via via, messe in un file, gliel’ho mandato scrivendole “Ok, questo è Alt Chris, secondo me vale la pena che ci lavori.” Così, lei ha preso a lavorarci ed è venuto fuori Beside Christine I versione. Quando, poi, il 6 gennaio 2006, ho letto le “due righe di sostanza” che aveva aggiunto e che sono confluite nella versione finale del suo testo, quella on line, mi sono resa conto che, di fronte a quel testo, occorreva spiegare come il mio personaggio di Oscar si sarebbe invece mosso, in una situazione similare. Non che pensassi di affrontare l'argomento o di essere come mio solito un'autrice evil, solo, ormai la problematica era lì.
È stato per questo che, il 7 gennaio 2006, dopo aver letto quella nuova versione di Luana, mi è venuto in mente questo brano che chiarisse e non lasciasse adito a dubbi.
Innanzitutto, perché il mio personaggio, quello della mia storia, si sarebbe comportato diversamente e avrebbe reagito diversamente – e a quel punto, avendo Luana sollevato il problema, mi toccava chiarirlo, o il lettore avrebbe rischiato, come è successo altre volte, la confusione tra il testo e il suo parallelo – ; in secondo luogo, perché non volevo suscitare aspettative in quel senso sul prosieguo della storia, che parla di donne, di esseri umani., delle loro vite, vissute con autodeterminazione. E, l’8 gennaio 2006, avendo questo in mente, l’ho costruito.
Grazie, quindi, a Luana, per avermi ispirato.
Laura, 2002, autunno 2005-gennaio-novembre 2006, gennaio-maggio 2007, revisione maggio 2007, pubblicazione sul sito Little Corner maggio 2007
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
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Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] 8-1-2007 da appunti 5-1.
[2] Many thanks a Luana.
[3] Questo inserto, che non era assolutamente previsto nelle tematiche di questo testo, è nato dalla mia valutazione di Beside Christine che Luana stava scrivendo a seguito della lettura del mio work in progress (nel mio testo inizia con “Piove ancora. La pioggia sembra avvolgere tutto. Anche loro”, nel testo on line sta nell’ep. 10 e nel mio file da pag. 93). Lei, nel leggermi, nell’autunno 2005, non solo mi dava le sue opinioni, ma aveva pensato alcune situazioni svolte secondo il suo modo di vedere. Io gliele avevo, via via, messe in un file, gliel’ho mandato scrivendole “Ok, questo è Alt Chris, secondo me vale la pena che ci lavori.” (è vero, i miei titoli sembrano scorciatoie da tastiera, LOL.) Così, lei ha preso a lavorarci ed è venuto fuori Beside Christine I versione. Quando, poi, il 6 gennaio 2006, ho letto le “due righe di sostanza” che aveva aggiunto e che sono confluite nella versione finale del suo testo, mi sono resa conto che sentivo il bisogno di spiegare come il mio personaggio di Oscar si sarebbe invece mosso, in una situazione similare.
È stato per questo che, il 7 gennaio 2006, dopo aver letto quella nuova versione di Luana, mi è venuto in mente questo brano.
Innanzitutto, perché il mio personaggio, quello della mia storia, si sarebbe comportato diversamente e avrebbe reagito diversamente – e a quel punto, avendo Luana sollevato il problema, mi toccava chiarirlo, o il lettore avrebbe rischiato, come è successo altre volte, la confusione tra il testo e il suo parallelo – ; in secondo luogo, perché non volevo suscitare aspettative in quel senso sul prosieguo della storia, che non si occupa di possibili gravidanze dei personaggi, ma parla di donne, di esseri umani., delle loro vite, vissute con autodeterminazione. E, l’8 gennaio 2006, avendo questo in mente, l’ho costruito. Grazie, quindi, a Luana, per avermi ispirato.
La parte in cui il dottore discorre dei diritti delle donne e delle altre minoranze è nata il 15-16 marzo 2007 da un’elaborazione di quanto sta accadendo nei primi mesi del 2007, che trovo molto triste e preoccupante.
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