BK's Night

 Parte XVIII

Warning!!!

 

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Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

 

Parlano ancora del mio matrimonio.

Mentre io mi danno per recuperare dei fucili venduti per fame dai ragazzi, per non far condannare un uomo costretto dallo stato di necessità e dall’estrema indigenza della sua famiglia, mia madre organizza dei preparativi assurdi. Primo, perché non ho accettato nessuna proposta. Secondo, perché io non sposo quello là. Terzo, perché ho altri programmi. Anche se non li ho resi pubblici.

La gente muore di fame e la vita continua. Per ognuno dei vostri incarichi da nobili oziosi, per ognuno dei vostri posti regalati, che nessuno di voi ha meritato – ha ragione Alain –, ma a cui ha, semplicemente, come si respira l’aria, diritto per nascita o titolo, quanta gente resta senza lavoro, senza possibilità di costruirsi una vita, quanta gente fa la fame, non può curarsi, lotta senza possibilità di farcela?

Questo è il mondo che mi vedo attorno. E qui si parla di un matrimonio e si sperpera. La festa di un giorno (festa? Con quello?) costa quanto un anno di salari… a me pare una follia.

Se solo riuscissi a fare qualcosa… se solo in qualche modo potessi fare anche una sola, piccola cosa…

 

Non che io non abbia rispetto per gli eventuali sentimenti di Girodel. Ma non vedo che lui abbia rispetto per quello che posso pensare io. Invece di parlarne con me, abusa del suo titolo e del suo rango e fila dritto dall’autorità paterna a mercanteggiare della mia vita. E un simile atteggiamento non merita rispetto, al contrario dei sentimenti di un essere umano. Perché è una prevaricazione mascherata dalla boria del titolo nobiliare e dall’egoismo di volere per sé qualcuno senza rispetto per quello che prova. E, in fondo, già l’amore lo è, una forma di egoismo.[1]

 

Poi, in tutto questo, chissà che cosa pensa André? A parte le immani sbronze coi compagni, ultimamente peggiorate; a parte trovarmelo di fronte con gli occhi un po’ troppo luccicanti e arrossati, quando non pensa di incontrarmi; a parte le mani che gli tremano più del solito, quando raccoglie i fogli degli appunti, alla mia scrivania; a parte quei silenzi in cui sprofondo per quanto mi manca la sua voce. Beve troppo, si è fatto più lento, quando mi aiuta a compilare i rapporti, tanto che farei prima senza di lui, ma non dico niente e continuo a chiamarlo ogni volta, per paura che ci resti male e si senta inutile. L’altro giorno eravamo di pattuglia e ha trascritto un indirizzo sbagliato. Non ho detto niente, e ho cambiato direzione, quando me ne sono accorta, ma cosa succederà se non saremo Alain o io a coprirlo? Forse, dovrei parlargli, dirgli che così non può andare…

 

È arrivata la formale proposta di matrimonio, a distrarla. Più che distrarla, innervosirla. Come si fa a non continuare a tornare a lui, sempre?

Le viene da ridere, se pensa che ne parlano da nemmeno dieci giorni e già iniziano ad organizzarlo. In realtà, è attonita, infastidita, più che dalle pretese, dalla consapevolezza che nessuno richieda il suo parere. È anche preoccupata. Si chiede quale sarà la reale reazione di André, anche se il loro rapporto è saldo e lui sa che mai lei lo lascerebbe accadere. Quando lo guarda, lo trova come sfuggente, rassegnato, ma determinato. Una piega decisa delle labbra. Lo sguardo lontano. Non sanno neppure cosa dire, a riguardo: a loro due pare una follia. A tutti gli altri l’ovvia prosecuzione della commedia.

 

Si è messo in tiro per la convocazione, nota sarcastica. Capello fluente, quando i suoi sono sempre più sconvolti, broccati e sete, che contrastano con la sua uniforme impolverata, mezzo metro di polsini, che lei, sobria come sempre, osserva scettica catalogando l’orrore intrinseco dell’inutile seguire le mode, quando l’ultimo grido maschera la mancanza di gusto e di personalità.

“Ditemi”, si accomoda plastico di fronte alla scrivania, un’occhiata desolata al piccolo studio buio e stipato di piante. “Di cosa volevate parlarmi?”, mentre, attento a non toccare troppo i braccioli, solleva le dita curate e spolvera di già i merletti, non sia mai polvere, tarme…

“Questa storia deve finire.” Anche perché non è mai cominciata.

Si sistema meglio sulla sedia, come dovesse posare per un ritratto. Scrolla di nuovo qualche granello di pulviscolo dalla manica lucida, ammirando soddisfatto, giusto per un attimo, la trama complessa del broccato. Sceglie il profilo migliore. Oscar si domanda se tra un po’ non verrà fuori che bisogna sistemare l’illuminazione o non vorrà un ritocco di cipria o quel che è. “Scusate?” Come se non avesse udito. Mentre giocherella col voluminoso anello al dito.

Dev’essere scomodo tenere la spada con quello… annota, pratica e sobria, Oscar. Fortuna che André non mette certa roba…

“In generale, non ho apprezzato che siate andato a discutere con mio padre di cose che riguardano la mia vita.” Il tono è duro, ora. E prova fastidio nel dover dire ‘mio padre’. Vorrebbe fosse una cosa distante da sé.

Lui si sporge verso di lei. “Prego?”

Prende tempo, l’idiota imbellettato…[2]

“Io non ho bisogno di un tutore. Se volete qualcosa da me, rivolgetevi a me. E questa è la prima cosa.”

“Bene… allora dovremmo parlare del fiorista…”

“La seconda”, lo blocca, un lieve impennarsi della voce, “è: state fuori dalla mia vita. E da quella di André.” Cerca di controllarsi, non è facile.

“Il vostro servo…”

Non lo lascia neppure finire. “Non permettetevi mai più. Né di intromettervi, né di sparlare di lui o di me con mio padre o altri, né di riferirvi ad André in quel modo.” Si alza, fa strada. “è tutto. Considero chiusa la questione.”

“Ma…”

“Chiusa. Definitivamente.”

Gli tiene aperta la porta, ed esce dietro di lui, assicurandosi che se ne vada, lontano, al diavolo, mentre lo sente declamare che non finisce lì. Fa’ un po’ tu, pensa lei, mentre annota con un vago sentore di ridicolo che una delle imponenti tasche della botanica palandrana del conte è scucita. Nonostante tutto.

 

Lo trova di fronte ai bersagli, immobile, il fucile abbandonato in mano. È quasi il tramonto. È stata una giornata pesante. E lui sembra stanco, sconfitto.

Lo abbraccia, senza una parola. Solo, è come se gli domandasse di potersi abbandonare a lui. Infinitamente.

Il primo pensiero, già quando aveva fatto chiamare Girodel, era stato per André, non vedeva l’ora di comunicargli che era davvero finita. Poi, non appena liquidato l’ospite, era corsa da lui, un’ansia inspiegabile di dirgli subito tutto, di tranquillizzarlo. Ora, vorrebbe solo annegare tra le sue braccia, dimenticare tutto, tutti, e stare per sempre con lui. Solo questo. Soltanto questo.

 

Ha sognato di loro due, bambini. Ma che stavano già assieme, ed era bellissimo. Tutto sembrava illuminato dal loro sentimento, dalla loro felicità. Le scale in pietra. Il giardino. I rami degli alberi che spiovono e rinfrescano d’ombra. È strano sentirsi così tanto felici da ragazzini. Come un senso di leggerezza, di qualcosa che si apre, davanti a noi, immenso. Si sveglia pervasa di una tenerezza infinita.

È qualcosa che le è mancato, se ne è resa conto soltanto dopo averlo provato davvero, cosa si sente a poter amare liberamente una persona. Se le cose fossero state diverse, sarebbe stato così. Sarebbe dovuto andare così. E invece…

E invece si sveglia sorprendendosi del cuore colmo di amore e gratitudine per le sensazioni di quel sogno. Perché almeno ha potuto vivere per pochi sprazzi – se poi sognare sia una sorta di vivere – a volte ci pensa –, come si sarebbe potuta sentire se… eppure non è detto che avrebbe saputo apprezzarlo. Che non avrebbe lasciato andare tutto, nella stanchezza, nella quotidianità. Ma qualcosa le dice di no. Lei non l’avrebbe fatto. Lei non lo farà.

Ha sognato di loro due bambini, ma il corpo che osserva ora, come rattristata e delusa – le mani sono diverse eppure uguali, le spalle sviluppate, la linea del mento –, quella sagoma, davanti a sé, che la segna in movimenti incerti, la devasta. Cammina lentamente, André. E lei lo nota.

Le si stringe il cuore al ricordo di quel sogno, all’egoismo dei nostri piccoli infiniti mondi interiori, e a pensare a lui, ora. Si sente mancare, al pensiero di come sia già, adesso, difficoltoso, per lui, adeguarsi alla perdita progressiva della vista. Non sente più neanche rabbia. Si domanda, con terrore, come sarà, dopo. Se riuscirà a non farlo sentire diverso. Inferiore. E pensa al senso di smarrimento, alla tristezza, all’impotenza, all’ineluttabilità che deve provare lui, che si rende conto di come e quanto stia peggiorando. È terribile, considera Oscar, perché è come accantonare qualcosa che non funziona più.[3]

 

È attonito, André. Non può fare altro che accettare i cambiamenti, i segni del proprio corpo. Della vista che se ne va. E i movimenti, che la mente ricorda sicuri, scivolare nell’incertezza, senza rimedio.[4]

“Avanti, ragazzo…”, cerca di farsi forza, e sente come strana, stonata rispetto a come ricorda di essere, quell’ennesima, infinitesimale, progressiva, implacabile perdita di qualcosa che era stato normale. Consueto. Dovuto. Che era stato parte di lui, fino ad un attimo prima. E che non si può conservare, neppure con l’attenzione più forte. Sudato, la stanchezza che gli brucia la schiena, una sorta d’ansia, dentro, ma è più stupore, le mani contro il muro, una presa di realtà, di concretezza. Quello che resta.

Non è neanche paura, riflette, è tutto molto strano. Impercettibile. Come accadesse ad un altro. Eppure, accade a lui. Succede un po’ per volta, e il primo sentimento è il fastidio fisico, per l’inconveniente, poi, la sorpresa, perché ti domandi come mai – e, soprattutto, perché – tocchi proprio a te. Poi, ti rendi conto che l’abitudine ha finito per rendere anche quella perdita normale.

Soffoca un brivido e si fa forza.

Di là, lei lo chiama.[5]

 

Li unisce, il sesso. Non vivono paure, lì. Sembra qualcosa in cui si rifugiano, un angolo in cui il buio protegge entrambi. E, per una volta, li rende uguali.

 

Lo squadra preoccupato, Alain.

Non sa che un po’ ci si abitua, poi, a volte, va meglio. In certi istanti gli pare quasi di vedere normale.

“Come fai”, gli domanda.

E distoglie subito gli occhi, fissando ostinatamente le pietre che si illuminano di quella notte di fuochi e guardia. È una domanda troppo difficile, per sostenere anche il suo sguardo. Anche se è quasi spento. E forse gli fa più paura così.

Nessuno gliel’ha domandato, riflette André. Poi, un sorriso stanco, come a dire che non ha grande importanza, che succede e basta, “Un po’ per volta…”, prova a spiegare. “A volte non va sempre male…” Si allontana di qualche passo. In fondo potrebbe sentirsi orgoglioso. “Ho imparato a fare tante cose…” lo sorprende, perché tutti si aspettano di vederlo piegato, e lui, invece, è ancora lì.[6]

 

È una sera quasi tiepida. Scura di stelle e pietre di case.

Un braccio attorno alla spalla. E si sorprende ancora del calore e del senso di solidità che lui riesce a trasmetterle.

La voce di lui, piano, a sfiorarle la guancia, i capelli.

“Sposami”.

E, stavolta, non dice di no.

 

Ricorda, quella notte, intensa, tra le braccia di lui.

Quando si era sentita più sua che mai. E, forse, finalmente lui aveva capito che era arrivato. Che lei gli apparteneva.

Quando le aveva raccontato cose, di lui, che non le aveva mai detto.

E, nel buio, ricordava le braccia che la avvolgevano. I capelli. La sua voce. Dolce. Calda.

E la sua, quasi timida “Mi sposi davvero?”, come se le paresse impossibile una cosa normale, in una vita come la sua.

E la risposta di un abbraccio più saldo, e stretto. Caldo. E bagnato di lacrime. Che non avrebbe immaginato, in lui. E che più di tutto le fecero capire quanto sapesse considerarla importante. Totale.

 

Erano fuggiti.

Forse, dei loro, era stato il viaggio più bello. Inatteso. Fuori stagione. Di pioggia, a tenersi stretti, a ripararsi sotto le grondaie. E di sole, improvviso, che riscalda la pelle e asciuga i capelli.

Di alberi immensi. E case e colline immerse nelle nuvole basse e nella pioggia. E grandi camini caldi, in piccole taverne colte dal temporale, dal freddo improvviso, che avevano rispolverato la legna e acceso i focolari. Era bellissimo, vederli, così. Guardare il mondo da lì. Vivere quella tregua. Starsene rintanati ad osservare la pioggia scorrere sui vetri, dai riquadri della finestra di una stanza calda, incorniciati dal rosso dei gerani e delle begonie.

Loro due, soli.

Era stato come quando erano ragazzini, e passavano il tempo libero a parlare, di mille cose, senza annoiarsi e senza la paura del silenzio, perché, dopo, dire ancora qualcosa, e trovare da rispondersi, in un’infinita provocazione intellettuale, sarebbe stato ancora bello. Era stato come quando voleva, intensamente, ricordare ognuno dei loro discorsi, la sfumatura della voce di lui, una particolare nota di tristezza, o di calore, nello sguardo. E le mani di lui che correvano a lei, stringerle le dita, cercarla. Come se tutto fosse nuovo.

 

Piove. Piove ancora.

La pioggia scivola lungo i capelli, disegnandoli in ciocche. La pioggia scorre sulla pelle, i vestiti inzuppati. Era caldo. Ora geliamo. Dopo due inverni freddi, troppo caldo, e poi questi temporali, che svicolano fra le tegole in rivoli pesanti, inondano le mura dei palazzi, rendendole fradice e scure, rovesciano sulle strade cateratte d’acqua…

Quanto vorrei andare via…

 

Non sa se ricordare liberi – lo aveva sperato – o condanni.

Male, sta così male… i brividi la scuotono. Le mani sembrano scheletriche, sotto il pallore della pelle. La camicia madida di sudore aderisce alla pelle, congelandola. A volte resta lì, piegata in due, rannicchiata. Come se questo potesse scaldarla. A chiamarlo. Come se lui potesse aiutarla. Ci sono malattie che, lentamente, fanno vivere male, fanno desiderare l’oblio. Forse, ora è il suo turno.

Ma io, André, io voglio vivere. Io voglio vivere…

 

Si è svegliata, rannicchiata di brividi sotto le coperte. Si è svegliata e aveva paura come non mai.

L’ha sognato morto. Su una lastra di pietra. Gli occhi fissi, ciechi, senza pupille. Eppure, luminosi. L’ha sognato circondato di foglie e rami. Con lei che, disperata e attonita, tentava di muoverlo, forse svegliarlo – anche se lo sapeva impossibile. E lui che, con piccoli movimenti, pareva sistemarsi su quel letto assurdo, spaventoso, quasi soddisfatto di quel po’ di riposo. Aveva cercato di cambiare sogno, di crederlo vivo, di vederlo salire scale infinite e buie, scale di paura, lui davanti a lei, vivo, vitale. Ma la paura era rimasta. E le immagini. Le sensazioni.

Anche a ricordarlo, quel sogno.

Ogni singola volta che il pensiero ritorna. Nel tempo. Mesi. Anni. Potessero essere secoli… non sarebbe abbastanza, per il loro amore.

 

Si passa una mano gelata sulla fronte, scostando i capelli. È pallido. Anche lui. Anche lui non ha forze, stavolta. E’ pieno di ferite, dopo l’assalto alla carrozza. Dopo che ha temuto di perderla. Dopo che quello che ha passato lo ha portato a formalizzare dei desideri inespressi, forse latenti da tempo, ma che non si sarebbe mai aspettato di provare.

Ripensa alla nottata precedente, a lei, tremante e ancora traumatizzata, e lui, infreddolito, dolorante e innamorato perso.

“Oscar…” ha provato a parlare, mentre la teneva abbracciata e restava, a cullarsi, dentro di lei.

Lei sembrava assente. Persa chissà dove.

Ora, però, ora che ha visto la morte in faccia, per sé e per lei, non riesce a non parlare. Anche se è difficile trovare il coraggio, quasi quanto lo è stato dirle che l’amava.

“Oscar, amore…”

Non riesce a dirglielo. Sa che è troppo. Eppure…

Lei alza su di lui uno sguardo stanco e pieno d’amore e timore. Ha paura, dopo l’assalto, e quando lui usa quel tono. Sa che non porta niente di buono. Sa che potrebbe richiedere cambiamenti. E lei li teme.

“Oscar, facciamo un bambino…” si sente perso e disposto a tutto nello stesso tempo. Gliel’ha detto con trasporto, con tutto se stesso, qualcosa che brilla tra le ciglia scure, mentre la stringe a sé e, ancora una volta, le si spinge dentro, ma sa che è stato un errore: ha percepito lo scatto delle dita ora fredde di Oscar sulla sua schiena, l’improvviso irrigidirsi del suo corpo, il suo sottrarsi.

Eppure, si perde ancora dentro quel sogno. “Ti prego…” E dentro di lei.

Quasi timido. Quasi a giustificarsi. ”Io vorrei una famiglia, con te…” Avrebbe desiderato dire voglio, ma qualcosa l’ha fermato, forse l’intuizione di rischiare di spaventarla ancora di più. Di nuovo, più intensamente, dentro di lei.

“Dammi ancora un po’ di tempo…” gli sussurra triste, per doverlo rifiutare, gli occhi persi, aggrappata alla sua spalla, mentre le unghie lasciano tracce sulla sua pelle,[7] il viso ostinatamente voltato di lato, in un mare di capelli biondi. E lui non sa che dire, di fronte a quella tristezza abissale, mentre lei lo stringe più forte, perché lui è tutto quello che le rimane.

Perché, Oscar, cosa c’è da aspettare, ancora…

La guarda dritto negli occhi. S’è fermato, ora. Le scosta leggero i capelli, uno sguardo intenso. E immenso.

“Voglio che qualcosa di mio cresca dentro di te.” Non sa nemmeno lui dove si è accesa la scintilla di follia che gli ha fatto pronunciare quelle parole.

Ha gli occhi pieni di lacrime. La voce gli trema.

No, André. Non giocare sporco, ti prego… lo sai che quando fai così io non so dirti di no. Cosa vuoi fare? Distruggermi questo po’ di tranquillità che mi sono creata a fatica?

Ora però lo avvolge in sé, assurdamente coinvolta da quell’idea ancestrale. E si muove, cercandolo di più. Vediamo dove vuoi arrivare, Grandier…

E lui, travolto, la segue, disperato e pieno di speranza, il cuore in subbuglio, in una di quelle notti che si ricordano, nella vita, vive nella memoria.

Non le può dire che vorrebbe vedere suo figlio prima di diventare cieco. Poterla vedere incinta di lui. Ricordare il suo ventre, il seno tendersi. Il contatto della sua mano su di lei, le sfumature della loro pelle, guardarla riempirsi del loro amore. Che diavolo di idea… Quasi gli viene da ridere, di questa perversione… che smania da predatore hai, vecchio Grandier? Vuoi terrorizzarla e che per i prossimi cent’anni pensi a te incerta se scoppiare a ridere o prontamente defilarsi per questo maniaco che si è scelta?

E, invece, glielo confida, prima timido, poi sempre più intenso, alla reazione di lei, che, eccitata e impazzita, viene, e viene ancora, trascinandolo con sé.

 

È diverso come si guardano, la mattina dopo. Il modo. Come una scintilla. O una luce. Niente. Ora c’è qualcos’altro, tra di loro. Un accordo, forse una speranza, come un segreto, che li unisce più di quanto non sia stato prima. C’è un trasporto diverso in André, che le si avvicina di spalle, mentre lei si sta vestendo, e, abbassando il viso accanto al suo orecchio, le sussurra “Sei mia”, mentre la percorre, in una carezza intensa e nuova, che indugia, come a volerla proteggere, calda sul ventre. E lei prova un brivido, mentre gli si abbandona contro, annientata.

 

Laura, 2002, 2004, estate 2005, autunno-inverno 2005, gennaio-luglio 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del luglio 2006.

 

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Ispirato da R. Ikeda, La rosa di Versailles, trad. Granata quando André considera “Desiderare è una forma di egoismo?” – cito a memoria, ma è un pensiero straordinario.

[2] Visto che il mio “Idiota mascherato” datato dicembre 1999-gennaio 2000 è stato altrimenti usato in La rifioritura delle rose, 2006, (senza credits o citazioni…); visto che ho ancora idee e, quando non ne ho, taccio e non scrivo per forza prendendole da altri; e visto che non mi sento sminuita ad ammettere le citazioni ad altri, beccatevi l’idiota imbellettato: ora voglio vedere chi lo userà… si accettano scommesse. Laura, 11-7-2006.

 [3] Da appunti 6/7-7-2006.

[4] Era “farsi incerti, senza rimedio”.

[5] Questi sono appunti nati autonomamente il 2-6-2006 e non da altre suggestioni, ma mentre li ho trascritti al pc, il giorno 11-7-2006, mi è tornata in mente una bella mail di Sonia, mi pare di inizio 2002, in cui mi descriveva la sensazione di trovare, progressivamente, di distinguere qualcosa in meno, al risveglio.

[6] Tematica parallela di Alternate BK, appunto del 21-5-2006.

[7] De André, Verranno a chiederti del nostro amore – una delle mie preferite.