BK's Night

 Parte XVII

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Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

 

 

Vorrebbe domandarlo, osare, anche se sa che Girodel è arrivato prima. E gli dispiace di non essere stato lui il primo a chiederlo. Anche se sa che a lei non importa né che sia il primo, né la formalità in sé. Eppure, anche se è soltanto una formalità, lui lo desidererebbe. Come se, in qualche modo, potesse renderla più sua. Come se avesse paura lei potesse allontanarsi, senza quel pezzo di carta.

Eppure lo vorrebbe. Qualcosa ha saputo da Oscar, che, imbarazzata, infastidita, l’ha messo al corrente. Qualcosa di più da sua nonna, che in lui ha qualcuno con cui esprimere il proprio dissenso da quell’idea così distante dalla sua bambina.

 

“Oscar, mi vuoi sposare?” La domanda la colpì come una frustata. Con dolore. Per il dolore di dare una delusione a quella voce calda e piena d’affetto e attesa.

“Perché, André?” Hai forse paura che io scappi? Magari dopo quello che è successo?

Si era sentita grata, e infelice. Temporeggiare, era forse l’unico modo di evitargli una delusione.

Perché infliggergliela? Troppo tempo dopo, avrebbe compreso che era per paura di tradire suo padre, i suoi inganni, i suoi ricatti. Ma, allora, non se ne era resa conto. A pensarci, era terribile come suo padre avesse condizionato tutta la sua vita. Se fosse vissuta come una donna, un rapporto così con André non sarebbe stato possibile. Se avesse tradito suo padre, però, lui li avrebbe distrutti… o perlomeno così temeva. E non osava fare un passo. Solo che non ne era ancora consapevole.

Ci rimase male, André. E lei se ne rese conto.

“Non stiamo bene così?”

Un dolore sordo nella voce, una tristezza infinita, quando le rispose “Guarda che non lo chiedo più di due volte…” e rimase, ferito e confuso, per tutto il pomeriggio. Un’ombra di sofferenza quasi stemperata nella durezza nei pochi sguardi bassi, i capelli a nascondere il profilo affilato e la piega di dolore delle labbra, e una distanza che sembrava crescere incolmabile.

Fu uno degli altri errori che avrebbe rimpianto, anni dopo. Se si fossero sposati allora, forse, le cose non sarebbero andate così. O forse sì. A volte il destino ci attende al varco, qualunque scelta facciamo. Qualunque sia la possibilità che scartiamo. Per quanto noi possiamo ponderare.

 

“Non ti sposare… ti prego…”

“Sei sicuro che avevi un amico lì dentro? E meno male, altrimenti chissà come t’avrebbero conciato…” scherza, ora, ma si è presa un bello spavento. E lui era a pezzi.

Scosta piano i capelli dal suo viso, in una carezza. “No, non mi sposo…” ma cosa ti viene in mente, vorrebbe domandargli?

 

Una giornata cominciata male. L’ennesima.

Lungo strada, il silenzio imbarazzato di Oscar, che probabilmente non avrebbe mai pensato di ritrovarsi a trent’anni con due proposte di matrimonio contemporanee e forse sta valutando, chissà, i benefici della bigamia. O di una ritirata strategica.

Lui, che aveva provato a sondare, senza successo, scontrandosi col suo mutismo.

Poi, in caserma, le notizie ferali che l’implacabile latrice delle novità di palazzo, sua nonna, si è premurata di correre a condividere con lui, perché sopportarle da sola è troppo. L’affrettarsi dei preparativi. L’impazienza del generale, che, evidentemente, non si stanca abbastanza a giudicare dal vulcano di iniziative che è, ultimamente. Lui che si sente vacillare il terreno sotto i piedi. Gli sguardi accorati della governante, che lo trapassano e sanno benissimo come lui si senta di merda.

Una giornata proseguita peggio. Decisamente.

 

L’hanno picchiato a sangue, l’attendente. Il presunto nobile. Quello che non appartiene al loro gruppo, e neppure alla nobiltà. Un essere nato di confine, caldo e oscuro, voce e silenzio, in questi ultimi anni. Il viso che si affila, i capelli che lo nascondono, la piega amara delle labbra. Sorrisi, che lo illuminano, sempre più rari. E Oscar, grata, che quasi se ne stupisce e li raccoglie, conservandone ogni memoria, e triste, perché prima sorrideva spesso, ed è colpa sua.

Non vorrebbe che Girodel si intromettesse tra loro. Non vorrebbe osasse farlo nessuno. Ma il padrone può. Teoricamente.

E, così, in quella mattina quasi tiepida, ha riprovato a parlarle, dopo la visita della nonna. Non che non conosca le sue idee, ma forse vorrebbe una rassicurazione.

Ha provato ad inseguirla, una visione bionda e fugace, che non si concede e s’infila in ufficio sobria, severa, mentre le immagini sfumavano nel limbo, ma è caduto, impacciato, goffo, i corridoi scuri che non conosce e sembrano mille percorsi ad ostacoli che gli piombano addosso in un dedalo maledetto. Mentre si sentiva malissimo. Gelato. Perso. Cieco. La caserma un inferno nero che lo inghiotte. I compagni (ma quali?), a pestarlo per noia, frustrazione, rabbia. Una rabbia che veicola su di lui, ma con cui ha poco a che fare. Non è lui che ha sottratto loro qualcosa. Lavora da una vita, André. Ma loro non lo sanno e non ascolterebbero: sono come bestie scatenate, e non si fermano, non finché lui reagisce, resiste. Forse neanche quando crolla, e ancora infieriscono su di lui.

Non è solo un evento accaduto. È anche una metafora di tutta la sua vita.

Forse, non avesse risposto, sarebbe finita prima. Ha risposto per rabbia e rispetto di se stesso. Anche se certe cose non le condivide. Capisce benissimo le logiche di branco, l’aggressività verso il diverso, la frustrazione verso un capro espiatorio. Ma non le può giustificare.

Si è quasi perso nei pensieri, a volte è meno doloroso staccare che rimanere presenti nel proprio corpo ammaccato. Eppure, lei è lì, e sta cercando di aiutarlo ad alzarsi. La sente contro il fianco che sta cominciando a fare male. E cerca di imprimere nella memoria ogni attimo di lei. Ma le ferite iniziano a fare troppo male.

 

Ed ora è lei che gli è accanto, e lo sostiene, mentre lo aiuta ad entrare nella loro nuova casa. Sono fuggiti, via. Per non nascondersi più. Da un po’ di tempo. Si sono sottratti agli sguardi, ai parenti, alla vita del palazzo. A tutti.

Per vivere liberi. Per quanto sia possibile.

 

“Beh, non pensavo di inaugurarla così…”, gli sorride, complice, mentre lo aiuta a togliersi i vestiti. “Non ci sono andati leggeri…” I lividi stanno affiorando. Lo tampona con un panno.

Un gemito trattenuto e un mezzo sorriso, in risposta.

Lo copre, piano. “Resta così… ti faccio dare un paio di giorni di permesso…”

“No…”

Lo guarda, perplessa. “Come?”

“Solo se li prendi anche tu…”

 

Come si fa a dire di no a un sorriso come quello, si chiede. All’aria assolutamente innocente con cui domanda solo di stare al centro delle sue attenzioni per un misero paio di giorni, a fare il bambino viziato tra le sue braccia, a lasciarsi coccolare, lui, che con se stesso non ha nessuna indulgenza. Si sente scoperta, mentre, a passo di carica, torna in caserma, un paio di formalità, chiarire le cose e poi a curare il Grandier, cura morale, più che altro, s’intende… il medico dovrebbe aver già finito, a quest’ora. Quando se ne è andata, l’aveva appena tranquillizzata che non c’erano costole rotte.

 

“Tu saresti il capo…” Lo squadra perplessa, le braccia conserte, appoggiata al muro. Ha già avuto a che fare, con lui.

Assolutamente non formale, come atteggiamento, nota lui. E brava la ragazza. “Dicono.”

“E, allora, mi spieghi come mai di questo linciaggio dici di non sapere niente?”

“Sono un capo, mica un dittatore…”

E bravo il ragazzo. Logica ferrea.

“E saresti, immagino, anche l’amico che André ha qui dentro…”

“Anche…” imbarazzo. Non saprebbe dire se maggiore per sé o per lei. Eppure, lui sa che André non è solo quello che il comandante si porta a letto.

“Un capo deve sapere essere equo, no? Io non sto mica spaccando la faccia a quei sette idioti, giusto?”

Parla a ragione, e lui lo sa. Ha potuto constatare di persona come se la sia cavata coi commilitoni. E in questo caso l’effetto Grandier, è sicuro, accrescerebbe il risultato devastante. La ragazza sa essere una vera stronza, se ci si mette. Eppure, quella notte che l’aveva vista, gli era parsa un angelo.

“Va bene, allora, per equità, devo spaccargliela io?”

“Vedi tu… in generale, evita che ci siano sorprese. Non fa bene neppure alla tua posizione.”

“Non lo sopportano, lo sai…” dopo una pausa.

Alza su di lui occhi color fiordaliso.[1] E pensa che il ragazzo le darà filo da torcere.

Lui, invece, sprofonda in quello sguardo.

Altra occhiata interrogativa, mentre lui annaspa per riprendersi. Non può capirlo, non lei. Ha sempre visto André lottare con tutte le sue forze, senza domandare mai niente. Non può immaginare l’invidia per il raccomandato del comandante, il suo amante, il servo. Nessuno può capire. Nessuno lì conosce il valore di lui. A corte era un diverso, un inferiore, e lo è, diverso, anche qui. La condanna del Grandier. Restare nel limbo, senza appartenere a nessuno dei due universi.

“Loro vi odiano, voi nobili, perché avete tutto senza esservelo guadagnato.” Però, come galleggi bene, Al, si dice, dandosi dello stronzo. “E più ancora odiano quelli come lui, che vi fanno da servi. Voi siete parassiti e quelli come lui, in un certo senso, anche.”

Incassa, lei. “Grazie per l’informazione.” Ha ragione lui. Nella società esistono parassiti ed immense ingiustizie.

“Di niente.” Un mezzo inchino sarcastico. Che vorrebbe mascherare l’ammirazione per il fegato di quella donna, che incassa così. Per i suoi occhi limpidi. Per le mani delicate. Ne approfitta per un’occhiata di troppo.

“Ma ricorda che ad André nessuno ha mai regalato niente. Quello che ha, l’ha ottenuto da solo. Capisco che i soldati non ne abbiano idea, ma, peggio per loro, capiranno il suo valore.” Poi, ritorna sui suoi passi. “E tu, com’è che non lo escludi? Sei troppo intelligente per credere ai pregiudizi?” E se ne va, lasciandolo a rimuginare.

 

Un bell’appartamento luminoso, comodo per raggiungere la caserma.

“Se non vuoi che ci sposiamo, almeno andiamo a vivere insieme”, le aveva proposto André, ancora abbacchiato per il no, riprendendo un vecchio discorso. E lei, improvvisamente, aveva sentito che era la scelta giusta.

 

Quando hanno trovato qualcosa di adatto, André, che ha scoperto – e approva - i gusti difficili, sobri, minimalisti, raffinati di Oscar, si è preoccupato. “E come lo finanziamo, questo… io non…”

“Non preoccuparti”, l’ha interrotto lei, che, evidentemente, l’attendeva al varco. “Il tuo contributo sarà anche in natura…” E aveva sorriso, sorniona, radiosa. E, mentre lui via via assumeva un’espressione beatamente ebete, aveva aggiunto: “Io non so cucinare. Ti darai da fare tu, vero?” E, assestandogli una pacca, aveva commentato, mentre considerava ammirata la solidità delle sue spalle “Ci conto, sai?”, definitivamente investendolo dell’arduo compito e insieme lasciandosi andare, deliziata, alla fantasia di immaginarlo corredato di un gustoso grembiulino di cui volentieri e con sommo gusto l’avrebbe liberato. Ah, l’uomo oggetto, si era detta! Che splendida sensazione di potere!!! A lui poi non sembrava neppure dispiacere, in fondo, aveva considerato, al mero scopo di alleggerirsi la coscienza.

Si era rivelato fin troppo bravo come cuoco. Oscar aveva dovuto implorarlo di ridurre le dosi, contenersi nei suoi esperimenti, non riempirla di prelibatezze create in suo onore, tanto rischiava di non entrare più nelle uniformi… ma lui sosteneva con somma fiducia che l’avrebbe aiutata a smaltire tutto.

Lei si era limitata a rispondere che, se non si fosse dato una calmata, avrebbe dovuto imparare anche a cucire, per allargarle l’uniforme.

 

è stato solo vivendo in un ambiente diverso, davvero suo – sarebbe più corretto dire loro: André ha, con la propria personalità, occupato i suoi spazi, dato il proprio tocco, e lei osserva, curiosa, dolce, sorpresa di ritrovare lui in quello che si vede attorno -, che, lentamente prende una propria fisionomia che, in qualche modo rispecchia chi l’ha creato, che, se ne rende conto, ha cominciato davvero a sentirsi più libera. Con se stessa. Con André. È strano. Non l’aveva realizzato, fino a quando non è entrata in contatto, sorprendendosi, con questa nuova sensazione.

Non si è davvero mai sentita libera. Ora lo sa. E non sa neppure come confrontarsi con questo.

È strano pensare che tra un po’ si sarà abituata all’idea. Che quella libertà sarà data per scontata e non percepita come un privilegio, una conquista nata da una risoluzione che ha segnato un’ulteriore evoluzione nella loro coppia. Un passo ancora e si domanda, stupita, dove li porterà quel percorso.

Osserva con stupore le pareti, i mobili, il panorama dietro le finestre, godendosi la calma che regna attorno a sé, senza nessuno che imponga qualcosa, se non noi stessi, e si domanda come abbia potuto resistere tanto a lungo, in quel palazzo.

André è una persona tranquilla. È bello viverci insieme. Stare accanto a lui e scoprirne altri lati che, altrimenti, non avrebbe conosciuto. La convivenza non la sta deludendo. Semmai, è la conferma di qualcosa che, altrimenti, avrebbe potuto solo intuire.

Chissà se anche per lui è la stessa cosa. Forse, si domanda, lievemente allarmata, lui non si trova così bene con lei. Si ripromette di interrogarlo in proposito.

È bello trovarsi nello stesso posto, vicini, ognuno preso dai propri impegni o passioni, eppure sapere che basta uno sguardo, il tocco di una mano, per trovarsi, che esiste, ora, concreta, la libertà di sfiorarsi in una carezza, un bacio. Senza più nascondersi.

È straordinario pensare che avranno momenti loro che non saranno più rubati. Che, ogni volta che vorrà abbracciarlo, potrà farlo. Non se ne era resa conto, prima di sperimentarlo. Non avrebbe neppure mai detto di non poterne, ora, fare più a meno.

E si domanda, davvero, come abbia resistito tanto a lungo. Come abbia potuto accettare di vivere senza libertà.

 

È strano. Si prende sempre più lunghi momenti di silenzio e riflessione. Una calma apparente, mentre la testa pare in preda ad un lavorio febbrile di sottofondo, e la notte compaiono immagini, scene, neppure sogni, come tasselli difficili a ricomporsi, come altre vite, parallele, che affiorino negli stati alterati della coscienza. Come brandelli di memoria che la mente può, ora, lasciar riaffiorare, sfuggire.

È un periodo che dovrebbe essere nuovo, forse bello. Ma è anche troppo denso. Di questi pensieri. Di altri, più concreti, per lui, per come stia, per come sarà, tra loro, poi. Egoisticamente. E per come si possa sentire, per come riuscirà ad affrontare, André, anche quello.

 

La luce abbaglia dalla finestra.

L’autorità paterna siede, composta e marziale, in una poltrona, circondato dai suoi libri. Credo sia intimamente soddisfatto di tutti i guai che sto avendo alla Guardia metropolitana. Mia madre, come sempre, gli ha dato man forte. Anche stavolta. Che stiano lì ad aspettare, in silenzioso, distante, muto, durevole accordo, che io cada, per apparentemente risollevarmi con il loro sano paternalismo e, in realtà, dimostrare a se stessi di potermi distruggere per l’ennesima volta?

Il tono era pacato, finché non ha sentito la mia risposta. Dopo, si è fatto carico di rabbia e risentimento, repressi – o minacciosi, volutamente minacciosi, intendo – nella voce. In quella voce calda, che sa farsi prepotente e stridente.

Io non voglio sposare Girodel. Io non sono un oggetto. Né una pedina. Lo sono stata già troppo a lungo.

Io sono libera.

Non lo voglio sposare. Non ho niente a che fare con quella persona. Né con ulteriori pazzie di mio padre.

Io sono un essere umano.

La sua voce, ora, si fa suadente. Mi si avvicina. Siamo in piedi accanto alla finestra, entrambi inondati dalla luce, filtrata dalle foglie. Il calore sembra più bruciante, attraverso il vetro. Nonostante l’ombra del verde riesca quasi a trasmettere un po’ di fresco. Mi si avvicina. Strano. Come farebbe un amante. Mi sfiora il viso.

Arretro istintivamente, metto della distanza tra di noi. Non è normale. Non è normale niente di quello che sta succedendo.

Ora sento la mia voce rispondere che non ho nessuna intenzione di fare quello che mi chiede, ma non è dura come vorrei, non è tagliente come la sentirei dentro. Sono come in una bolla. Con lui non riesco ad impormi né ad oppormi. Riesco solo a fuggire, a svicolare. Ma cosa succede?

Scappo, quasi. Corro via. Corro via lontano. Lontano dalla inspiegabile sensazione di schifo e orrore che ho provato quando mi ha toccato.

Ma che succede?

 

“Ma cosa sta succedendo?” Con mia madre il tono posso alzarlo. Privilegio del maschio di famiglia…

Tanto, lei lo difende sempre. Per quello che conta. Per me, conterebbe…

“Si può sapere cosa ti ha fatto?”

Mi sorprendo a pensare che non è a me che dovrebbe chiederlo, che lei dovrebbe saperne più di me… ma è inutile farglielo notare… spero solo di non fare la sua fine… anche se quello che sono lo devo certamente molto a lei – e molto ad André…

E sbotto, rabbiosa, come un fiume in piena, mentre lei mi guarda, addolorata, e io sento anche pena, per quello che è, per quello che non sarà mai, perché la vorrei dalla mia parte, solo dalla mia parte, e non lì a barcamenarsi, tra me e lui. “Ha abusato di me, della mia fiducia!” Quasi a temperare il senso di quelle parole.

Mi guarda, ora, allarmata, spaventata. Ma non è per me che è spaventata. È per lui: “Ma cosa vuoi dire?” Cerca di capire. Allora non me ne rendevo conto. Ora lo so.

E quando le urlo, esasperata “Io non sono qualcosa nelle sue mani, io ho diritto di vivere la mia vita!”, quasi si tranquillizza, mentre la mia rabbia, che ho costretto davanti all’aguzzino, si concede di esplodere, finalmente, di fronte ad un oggetto traslato. Ma lei è sollevata. La fiducia, dopotutto, è qualcosa di impalpabile, di poco conto. Avrei potuto dire di peggio. Invece, ai suoi occhi, quella parola ha risollevato la situazione, forse le ha evitato di non restare a metà tra queste due orribili figure di tiranno, che sono il marito ed il figlio – maschio - cioè io.

Sembra triste, quando articola, come se le avessi rubato l’amante (strana relazione per essere io un figlio - maschio, s’intende -): “Sei l’unica persona a cui voglia bene…”

E io sbatto furiosamente la porta, urlando “Non è un problema mio!” e sperando che crolli magari anche l’architrave e seppellisca quel cumulo di menzogne in un cumulo ancora più grande – e definitivo – di macerie! Senza che tocchi a me fare il passo di seppellirli, perché vorrei distruggerli, o mollare tutto, ma ancora non sono pronta. Cristo!, dover sentire anche una cosa del genere, in una situazione così folle, è davvero troppo!

 

Incrocio André, con uno sguardo da cane bastonato, ma con una brace di orgoglio, che ancora cova sotto. “Oscar…” Sa che c’è stato un confronto col genitore… lui mi accompagna, mi tiene d’occhio, la servitù parla, la nonna si accora…

Ma non ho forze per sostenere pure lui. “Scusami…”

“Andiamo via”, gli dico, veloce, ma non spiego.

Mi limito a sfrecciare via e lo lascio nei suoi dubbi. Egoista, una volta di più. Ma devo, in qualche modo, salvarmi. E forse il pensiero sadico di maltrattare qualcuno che a me tiene davvero mi dà un’idea di forza. E lui è l’unico che davvero si preoccupi per me.

Voglio solo correre a casa mia. A casa nostra.

Rifugiarmi nella nostra realtà. Nella nostra vita. In quello che siamo, nonostante loro.

 

Riempio la vasca. Ho bisogno di calmarmi. Ho bisogno di immergermi nell’acqua e togliermi di dosso tutto questo schifo. E di non sentirli. Di non vederli.

 

La vasca è diventata un rifugio.

Per fortuna, la casa ha un buon impianto moderno, non è neppure difficile approvvigionarsi d’acqua… sempre pratica, Oscar…

 

André beve parecchio, in questi giorni. E anche io…

Sa benissimo che non sposo quello là.

E, allora, perché diavolo ti sbronzi?

Se non è per me, perché? Perché non sono al centro della tua vita, dei tuoi pensieri? Perché c’è qualcos’altro che ti preoccupa? Soffoco i fumi della mia rabbia, l’amore è anche egoismo, va bene, ma lui, poverino, ha anche lui i suoi problemi… solo, vorrei me ne parlasse… così è tutto più difficile…

Dov’è finito il tuo amore, quando vai a sbronzarti coi tuoi compagni? Quelli che, dopo averti picchiato e fatto la festa – svariate feste, dovrei ammettere -, hai costretto, non so come, magari con la tua testarda resistenza, con la tua incrollabile capacità di non arrenderti, a rispettarti? E perché io, solo perché sono io e perché sono il comandante, non posso bere o lasciarmi andare a bere in pubblico, e devo limitarmi a sopportare di vederti annientato dal vino, sparare cazzate o immerso in muti silenzi, in mezzo a questi vari individui, e devo ridurmi a bere nottetempo, nascosta anche a te, perché i tuoi sguardi di disapprovazione non me li risparmi. Volevi fossi libera da mio padre, ma da te, chi mi libera? Dalla misura con cui mi compari a quella che ero, forse, nei tuoi ricordi, o nelle tue fantasie, e magari non sono mai stata… mi conosci davvero?

E io, conosco te?

Sono strana, in questi giorni…

La notte dormo poco. Se bevo è per non pensare. Eppure, farei bene a lasciare che i pensieri che cerco di annegare emergessero, se mi tormentano tanto. Magari starei di merda, ma, poi, chissà, dopo andrebbe meglio…

Non dormo, o, meglio, nel dormiveglia rivivo delle scene, che sembrano sogni, ma a me sembrano reali. Forse sono solo stanca. È un periodo difficile. Vorrei solo andar via, mollare tutto, averti vicino ed esserne sicura (che terribile egoista) e scappare lontano, invece dobbiamo resistere, qui, tutti e due stanchi da morire, tutti e due feriti, in mezzo ai problemi. È come una guerra civile, qui. E non possiamo mollare ora…

Ma sono stanca. E in questa stanchezza immagini tornano. E non sembrano sogni. Anche se le vivo come in un delirio. E mi colpiscono come fucilate. E mi devastano. E vorrei urlare.

E invece resto schiacciata, paralizzata, sotto le coperte, con le dita che neanche riescono a stringersi sulle lenzuola, mentre i ricordi si chiariscono. Mentre vorrei urlare, e non ci riesco. Mentre vorrei svegliarti, ma non ne ho neanche il coraggio. Chi avrebbe il coraggio di dire quello che la mia mente sta raccontando, ora, in immagini slegate?

In fondo, alcune le ho sempre ricordate. E, mentre il cuore mi scoppia nel petto e le mie dita ghiacciate si stringono ai tuoi fianchi, perché, anche in questa situazione, ho bisogno di sapere che tu esisti, vivo, non sei né un sogno né un incubo, che tu sei vero, e quello che posso star ricordando, se è esistito come penso – e non è un incubo –, è passato, e non è qui, né reale come la carezza che mio padre mi ha fatto, quel giorno, vicino a quella maledetta finestra.

Che lui approfittasse della presunta complicità tra il padre ed il figlio. Che questo gli desse modo di comportarsi con me come non avrebbe dovuto. Di mostrarsi a me come non avrebbe dovuto e di allungare le sue mani su di me, come non farebbe un padre sano. Io lo vedo, lo rivedo, ora, lo rivivo, rivivo l’orrore e il silenzio, come fosse adesso, ma era allora, quando non capivo.

Non è così un padre sano, vero, André? Non è stato così, il tuo...

E in questa notte terribile, nel silenzio, ancora una volta, annego, come mi soffocasse. Come sentissi ancora una volta quelle mani che mi fanno schifo, ora, qui, addosso a me.

Sono schiacciata – anche ora. Faccio uno sforzo enorme, in queste ore infinite, per tirarmi su, a sedere. Per non svegliarti con questa realtà che pare follia. Per vincere questa forza immane che mi schiaccia e mi pesa addosso. Per non perdere neppure uno degli appigli che la mente vomita fuori, stanotte.

Mentre, fuori, per fortuna, l’immensità dell’alba sta per spazzare via la notte. E ora capisco, in fondo, perché la notte mi abbia sempre destato disagio. Ora, forse, riuscirò a dormire.

Mentre vorrei urlare e chiedere perché? Soprattutto a mia madre. E le sue parole indirette me lo spiegano, forse, se è vero che io sono l’unica a cui voglia bene. Ma un bene schifoso, distorto, egoista, narcisistico.

Mentre attendo, disperata, che anche tu ti svegli, perché ho un bisogno che mi dilania e mi fa male di condividere almeno con te, che non mi prenderai per pazza.

 

Sono un po’ più tranquilla, ora. Si fa per dire.

Parlare con André, in quell’alba, un po’ mi ha aiutato. Solo dopo, solo dopo che gliel’avevo detto, con enorme difficoltà – eppure sembravo distante -, mi sono sentita un po’ più sollevata.

Lui non ha detto niente. Ma mi ha guardato con un dolore infinito. Come se lo provasse lui, per me. Come se, davvero, potesse capirmi.

Mi ha fatto sedere lì, accanto a lui, e mi ha stretto per la vita contro di sé.

E, in quel silenzio, ho sentito il suo respiro contro di me.

Il suo braccio attorno ai miei fianchi.

Non ci siamo detti altro.

 

Laura, 2002, 2004, estate 2005, autunno-inverno 2005, gennaio-aprile 2006, maggio 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2006.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Citazione dalla Migliavacca.