BK's Night
Parte XVI
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Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Disperava di
riuscire a trovarlo, ormai. Si era fatto talmente tardi. Non sentiva più la
fame, solo la testa leggera della stanchezza, la pelle eterea delle mani,
fredde, che serravano le redini.
Ancora un isolato, si disse. Se non lo trovo…
Lo vide, camminare rasente al muro, per evitare di urtare le persone. Gli altri.
Ed ebbe un tuffo al cuore.
Le sembrò strano. Stonato. Qualcosa in lui. I capelli, forse, scompigliati e
trascurati, troppo lunghi. Poi, notò quella mano scorrere lungo le pietre. E si
sentì morire.
Non l’aveva quasi mai visto fuori dai luoghi che conosceva, e, ora, la realtà
era un impatto violentissimo.
Si sentì come rotta, dentro. E cercò subito scuse per non crederci.
Non ebbe neppure il coraggio di chiamarlo. Restò lì, ad osservarlo arrancare, a
tentoni, pallido, tirato, quella maledetta mano che lo precedeva, l’altra,
scostata in avanti, ma più discreta.
Poi, lui la vide. Occhi stretti, a cercare di mettere a fuoco. Sopracciglia
aggrottate.
Uno scambio di disagio, quegli occhi che, sorpresi, si incontrarono.
Lei, a non saper dire. Ancora profondamente ferita e impreparata ad averlo di
fronte. Nonostante l’avesse cercato.
Lui, che, forse, non aveva atteso altro per giorni. La speranza. E l’amore. E la
comprensione. Non il perdono. Né la pietà.
Timidi, senza riuscire a parlare, si scrutavano in cerca di un segnale.
Un passo. Di lei. Perché, si disse, mai sarebbe riuscita davvero a stargli
lontana.
E i passi, affrettati, di lui. E l’abbraccio in cui l’avvolse.
L’attimo in cui si lasciò andare.
E, poi, subito, si ritrasse, rigida. “Come stai?” Impacciata.
Senza riuscire a dire. “Dov’eri finito…”
“E tu…” le parole del cuore, che la mente ripudia. E che riportano il dolore,
ancora, tra loro.
Sono lì, soli, appartati.
Lui le tiene piano le mani tra le sue. La scruta, intimidito, in brevi sguardi
intensi, nascosto dai capelli. E pesa le parole.
Non è ancora riuscita a convincerlo a ritirare le sue cose dalla pensione.
“Quella è anche casa mia”, ha insistito. “E se io rientro, rientri lì anche tu.
Nessuno deve permettersi di sindacarlo.”
Le tiene ancora le mani tra le sue. Non osa lasciarle. Parla piano. Pondera le
parole.
“Oscar, al di là di tutto, penso sia il caso di non vivere più lì. Io, ma forse
anche tu. È una cosa che dovresti prendere in esame…”
“Probabilmente hai ragione”, ammette, “ma ti dico una cosa: noi da lì ce ne
andremo insieme.”
Una stretta che si rafforza, impercettibilmente, sulle dita di lei. Una piccola
luce, nello sguardo. Si riaccende la speranza, in lui, a quel plurale. Allora,
forse, lo vorrà ancora.
“Quanto al tuo lavoro…” continua lei.
“Io ne ho bisogno… lo sai”, si sente a disagio, ma è la realtà. “Tuo padre ha
fatto diramare un comunicato… mi considerano inabile, per via…” non osa dirlo,
sa che le farebbe male, sa che sembra fatto apposta, anche per volerla
impietosire. Ma non l’ha scelto lui.
“Sì”, taglia corto lei. “Ci ho parlato. Stronzate.”
La guarda incredulo.
“Sì, però ho un amico tramite il quale potrei arruolarmi nella Guardia, e al
momento mi rifiutano l’ingresso per causa sua…”
Un respiro. Lo guarda. Seria. Vorrebbe domandarsi chi sia e dove si sia fatto,
lontano da lei, questo amico. Un moto istintivo di gelosia. Ma non è il momento.
“Ora ti dico come la penso”, lo affronta. “Poi, valuta tu.” Quasi si sorprende,
della calma nella voce. Ma ha fatto mentalmente quel discorso troppe volte.
“Prima di tutto, non credo proprio che una bella raccomandazione del comandante
della compagnia, vale a dire il generale di brigata, non conti niente
all’interno della stessa compagnia.” Un’occhiata a misurare l’effetto delle sue
parole. L’aria da pirata.
Un sorriso accoglie quelle parole. André comincia a rilassarsi.
“In secondo luogo, avresti già la paga di attendente. Che non è bassa.”
Lui la guarda. Non sperava davvero. “Ma lo vuoi davvero…”
“È chiaro. Io non accetto nessuna imposizione, sul mio lavoro. Decido io chi
lavora con me. È una questione di fiducia.” Lo guarda, severa. “Se poi”,
riprende, “vuoi anche la paga di soldato, fai come vuoi.” Butta là. “Ma tieni
presente che guadagno abbastanza per noi due e che, francamente, preferisco che
tu sia libero da turni e impegni, e che passi più tempo con me.”
Lui s’illumina. Il peggio non è certo passato, ma si apre uno spiraglio.
“Oscar…”
“Poi, decidi tu. È una questione che riguarda la tua autonomia.”
A quel punto, ha in mano tutti gli assi. E gioca l’ultimo. Dalla posizione di
vantaggio che si è conquistata. È un duello, una partita, in fondo.
“E, per quanto riguarda l’altra sera…”
E lui ora la fissa negli occhi.
“Sei stato un egoista”, lo inchioda. Parola dopo parola.
“Io non volevo farlo”, continua, “e tu non ti sei neanche posto il problema di
cosa pensassi.”
Non smette di guardarlo.
“E non sei stato neanche attento.” Lui solleva il viso.
“Mi dispiace…” e gira la testa. Si rende conto del casino che ha combinato.
“Non farlo mai più.”
Abbassa lo sguardo. Stringe le dita.
“Hai ragione, Oscar. Scusami.”
Prova a chiarire, ma sa che non serve.
“Non mi sono neanche reso conto di cosa stavo facendo.”
“Spero”, lo sferza, ma dentro ha una tristezza infinita a portare a termine quel
compito, ad avere ancora a che fare con quella delusione, “che ti sia reso conto
che eri con me. O l’avresti fatto con chiunque?” Lo incalza secondo copione, ma
è così stanca.
“No, no… ma cosa dici?” Mortificato. Distrutto.
“Oscar, io avevo bevuto…”
“Non è una scusa: non avresti dovuto bere al punto da perdere il controllo.”
“Certo, hai ragione, ma…” si domanda se sia persa. E il sentimento dilaniante
dell’idea di perderla lo costringe a parlare. “Lascia che provi a spiegarti.”
Non può dirle che era disperato perché non vede, perché c’erano state le
continue provocazioni di Girodel, che, di fatto, poi è andato effettivamente a
denunciarlo al generale. Ma può dirle, forse, il resto.
Quello che forse lei ha intuito. Che, poche volte, lui ha accennato dietro
parole come ‘sono diverso da quello che credi’ o ‘nascondo cose oscure, dentro
di me’, in brevi momenti di intimità, subito occultati.
“Oscar, io… non so neanche come dirtelo… vedi, io ero disperato.” Come si fa a
dirle che era a pezzi, aveva paura della cecità, e questo lo devastava? “Avevo
paura di perderti. Ti vedevo lontana… E, invece”, abbassa la testa, “io ti ho
sempre considerato mia…” lo ammette, gli costa, sa che poi lei forse lo odierà,
ma, perso per perso, tanto vale lo sappia. “Anche prima.” Aggiunge.
Lei lo guarda, ferita. Interdetta. Piena di dolore. Anche prima…
“E mi spaventava l’idea di non averti, di perderti.”
Una pausa. Alza lo sguardo su di lei.
“Ti volevo.” È troppo difficile, ma se non parla sente che la perderà. “Eri mia.
E nessuno, là fuori, lo sapeva. Pensavano fossi lì per loro…”
Continua a sostenere il suo sguardo. “Questo non…” comincia lei.
“Aspetta, per favore… un attimo solo…” le domanda. E anche lui mette sul piatto
le sue carte. “Vedi, il fatto è io sono molto attratto da te, anche
fisicamente.” Non sa come dirglielo. Non sa come raccontarle di quel lato
oscuro, che lo fa un animale e che ha paura la porti a disprezzarlo. Ma, si
dice, se non può comprenderlo lei, allora, chi altro? È giusto non
nasconderglielo. “Se potessi, io ti farei mia in mille modi… intendo,
prenderti…” la voce bassa, chiara.
Le sfugge un sorriso. “Questo l’avevo capito…” concede.
È difficile provare a spiegarlo. “Io, quando… quando ti ho preso… da dietro…”
“Ah, lo ricordi, quindi…” l’imbarazzo, a rompere le parole.
“Sì… Vedi, io ti volevo. Tutta. Era un fatto sessuale. Ti desideravo,
completamente. Volevo stare dentro di te. Averti.”
“Beh, mi pare che…”
La implora con gli occhi. Di lasciarlo continuare. Altrimenti è troppo
difficile. “Ma era un fatto sessuale… E, quanto al fare attenzione, non volevo
cercare di metterti incinta, per tenerti legata a me, no. Non sono il tipo”,
conclude, serio. Cupo. “E, poi, ci sono sempre stato attento anche io, forse più
di te.”
La guarda, disarmato. “Lo sai che non ho bisogno di altro, per essere felice con
te…” Disarmante.
In quel momento, lei non ha neppure la forza di guardarlo negli occhi. L'ha
fatta soffrire. Troppo. Ma, ora, vedendolo, ascoltandolo, comprende anche la
sofferenza di lui. “Non ti odio. Non ce l’ho con te…” Lo so che eri perso, in te
stesso… in un dolore che, in certi momenti, mi è parso come di toccare, ma di
cui non riesco a capire fino in fondo le ragioni… “Ma non è neppure facile
passarci sopra.”
"Cosa devo fare, Oscar…" le domanda, gli occhi lucidi. “Dimmi cosa devo fare…”,
le ripete, perso.
Ha uno sguardo buio, triste. "Non… non lo so…" articola, piano.
La durezza, andata. Vorrebbe piangere, le fa male il cuore. Sta male, per sé e
per lui, e si rende conto di quanto stia male anche lui, ma il dolore degli
altri, a volte, è come se valesse meno.
Se ne rende conto, vedendolo.
E, così, senza più senso, in una corsa di mani, sorprese, a cercarsi, come se
davvero si potesse sopravvivere, senza più soffrire, e un rincorrersi di
sguardi, per nascondere il dolore, l’odio, si stringe al petto la testa di
André, carezzandogli i capelli.
Non è più l’amore. È l’affetto, infinito, che la sta guidando. L’amore è ferito
e fa male, dentro. L’affetto può curarlo.
E sta lì, mentre, tra le mani, guarda il suo sguardo disperato, e si sente
perduta al pensiero della tristezza di lui e lo stringe più forte,
nell’abbraccio. Come in un rifugio. Perché si accorge che potrebbe non provare
più niente. Che quell’amore va difeso. E tocca a lei.
Era partita. Per allontanarsi da lui.
Era ferita. Lo era ancora.
Eppure, stare senza di lui l’aveva devastata, costringendola a confrontarsi con
la mancanza che, sempre, senza di lui, ormai l’accompagnava.
Come se non potesse fare altro che tornare.
Era stata la pena, era stato l’affetto di anni, il bene che gli voleva. Non era
stato l’amore, si disse, ad aver scaldato quell’abbraccio di dolcezza.
L’amore avrebbe domandato vendetta e strategia. E tempo.
Il tempo l’avevano accuratamente sprecato per anni. Sfuggiva, implacabile,
veloce e perfido. Le vendette erano cose di amanti di letto e non d’amore e
d’amicizia. Le strategie, i capricci di quel secolo libertino. E loro due, solo,
tristemente, due persone serie.
Se fosse stata la pena. O l’amore. A farle, dolorosamente, passare sopra
all’accaduto. A farle considerare lui con dolcezza. Se fosse stato questo, non
l’avrebbe saputo dire.
Ancora ferita, sola, chiusa in se stessa. Era questo il nodo di sensazioni che
continuava a portarsi dentro.
Ma, si disse, non aveva senso continuare a coltivarle alacremente. Per farsi del
male. Per farne a lui.
Non aveva senso continuare a voler ignorare come si sentisse lui. Non aveva più
neppure scuse.
Ripensò alle lettere che gli aveva scritto e mai consegnato. Le aveva trovate,
gliel’aveva scritto nel biglietto. Ora le aveva lui. E mai come in quel momento,
pensò, quelle righe rappresentavano tutto. Quello che sentiva. Che aveva provato
e nascosto. Che, finalmente, era riuscita a comunicare. Mai come ora quelle
parole erano il segno di cosa non rifare. Lo portavano impresso come un marchio.
Entrambi. Tienile tu, amore, si disse, è giusto che le abbia tu. Erano per te…
Forse neanche riusciva a concepire quanto avessero rappresentato, per lui,
annegato in quella disperazione. Solo. Allontanato. Quell’unico spiraglio. E, in
un brivido, si disse che era stata una fortuna che le avesse trovate. Finché
ancora poteva leggerle. Dopo… dopo…
Nascose il viso tra le dita contratte.
Non avrebbe saputo immaginare, allora, quando le avrebbe trovate, di nuovo…
Sorrise tra sé. Triste, si disse, come le ragioni che ci muovono si accontentino
di poco… passi la vita a provare ad odiare, poi scopri che non è quello che
vuoi. Scopri che capisci l’altro. Chi hai di fronte.
È difficile ricominciare.
Difficile, anche se sei tra le sue braccia, e lui ti stringe forte, a rinnovare
l’idea che tu torni sua. In un eterno ritorno.
“Io lo so da quanto tempo mi volevi bene… lo so”, gli disse, la voce piena di
tristezza. “E so quanto ti ho fatto male. Ma pensi davvero che voglia fartene
ancora?” Non aveva voglia di parlarne di nuovo. In quei giorni ancora di
disagio, di passi affiancati senza osare di più, dita timide a cercare la sua
mano inerte. Che pena, all’idea che lui abbia dubitato…
“No… scusami…” gli occhi bassi.
E, poi, un velo di lacrime. Ad offuscarli. “Ti ho fatto male… scusami”. Aveva
affondato la testa sul suo petto. “Scusami”, ripeteva, piano. Mentre lei lo
circondava in un abbraccio, carezzandogli i capelli.
“A volte ti sento lontano…” gli disse, piano, dopo l’amore.
Lo teneva abbracciato.
Era stato amore furibondo. Intenso. Pieno di dolore. E passione. Era stato
prendere con egoismo. Sfamarsi il corpo. Per tentare di colmare il cuore. Quel
vuoto. Quella pena che ancora li serrava.
E, poi, quando la tristezza e il rimpianto si erano esauriti, era stato,
lentamente, dolcezza. E sorprendersi commossa, quando le aveva detto “Ti amo”.
Come fosse la prima volta, ma, allora, non si ha abbastanza esperienza per
ascoltare a fondo il senso. Perché è così difficile poterlo affermare ancora,
dopo quello che è accaduto.
“No… no, Oscar”, si affrettò a rispondere. “Sono sempre qui, vicino a te…” La
strinse un po’ più a sé. Come a rassicurarla.
O a rassicurare se stesso.
“A volte sembri ferito…”
“No, amore, cosa dici…” ma sapeva quanto fosse vero.
Si sollevò su di lui. I capelli le sfiorarono le spalle, i seni. Poi, si
sciolsero su lui.
Lo guardò. “Perché sembri triste, come se io non ti bastassi?” O, forse, sono
io…
“No, amore, no…” Perso nel dolore di quelle domande. E delle risposte. E preferì
non pensarlo. “Non dirlo. Non dirlo mai, ti prego.”
“Dimmi che cos'hai.” Non lo incalzò. E non lo fece apposta. Semplicemente, non
poté evitarsi di continuare. “È l'occhio?”
Lo vide trasalire.
Ebbe solo il silenzio come risposta.
“È questo, vero?” Ripeté. Apparentemente calma. Mentre le dita, gelate, si
contraevano su di lui. E si sentiva morire. Solo morire. Mentre il mondo finiva
assorbito nel ronzio dell’oscurità.
Non riuscì a sostenere il suo sguardo.
“Oscar…”
Le prese le mani.
“André, perché non me l'hai detto?” Ti avrei protetto…ma da cosa, si domandò, da
se stessa? Dal suo egoismo? Da se stesso e dalla vita che si stavano scegliendo?
“Io… io…” non sapeva davvero cosa dire. Sentiva solo, con inspiegabile certezza,
che, tutti e due, si stavano precipitando verso un abisso senza scampo.
“Non dire niente”, la pregò. “Non dirlo.”
Seppe solo, Oscar, che quel momento infinito avrebbe segnato le loro vite. Lo
sentì distintamente. Ma non riuscì ad opporsi.
Ebbe la netta sensazione che ognuno di loro stesse, metodicamente, e senza
poterlo in alcun modo evitare, scavando la fossa all’altro. Che non ci fosse via
d’uscita o punto di svolta.
“Oscar, io voglio…” no, si corresse: ormai quel tempo apparteneva al passato.
“Volevo solo stare accanto a te. Finché mi fosse stato possibile…” glielo
confessò così, in una maniera totalmente disarmante. E vinse. Di poter morire
per lei. Di portare alle estreme conseguenze la sua ostinazione – perché,
davvero, Oscar si domandò, cos’altro poteva essere quell’amore totale?
Cos’altro poteva essere, se non una terribile capacità di annientarsi,
nell’altro, per l’altro?
“Lo farai, amore”, lo rassicurò. Sentendosi altrettanto pazza.
Ebbe un raro sorriso. Grato. Come se la guerra fosse finita. “Allora, ti prego,
ancora per un po', lasciami stare accanto a te.” Le carezzò i capelli,
scostandoglieli dal viso. Voleva vederla. Le percorse il viso con le dita,
leggero. Mentre non staccava gli occhi da quelli di lei. “Voglio starti vicino
ancora un po'...”
“Tutta la vita”, concluse, piano, tra i suoi capelli, in un sorriso addolcito. E
lei non sentì.
Laura, 2004, estate 2005, autunno-inverno 2005, gennaio-aprile 2006, maggio 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2006.
Continua...
Mail to laura_chan55@hotmail.com
note: 1) De André, "Disamistade", Anime salve, Emi, 1997, “che dev’esserci un modo di vivere senza dolore, una corsa degli occhi negli occhi a scoprire che invece è soltanto un riposo del vento un odiare a metà”.
2) Recuperato dal working 19-6-04, reinserito e rielaborato dal dicembre 2005. Questa parte, lavorata il 31-1-2006.
3) De André, "Disamistade", cit., “Si accontenta di cause leggere la guerra del cuore”.
4) Guccini, "Canzone delle domande consuete", Quello che non..., Emi, 1990. “Non parlare, non dire più niente, se puoi. lascia farlo ai tuoi occhi, alle mani”. Canzone straordinaria, che mi riporta a momenti del passato.