Alternate BK's Night
Parte VIII
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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.
Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.
Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.
“Hai notato anche tu che André veste in maniera più dimessa, da un po’?” Cerca conferma in Rosalie. A lei le camicie sembrano sempre più consunte, la stoffa logora. Così anche i soprabiti, le scarpe. E accorcia i capelli meno spesso. Non che a lei dispiaccia, quell’aria un po’ selvaggia, gli dona anche, ma vorrebbe capirne la ragione. Forse è voluta… non ci ha mai fatto caso, lo vede ora perché è un cambiamento, in negativo. L’assenza di qualcosa che prima faceva parte della norma.
Magari è solo un’impressione, e l’amica, che si occupa di questo, ha le idee più chiare.
“Sì…”
“è strano…” annota Oscar, meditabonda, la mano che cerca conforto nel manto caldo della gatta. “Prima era sempre molto attento…” poi, un pensiero che la trafigge: “Non sarà che…” Si alza.
Rosalie, allarmata, si volta verso di lei. “No, non credo sia la vista…” la tranquillizza, pratica. “André si accorge benissimo che gli abiti sono consumati…”
La guarda, interrogativa. “E allora?”
Anche la gatta solleva gli occhi in alto, seguendo gli spostamenti dell’attenzione di Oscar e le voci.
“Solo che non può ricomprarli…”
“In che senso…”
“Prima, dalla tua famiglia aveva vitto, alloggio, delle forniture ed anche una paga… ora non solo non le ha più, gli resta solo lo stipendio da soldato, ma abita per conto proprio, ha delle spese che prima non aveva… e, tra l’altro, mi pare abbia più da fare di prima, in casa… cucina, sistema… sono cose che nessuno gli riconosce o paga e che prima non aveva bisogno di fare…” si accorge che Oscar è inorridita. “Non vorrei offenderti, ma…”
“In effetti…”
“Non hai notato che sembra molto stanco?”
Scuote la testa, eppure, ora che glielo fa notare, forse sì. E il rimorso duplice, per non averlo rimosso dall’incarico, dopo quella crisi, e per averlo pensato.
“Qui segue tutto lui, quello che non faccio io, intendo…” abbraccia con lo sguardo il soggiorno. “Se ci pensi, a casa tua avevate, per una famiglia sia pure piccola, diversi domestici, cuochi… qui lui deve occuparsi di tutto…”
“Sì…” sembra cadere dalle nuvole.
“Anche decidere la spesa da fare, gli approvvigionamenti, cosa preparare… quello che non faccio io, lo fa lui. A volte passa da me e gli lascio la spesa fatta, a volte la fa lui… insomma, sono tutte cose che richiedono tempo…”
“E lui… quando…”
“André di solito lo fa nei turni liberi, quando tu sei occupata… cerca di stare il più possibile con te… forse per questo non lo noti…” Solo, e non lo dice, io vengo pagata per farlo, lui no…
“Per esempio, se il dottore richiede una dieta particolare, con alcuni alimenti, se ne occupa lui…” poi, quando Oscar la fulmina con un’occhiata gelida, si rende conto dello svarione e aggiusta il tiro. “Alimenti che facciano bene alla vista di André, s’intende…”
“S’intende”, chiosa Oscar, compunta, gli occhi lontani da quelli di Rosalie, che la inchiodano e vorrebbero dirle di smettere quella finzione ridicola.
Eppure, non ci aveva pensato. Non si era assolutamente resa conto del problema. A lei, tra appannaggio e beni personali, mettere su casa non era pesato, ma lui… lui non aveva detto niente, probabilmente per orgoglio, per non darle altri pesi, e lei non si era neppure resa conto di metterlo in difficoltà. E, poi, l’aveva caricato di incombenze, sperando di farlo sentire utile, ma il risultato era avergli sottratto un sacco di energie e tempo. Aveva dato tutto per scontato. Un buon inizio, non c’è che dire.
“Come posso fare…” annaspa, mortificata, cercando di pensare ad una maniera di venirne fuori, di risolvere la cosa senza umiliarlo.
“Non avete delle spese di casa in comune, qualcosa di simile? Stabilisci che una certa cifra è il tuo contributo, e calcola anche che copra le sue spese…”
“Ma io non ho idea di quanto…” tabula rasa, boccheggia di fronte a quelle questioni.
“Va bene”, Rosalie, paziente, si siede al tavolo. La gatta scala una sedia e accorre, sistemandosi ben in mezzo, partecipativa: una scena del genere non intende assolutamente perdersela. “Dammi un foglio e una penna…” fa, mentre la felina la guarda in faccia, in attesa. “Vediamo di fare due conti…”
A quanto pare, lui è entrato nell’atteggiamento minimalista e ha deciso di perseverare nel look trascurato.
“Se mi occorre qualcosa te lo dico, non preoccuparti”, l’ha rassicurata. “Non ti piaccio?”, si è sporto dalla porta a domandare, malizioso.
E le ha ricordato quante spese avranno, dopo. Ragion per cui, ha concluso, non è il caso di farne ora.
“Tienili da parte tu, allora”, ha concluso lei. Argh, ci mancava solo il papi premuroso per il pargolo, annota, con un lieve brivido di orrore o, forse, disagio. E poi è difficile resistere a quegli abbracci caldi, a cui può abbandonarsi, come a cercare un rifugio.
Sì è commossa, l’altra sera, quando è rientrato, imbarazzato, l’aria da cospiratore, a nascondere qualcosa.
Ha sollevato su di lui uno sguardo incuriosito “Che succede…” In un sorriso. Ha appoggiato la penna sui rapporti che stava compilando.
E lui che non osava, ma era chiaro che non vedeva l’ora.
Ha messo, cerimonioso, sulla scrivania un pacchetto.
“Cos’è?”
Lui sorrideva, senza riuscire ad articolare. “Io… ho…”
È arrivata anche la felina ad annusare. “Dai, aprilo…” Un colpettino col naso, e il pacco s’inclina.
“Fai tu…” glielo porge. La gatta segue ogni movimento.
Curiosa, le dita cercano segni, soppesano…
Poi, dalla carta delicata, emerge un orsetto tondissimo. “Non è carino”, le dice lui. “Un po’ somiglia alla gatta…”
Lo guarda, quasi senza capire…
“Ma è…”
Le sorride. Poi, confessa, timido. “Sì, ho pensato a quando eravamo bambini… quindi, maschio o femmina, forse gli piacerà… beh, il nostro era un po’ diverso…” quasi si schermisce.
Ma non riesce a finire. Lei, gli vola tra le braccia, e non sa fare altro che avvolgerlo, capelli, mani, ciglia, emozionata, persa. Mentre la gatta, un po’ delusa, visto che i due umani preferiscono giocare con l’orsetto, si è appropriata della carta.
Se l’è messo sulla scrivania. Accanto al tampone per l’inchiostro.
La carta l’ha recuperata dalla gatta, in cambio di topini di pezza e un nuovo cuscino[1] – giurerebbe però che la micia c’è rimasta male lo stesso –, e la conserva nel cassetto delle cose preziose, con su scritta la data e André.
Lo contempla, trasognata, una mano a sostenere il viso.
Certo che è proprio matto, pensa. E ride da sola.
Eppure, forse solo per quel piccolo pensiero che lui ha avuto, si sente appagata.
Quanti secoli sono che hanno sepolto il loro orsetto, con la trottola e il coltello?
Era stato come l’addio all’infanzia, e tutti e due, dopo, avevano contemplato la terra appena smossa, gli occhi seri, le dita serrate, come un gelo che calava tra di loro.
Lui è di là, concentrato sui suoi esercizi, i libri sparsi sul tavolo.
“Ehi…”, gli fa cenno, sottovoce.
Socchiude gli occhi, stanchi. “Dimmi…”
“Fai piano… vieni di là…”
Si affacciano. Gli indica.
Gli sfugge un sorriso. Le stringe la mano.
La stringe forte, e le bacia i capelli, scuotendo, incredulo, felice, appagato, la testa.
Sulla scrivania, la tonda felina cerca la compagnia dell’orsetto tondo, e, piano, delicatamente, lo smusa.
Si appoggia stanca al tavolo. Slaccia il fodero e la fondina.
Asciuga il sudore.
“Come ti senti…” le viene incontro, premuroso, asciugando le mani in un telo, il coltello abbandonato sul tagliere.
Stanca, vorrebbe dire. Poi, un’occhiata al tavolo, un paio di libri, un volume coi caratteri in rilievo – e, di nuovo, una stretta al cuore –, gli ingredienti della cena da preparare. Sorride, abbandonandoglisi contro, mentre si domanda quanta stanchezza debba nascondere lui, ogni volta.
Deve chiedere il congedo, ormai. Si rabbuia. Non sa cosa l’aspetti. Non se l’è domandato, finora, come negando ciò che stava per accadere. E, invece, il tempo è passato, e il momento è arrivato ugualmente. Ma è talmente stanca, che è anche contenta di staccare, ora che è costretta. Tra poco non potrà più occultarlo. È magra, quando è vestita le camicie ampie nascondono ancora, ma non più abbastanza bene. Ma, quando si spoglia, si vede. E trema.
Dallo specchio, nota che la sta guardando. Seduto sul letto.
“Che ne dici se ne approfittiamo e ce ne andiamo per un po’ in giro? Magari Arras, magari in Normandia…”
Si illumina, lui. “Ottima idea!” Sembra tornato il ragazzo che conosceva, sempre entusiasta all’idea di un viaggio, curioso, amante della cucina e del vino.
“Se Rosalie ci segue la gatta”, ora è sopra di lui, “potremmo stare via un mesetto…” Gli slaccia la camicia. Lenta. Determinata.
“Ehi…” divertito.
Gli prende le mani e le guida su di sé. Intensa.
“Hai già fatto i tuoi programmi…” osserva, compiaciuto.
“In tutti i sensi”, gli risponde, in un bacio avido.
Pensa che quei programmi non gli dispiacciono.
Pensa che la adora.
“Guardami”, gli dice piano. E gli guida le mani a premere sul suo corpo. Addosso. Imperativa.
Dentro.
In fondo, riflette, prima dell’incidente lo facevano quasi sempre al buio. È solo ora, che sente di perderne l’immagine, che lui ha così bisogno di guardarla. Possederla… per ricordarla. Non è questo che le ha detto, tra le righe? Trattenere più immagini possibile…
Perché non può essere che questo, il senso di creare disegni, immagini, che non potrà più vedere. O, forse, del creare immagini comunque. Lasciare una traccia. Un ricordo. Un brivido di dolore dentro. Non è metterli su un foglio, è trattenerli dentro di sé. Ha ragione, quando sostiene che disegna per appropriarsi, conoscere, comprendere qualcosa. O qualcuno. Un viso. Occhi. Lei.
Vorrebbe proteggerlo. Aiutarlo. Fare qualunque cosa, purché non dovesse affrontare quello che lo aspetta. Può solo stringerlo più forte, contro di sé, e premere il viso contro la sua schiena.
Ha come una paura, dentro, che non l’abbandona. A volte si sveglia, la notte, per controllare che lui stia bene, e resta lì, a guardarlo, l’espressione spiazzante di bambino soddisfatto, il ritratto del ragazzo tranquillo. Le scalda il cuore. Le dà una tenerezza immensa, che le pare di non riuscire a contenere.
Ha lasciato tutto nelle mani del colonnello. Niente saluti plateali, a lui poche parole discrete. I ragazzi la vedranno tornare tra un po’. Niente da spiegare, per ora. Non ne ha voglia. Forse, dopo, sarà più facile venire a patti con la nuova situazione. Quando si sentirà di nuovo a posto con se stessa. Magra. In forma. Ma ora no.
A volte lo preoccupano certe sue uscite. Non sa come prenderle. A lui verrebbe da ridere, un po’ per sdrammatizzare, un po’ perché lei è buffa.
“Non puoi dire ad Alain di non venirci a trovare?” Ha esordito, un giorno, di punto in bianco.
“Ma se tra poco partiamo… e, poi, che ragione c’è?” non capisce. Le ha fatto qualcosa? Ha smesso di farle quella corte guascone ma innocua – spera lui –, e si è messo a fare lo scemo traditore – di lui, amico, s’intende? Un fiume di dubbi in uno sprazzo di istanti e pensieri. Macina ferocemente intuizioni di immagini: lei, luminosa, solare… forse le fa piacere un ammiratore? Si sente perso. “Ti ha fatto qualcosa?” e, improvvisamente, si trova ridicolo: un maschio che protegge il territorio, tra un po’ la farà negli angoli, come i gatti, per segnare il possesso. Ma non avevo sostenuto di non essere così?
“No.”
Silenzio. Nessuna spiegazione.
Dopo un buon quarto d’ora, ritenta. “Posso sapere il motivo?” Paziente.
Annaspa, lei. Elaborare una sensazione è diverso dall’esprimere il proprio disagio.
“Io mi…” gli dà le spalle.
La costringe a girarsi, cerca di intuirne l’espressione. “Cosa succede?”
Cede, di fronte all’espressione allarmata di lui. “Sto ingrassando… non voglio che mi veda così.” E si sente misera. Incompresa.
Le mani nei capelli. “Ossignore, è solo per questo!” Una comica espressione di sollievo. “Avevo pensato chissà cosa…”
“Solo? Come mi sento ti sembra solo?” si scandalizza, lei, eppure nota il lato surreale della vicenda.
“No, no…” si affretta a rispondere, “Ma non ti pare una pretesa un po’ eccessiva? E, poi, non sei ingrassata…” mente. Non dappertutto, si corregge mentalmente, ma si impone di tacere, e gli viene da ridere, ripromettendosi di dare una controllatina, stasera, ai progressi.
“Non è vero”, lo inchioda. “E, poi, a me non pensi?”
“Certo. Alain ti mette di buon umore. Ti fa compagnia. Tiene a te. È molto meno noioso di… altre persone”, e sa che lei ha colto l’allusione. “Non porta fiocchi né grembiuli. E soprattutto non piagnucola e non ti ammorba ogni attimo. Ti pare poco?”
Oscar si sente feroce. Vorrebbe rispondergli ‘è un bel ragazzo – hai visto che spalle? – ed è più giovane di te – e anche di me: non ti senti geloso?’ ma decide di soprassedere. Tanto, considera, lui non potrà mai capire come si senta, quanto si detesti.
“Cosa dovrei fare?” lo incalza. “Rinchiudermi in camera ogni volta che passa qui?” si infervora. “Nascondermi in casa mia?”
Le mani in tasca, soffoca a stento una risata: “Può essere un’idea… provaci, Oscar…”
Le strappa un sorriso. Ancora una volta in vantaggio.
“Guarda che non stai mica male…” Uno sguardo di inequivocabile apprezzamento. Il concetto è chiaro. “Anzi, oserei dire che sei raggiante” assesta il colpo. “Per non parlare delle…” e lì s’arresta. Mai oserebbe.
Lo fulmina, rossa in viso. Si gira, ostinata.
“Diglielo anche tu, André…” Insiste.
“Gliel’ho già detto…” annota, lui, “ma pare che io sia di parte…”
“Comandante, avanti… non vorrai mica stare tappata in casa tutto il tempo?”
“Voglio solo scomparire…” si lamenta, desolata.
Si addormenta, esausta. A volte non ha più forze.
Pensa giusto cinque minuti, e si ritrova sul letto dopo ore.
Sembra così triste, André.
“Aspetta… aspetta, per favore…” ansima.
Le è sopra. E sembra così triste.
Si solleva, in un brivido. Lo guarda. Gli si preme contro.
“Ti voglio… ancora.”
Poi, la tristezza negli occhi, le ha detto “Se non ti importa più niente… perché non lasci che ti venga dentro…” Come fosse un’ultima provocazione.
E aveva sentito le lacrime di lui, addosso, mentre, dopo l’amore, lo cullava in sé.
E, dopo, nell’alba livida, l’ha supplicata “Resta… come questa notte… per sempre…” e sembrava sfinito dalla tristezza.
Si è svegliata come avesse vissuto qualcosa di strano. Una sensazione terribile addosso. Di dolore. Tristezza. Si è portata le mani a proteggersi il grembo. Era gelata di paura. Era strano.[2]
È sempre più stanca, Oscar. Il viso smagrito. Ma si illumina, quando parlano del loro viaggio. Tra pochi giorni, partiranno.
Non sa spiegarsi perché, Oscar, ma il fatto che andranno via, dove quasi nessuno li conosce, la fa sentire diversa. Come libera. Sparirà, e basta. Nessuno la collegherà all’immagine nota di lei. Nessuno comparerà quello che era, e quello che è. Quello che sarà. Nessuno farà domande. Nessuno scorrerà su di lei sguardi curiosi e indagatori. Forse è una fuga. Per lei, è un voltare pagina.
Non c’è molto da fare. I bagagli sono pronti. Giusto, una spiegazione ai suoi. A suo padre, su tutto. Non che senta di doverglielo. Ma ne teme le reazioni, alla scoperta che la figlia non solo si è presa un lungo congedo, ma tornerà armata di pargolo… detesta giustificarsi, e in fondo è stato più semplice, ora che c’è già passata, dire ‘lascio le Guardie reali’ o ‘vado a vivere per conto mio’. Chissà, poi, se anche questo le sembrerà facile, alla distanza.
E alla nonna. Che tanto ha già capito tutto, e forse brontolerà un po’, se non l’ha già fatto, a quell’incosciente del nipotastro, minacciando di diseredarlo,[3] ma almeno lei sarà felice. Almeno una, in tutta la comitiva, che avrà un comportamento normale.
Su sua madre non sa proprio che pensare. A volte le sfugge. A volte l’ha sentita vicina. Ma, in fondo, è assente, nella sua vita. Quando ha rischiato di morire dissanguata, è rimasta al capezzale della principessa svenevole. Il tutto si può riassumere in questo. Tutto sommato, è il suo lavoro.
E, così, col respiro tagliato, un misto di emozione e paura, gesto dopo gesto, nelle ore dell’attesa, silenzi, sguardi rapidi, braccia che la serrano stretta, perché intuiscono la sua ansia e vorrebbero consolarla, ma non le basta, il momento è arrivato.
Sale i gradini sotto il sole cocente, e si sente gelare. André le cammina accanto, e non le sembra affatto rilassato.
Le mura spesse sembrano aver fermato il tempo e la calura. Lì, nello studio di suo padre, continua a sentirsi l’adolescente perennemente incapace che lui vede in lei.
Non è un’adulta. Non è la donna che comanda la Compagnia B, non è la donna che André Grandier ama al punto di aver dato la vista per lei.
È solo l’adolescente che sbaglia. Che delude il padrone. L’adolescente che non farà mai abbastanza, non rinuncerà mai abbastanza. Perché, per soddisfare il padre, avrebbe dovuto non nascere. Non esistere. Non competere, neppure involontariamente.
Non basta sottrarsi. Non basta vivere lontani. Per lui si dovrebbe solo scomparire. O annullarsi.
Eppure, è per soddisfare un suo capriccio che è nata. Lei, come le altre sorelle. È per soddisfare lui che vive così. L’atteggiamento del generale nei suoi confronti sa di paradosso totale.
Non ricorda più bene neppure le parole che ha usato.
Ricorda che aveva le mani gelate e che le pareva che tutta la sua determinazione vacillasse. Ricorda la propria voce, che sembrava spezzarsi.
Poi, ricorda una voce tuonare, sovrastarla. Lui che si era imbestialito. Non ricorda molto altro.
Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-novembre 2006, gennaio 2007, Pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2007.
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Continua...
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[1] Omaggio a Fiammetta, a quel suo dono di topini e cuscino. J
[2] 5-8-06.
[3] Lettura reiterata dei Topolino anni ’70, secondo me i più belli.