Alternate BK's Night

 Parte VII

Warning!!!

 

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

È meraviglioso svegliarsi accanto a lui.

Non c’è mattina in cui non sia luminoso, in cui sia nervoso. Sempre, nonostante tutto.

Adora osservare la sua espressione rilassata, pacifica. E vederlo rollare nelle coperte fino al suo posto, poi, abbrancare il cuscino, soddisfatto.

Lui ha un carattere straordinario.

Lui…

Lei… lei è diverso.[1]

 

Non le piacciono i bambini. Prova disagio di fronte a loro. E non li capisce. E quando va a trovare sua maestà si sente a suo agio solo con Joseph, forse perché è un adulto pensoso in un corpo deforme già segnato dal tempo. Ingobbito, fatica a camminare, lo sguardo adorante del cane col padrone, quando la guarda. Sono tutti e due strani fenomeni della natura, e si sentono vicini.[2]

Ma gli altri due, moine, giochi, capricci, discorsi strani. Sempre a voler stare al centro dell’attenzione. A prenderti il tempo. Viziati. Immusoniti. Ignoranti. Non è proprio da lei. E si domanda come diavolo farà, con un figlio suo.

L’ha portato a fare una passeggiata fuori. Oggi l’aria è calda e si sta bene. Sono seduti sotto un albero, all’ombra.

“Mi sposerete, quando sarò grande?” implorante, la scruta da sotto in su.

Una carezza. Un sorriso triste. E una dolcezza pensosa, che le vela lo sguardo, quando parla del suo amore. “Sono già sposata, mi dispiace…” Registrare l’imbarazzo nel dire sposata.

Piccole mani che si stringono. Un piccolo dolore. “Ah…”

“E poi sono troppo vecchia per voi, altezza…” scherza.

Distoglie lo sguardo. “Posso giocare con la vostra spada?” Intreccia le dita. Tormenta il velluto pastello dell’abito.

La slaccia dal fianco. Gliela sorregge, perché pesa. Mentre lui cerca di sciogliere il cordone e prova a farla scorrere dal fodero.

“Chi è vostro marito…” Lui non sembra in imbarazzo nel nominare il ruolo del rivale.

“André, lo ricordate?”

Annuisce. Lo spaventa quell’uomo con un occhio solo.

“Quando vi siete sposata?”

Uno sguardo lontano… quasi non lo ricorda. “Tanto tempo fa…”

Poi, all’improvviso, le indica il ventre: “Avete un bambino… dentro…”

Ossignore, pure questa, si dice… e adesso?

Come ha fatto, che diavolo di intuito ha, questo ragazzino? Quanto, quanto si nota? Si dispera. L’avranno capito, allora… O ha fatto due più due e ha associato matrimonio, magari risalente, a figli, perché così è normale – anche se resta da domandarsi cosa e perché sia normale?

“Voi che dite, altezza?” cerca di aggirare.

“Sì…”

“E perché?” Quasi si sente male.

Guarda in basso, intimidito. Gioca con la fascia. “Prima eravate diversa…”

“Diversa…” Si stupisce. “Come?”

“Più magra… un po’ qui”. Indica. “E qui.” Timido ma inequivocabile.

Sorpresa, si osserva. Sì, un po’ si nota. Ma solo a saperlo. A guardare, indagatori. Sono tremendi, i bambini, si dice. Ti inchiodano senza scampo.

“Sì”, ammette, allora, prendendoselo in braccio. “Ma è un segreto. Promettetemi che non lo direte a nessuno…”

Annuisce. Una grossa responsabilità, per un piccolo principe deforme.

 

 

“Perché mangi così poco?” Gli indica il piatto.

“Sto mangiando esattamente la tua porzione.” Osserva lui. Sono giorni che controlla come si alimenta, da quando ha avuto la prima impressione e pensava fosse la vista ad ingannarlo. Ogni sera, aumentavano gli avanzi e le porzioni aggiuntive per la convivente felina. Lo sa, perché è lui ad occuparsene.

“Scusa?”

“Confronta…”

“E che senso ha? Hai sempre mangiato più di me”, gli fa notare.

“Lo domando a te… che senso ha mangiare meno di prima?”

Esita. Prima non… Si sente misera.

“Allora…”

“Non voglio ingrassare…”, confessa. A voce bassa. Vergognandosi come una ladra.

La guarda sbalordito. “Ma è inevitabile…”

Come spiegarglielo… “Lo so… ma non oltre quell’inevitabile…” Precisa. E si domanda quanto sia l’orrendo inevitabile.

“Ma è assurdo.” L’espressione preoccupata. Zitto, Grandier, si raccomanda. Non dire fa male al bambino, che è il modo migliore per deprimerla ulteriormente. Lo so che lo pensi ma sorvola.

“No, non lo è.”

Poi, prova a spiegare. “Ho fame, tendo a mangiare di più, e tra poco si noterà tutto.” È in imbarazzo. Con lui, a parlarne. E lo odia per averlo notato. Con se stessa, ad ammetterlo. Col proprio corpo. “E non voglio. E mi sento già orrenda così. E a disagio. Non voglio, non me la sento. Mi fa star male…” Ho una paura fottuta…

“Stai tranquilla… sei sempre stata magra, non hai tendenza ad ingrassare…”

Sente la disperazione nel suo sguardo. È qualcosa che lo avvolge, gli circonda l’anima di tristezza. Eppure, a tratti, quegli occhi puntati su di lui, quegli occhi che lo inchiodano, e gli domandano aiuto, riesce solo ad intuirli. Come si sente il dolore.

Povero amore… se davvero potessi aiutarti… fare qualcosa per te… “Oscar”, tenta, paziente, “nessuno dice che tu debba ingrassare…” Come si fa a trovare le parole giuste, si domanda. “Solo, non puoi farti mancare il nutrimento… è normale che mangi un po’ di più.” È normale prendere peso, vorrebbe dire. Ma si astiene. Prudentemente. “Giusto un pochino”, azzarda. “Guarda che sei dimagrita…” le fa notare, invece.

“Sì, il dottore me l’ha detto”, ammette. “Ma è solo per i primi mesi”, aggiunge, sconsolata, “poi non sarà più così…” sembra spaventata. “Senti i fianchi… come farò a portare l’uniforme?”

Le va vicino. Un gesto affettuoso, le percorre i riccioli. La stringe un po’ a sé. Un bacio tra i capelli.

Un cenno alle spade, abbandonate in un angolo. “Stai già facendo un allenamento superiore a quello che facevi prima… non pensi che sia sufficiente?” Si esercita con lui. Poi, quando lui pensa sia troppo e con varie scuse si sottrae, tocca ad Alain. Che, ovviamente, sa tutto e, quindi, anche lui, ad un certo punto, si rifiuta di proseguire ancora. E, allora, tocca agli altri. È diventato il terrore della Compagnia B essere costretti alle estenuanti e inspiegabili sedute di allenamento col comandante.

“Ora basta!” Esplode. “Vorrei vedere te, al mio posto! Che cosa faresti?” Un fiume in piena. “Cambia tutto, e tu non lo vuoi. Non sai come affrontarlo!!! Dimmi, che cosa dovrei fare?” Gli dà le spalle, esasperata. “Ti pare semplice? Hai pensato a come ti sentiresti?!”

“Incinto?” Azzarda.

“Sì, sdrammatizza, come al solito! Cerca di convincermi che sto sbagliando tutto…” Tanto, è per questo che mio padre ti ha messo vicino a me… se solo sapesse che evoluzioni ha avuto la sua brillante pensata… una donna incapace, affiancata da un uomo ponderato… che gran fiducia doveva avere in me: non è bastato essere sempre la migliore, uscire coi risultati più alti dall’Accademia, per dargli un briciolo di fiducia in me. Mi ha affiancato una coscienza meno isterica di me…

E non può neanche ammettere che con lui modera i colpi e quindi non si allena abbastanza, perché teme che non riesca a difendersi più bene. Anche tu, vorrebbe dirgli, sei un testardo cocciuto! Ma io ti lascio fare le tue pazzie… Rabbia. Pena. Non sa più neanche cosa prevalga.

“Oscar, mi dispiace…” cerca le parole. “Passerà…”

“Certo… sì… È facile per te… tu pensi solo al bambino, e non ti rendi neanche conto di cosa provo io!” Lo accusa.

“No, non è vero.” Mortificato.

“Vai al diavolo!” Lo scansa. Eppure, subito si pente.

“Oscar, ascolta…” Cerca di prenderle le mani. Lei si divincola. “È vero, io lo voglio un figlio… anzi, è diverso: io ho avuto meno difficoltà ad accettare l’idea di averlo – e sai che è così. D’altronde è comprensibile: per te cambia tutto, a livello fisico, per me meno. Tu ti trovi ad affrontare questa situazione in prima persona, io posso solo starti vicino. Ma, al di là di ogni considerazione, tu vieni prima.” Una pausa. “E, comunque”, lo sguardo improvvisamente più serio, “credo di capire cosa provi. Come ti senti.” Lo sguardo lontano. “E qualunque decisione tu prenda, io sarò con te. Affronteremo ogni cosa, qualsiasi essa sia”, sottolinea, “insieme. Che tu lo voglia o no.”

Piange, ora. “Io non ce la faccio…” una mano tra i capelli, si copre il viso. “Ho paura…” Si rannicchia per terra. “Ho paura…”

“Amore…” Le si fa accanto, inginocchiato lì, vicino al tavolo. Non sa nemmeno se osare una carezza. È così scossa.

Un tocco, lieve, timido, sulla spalla. “Lasciami stare!” Si ritrae.

“Ascolta”, tenta lui, paziente. “Andiamo dal dottore. Lui ci dirà come fare…”

E, solo allora, davanti a quel plurale, una richiesta di partecipazione, un’offerta di aiuto, trova il coraggio di confessare quello che le brucia.

“Joseph se ne è accorto…”

Sulle prime, lui neanche capisce. La guarda, cerca di seguirne i pensieri. “Ma… Che cosa…”

E lei crolla, si nasconde in lui. “Il principe ha capito che io… io…”

La abbraccia. Come per proteggerla. Da tutto. Da se stessa. “Dio, André, io non ce la faccio…” singhiozza. “Che cosa devo fare… aiutami…”

 

La solleva. Come non avesse peso.

La porta di là. Nella loro camera.

In silenzio, cerca tra i fogli. L’espressione indecifrabile.

Non vede bene. Con gesti incerti accende qualche altra candela.

 

Si siede accanto a lei.

Le porge i disegni. “Guarda.”

E lei resta lì, che il respiro sembra fermarsi. Ammutolita.

A reggerli, piano, sui bordi, per non rovinarli. A trovarli meravigliosi.

“Sono bellissimi…” ammette, dopo un tempo infinito.

Le si mette dietro. Vicino. Lei sente il suo respiro. “Oscar. Questa sei tu.”

E la sente irrigidirsi. Serrare le dita sui fogli. Poi, come rifiutarli, quando li allontana da sé.

“No”, glieli rimette in mano. “Guarda.”

Guardati… implacabile. Lì, accanto a lei.

Li sfoglia per lei, ora. Uno dopo l’altro. Indicandole, in ognuno, mille particolari. Sfumature.

Raccontandole di lei. Di loro. Di quanto la ami. Di come la trovi meravigliosa. In ogni particolare. Di come adori tutto, di lei.

La costringe ad ascoltarlo raccontare come si commuova, di fronte ai piccoli cambiamenti.

Di come gli sembri un miracolo. Che sia proprio lei, la sua compagna. Che sia così bella. Che facciano questa cosa, insieme.

E lui ricorda ogni cosa che è cambiata, in lei. Com’era il mese scorso. La settimana precedente.

E che pensa a come sarà, loro figlio, ma in fondo non gli importa, e spera solo che stia bene, che abbia la vista, e che sia sereno.

È sorpresa. Triste. Intenerita.

Scorrono, le lacrime, le bagnano il seno.

Perché, perché per lei è sempre tutto così complicato?

 

E ora sta lì, che l’ha trascinata, riluttante, davanti allo specchio. E la costringe a guardarsi, a vedersi con gli occhi di lui, che la ama. Mentre lei pensa che è un disgraziato, che sa benissimo di non vedere un accidenti di niente e di essere armato solo del suo straordinario potere di convinzione su di lei, eppure… mani, respiro. Voce. Il tocco dei capelli che le sfiorano la spalla. Il suo appartenere a lei, ammesso scopertamente. La sua onestà nei sentimenti. Questo, la vince, di lui. Sopra ogni cosa.

“Sei così bella…”

E lei azzarda una timida occhiata, e subito sfugge lo sguardo. Che imbarazzo terribile… Vorrebbe sprofondare.

La costringe di nuovo a guardare.

“Non ti vedi…” le scopre il seno. Che lui adora. Che, teso, gli pare ancora più bello.

E lei vede quelle mani, bellissime, su qualcosa che sente estraneo. Non appartenerle. Eppure, le dita premono sulla sua pelle. E sente l’eccitazione quando lui la serra.

Gli si appoggia contro. Gira la testa. “Ti prego, no…”

Le asciuga le lacrime.

“No…” le sfiora il ventre in una carezza. Un brivido la brucia. Trema. “Guarda…” E lei proverebbe disagio, se non ascoltasse la sua voce. “è bellissimo. Perché non vuoi vederlo?”

“Sei bellissima, sei davvero bellissima”, le sussurra, nell’orecchio. “Hai solo paura. Solo paura, amore.”

 

“Vedi, sono cose che non ti spieghi. Non sono razionali”, le confessa, ora, piano. Seduto lì, per terra, sul parquet, accanto a lei. Le pare di essere tornati ragazzi, i loro lunghi discorsi, lui che la guardava con gli occhi seri di un adulto, lo sguardo che le entrava dentro, nell’anima, perché lei riusciva ad occultarsi a tutti. Ma non a lui.

“Anche io ho una paura fottuta”, le sorride.

Oddio, si dice, se ha paura lui, io sono finita…

“Perché non so cosa mi aspetta. Cosa ci aspetta.” Stringe un po’ di più la mano che le tiene. Le dita intrecciate alle sue.

Se la porta alle labbra.

Morbide. In bacio lieve. Intimo.

“Se sarò in grado di crescerlo. Quanti errori farò. Se starà bene. E ho paura di causarti del male… dolore…” Parla lentamente. Cercando le parole. “Però, è una cosa ancestrale, non so neanche spiegartelo.” Sono istanti rari. “è qualcosa non ho voluto e non ho cercato. È capitata. Ma, ora, mi rendo conto che la desidero con te... farla, condividerla con te...”, cerca di spiegare. Ma non le dice delle molte morti per parto, dell’alta mortalità infantile. Sono paure sue, quelle, altre ragioni per cui aveva tentato di evitarlo. Resta così, in silenzio, pensoso. A scacciare quei fantasmi. A sperare che non succeda proprio a loro due.

Lei è colpita. Forse cova le stesse paure, e anche lei tace. Ma è colpita. Non l’ha mai sentito parlare così.

E sente di non avere più scampo.

 

Dal dottore. Maledetto, è riuscito a trascinarla lì. Recalcitrante.[3] Imbufalita. Bellicosa, che giura vendette infinite, ma vorrebbe solo un po’ di pace, il letto incavato nell’ulivo, il silenzio della pietrosa Itaca. Mentre sfiora visioni di tele pallide e ambienti luminosi, e la fantasia già corre.

“Scusate…” è la voce del dottore a richiamarla indietro.

“Ecco qui, è tutto su questa lista. Mi raccomando, seguitela.”

Traditore, traditore il medico, che consegna ad André una lista di indicazioni scritta stranamente bene, per la calligrafia usuale, su come farla alimentare. Con ampie istruzioni a voce, nota Oscar.

 

E la vendetta. Mentre l’idilliaca visione di tele candide, mosse dalla brezza, di ulivi secolari, piegati dal vento, si spegne improvvisamente.

“Dottore”, la voce netta, mentre si riveste. “Avete sentito parlare dell’istituto di Haüy, a Parigi?”

André cambia espressione. E lei, che voleva capire fino a che punto arrivasse e lo scrutava apposta, capisce. Anche lui si era informato.

 

“Perché non me l’hai detto…” lo sente quasi come un tradimento. Come se lei volesse allontanarlo. E non nega più niente.

“Ci sono stata… non è bello…”

“…”

“Avevo deciso di non dirti niente…”

“Poi, oggi, hai deciso di vendicarti”, chiosa lui.

“No…” gli fa, seria. “No.”

Stringe gli occhi, cerca di intuirne l’espressione.

“Ma può essere utile”, gli carezza una mano. “Molte cose le sai già, le fai istintivamente. Alcune potrebbero insegnartele. Ma possono servirti… è per questo…” riprende, “perché tu non abbia bisogno di appoggiarti agli altri…” Forse è un sogno, riflette... “Potremmo accordarci per un insegnante, non è lontano da qui, non dovresti neppure stare via…” lo tiene abbracciato. È suo. E non vuole lasciarlo andare.

“Ma è il caso? La retta costa, e un insegnante privato anche.” Riemerge dal silenzio, dopo aver ponderato.

“Io… preferirei tu lo facessi. Per la tua autonomia.”

Lei, a soppesare le parole per non ferirlo. Per motivarlo. Lui a fare i conti coi propri pensieri. Con le speranze. Le delusioni. Il futuro.

“Va bene… se lo vuoi… lo farò.”

 

E così, due volte la settimana, André, con licenza speciale – e tassativa – del comandante, sale su una carrozza, e affronta il futuro. È come un’attesa, il viaggio. A ripensare a quello che ha imparato e ricatalogare le informazioni. A domandarsi cosa gli toccherà, stavolta, per amore di lei. Sorride. Lo sa che invece è un gesto d’amore di lei per lui. Sa quanto le costa. Sa che non potrebbe permetterselo – aveva già rinunciato, quando si era informato sui prezzi. Sa che è meglio così. Anche se non è facile. È il più vecchio, lì dentro, e si sente a disagio. Ma non gli importa. Tira avanti. Anche se i gruppetti di ragazzini lo prendono in giro, e lui si sente Erode, e pure in colpa! Anche se le poche ragazze lo perseguitano, a dichiarargli quanto adorano la sua voce. E lui a spiegare che è un quasi padre di famiglia, a schermirsi. E loro insistono, divertite dal suo imbarazzo. Anzi, sollecitate dal gusto del proibito, dall’idea di mirare alla preda di un’altra. Hanno proposto di fare il club – vanno parecchio di moda, in Francia –, della voce di André Grandier.[4] Gli hanno pure regalato un completino per il nuovo arrivo, e lui non sapeva neppure come recapitarlo in casa, a lei. La sua Erinni gelosa. “Cosa sarebbe?” Ha indagato. “Queste ti stanno attorno tutto il giorno… guarda che non ti ci mando più!!!” Che, però, s’è impossessata del primo dono per il loro bambino, e ora lo tiene sotto chiave. A volte è entusiasta, a volte i risultati non arrivano. E sente di girare a vuoto, come se quegli esercizi non servissero a niente. Ma lo fa. E, la sera, quando arriva a casa, è come avesse dato un senso a quelle giornate. E, forse, al loro futuro.

Se restasse così, con quei pochi gradi di vista, si riterrebbe fortunato. Adesso, sia pure con lentezza, ancora riesce a leggere. Se c’è molta luce, se non ci sono ostacoli a fare ombra, riesce a distinguere gli oggetti. E anche lei. Si attacca a questa speranza, ma non smette le lezioni. Quello che sarà, lui non vuole deluderla.

 

Ora è lei, riflette nella notte, ad essere più propositiva, tra loro. Mentre lo sente sistemarsi meglio, sornione e appagato, contro di lei e si dice che sono queste piccole cose a farla felice. Aggiunte alla cosa straordinaria, che è avere lui accanto. Condurre il gioco non è esatto, annota. Quello che all’inizio era stato lui, l’iniziativa, ora sembra passato nelle sue mani. E lui lascia che lei agisca. Faccia. Progetti. Sono fasi, probabilmente, negli equilibri di una coppia. Eppure, non saprebbe fare a meno della forza che ricava da lui. È come se i loro ruoli si fossero rovesciati, ma solo in parte.[5]

Un pensiero e un ringraziamento alle mie proof-reader.

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-novembre 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del dicembre 2006.

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Appunto sms 22 novembre 2006.

[2] Citazione da Notre Dame de Paris di Cocciante, versione italiana di Panella. Ricordo l’intervista in cui Giò di Tonno spiegava come Panella gli aveva consigliato di ispirarsi allo sguardo di devozione di un cane verso il padrone.

[3] Il tema del povero dottore con la nostra recalcitrante è legato a Luana.

[4] Piccolo omaggio da parte mia ad un doppiatore straordinario. ^_-;

[5] Recuperato da appunto sul cell del 14-3-06.