Alternate BK's Night

 Parte V

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

Copyright:
The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k. All Rights Reserved Worldwide.
The Copyright to the fanfics, fanarts, essays, pictures and all original works belongs, in its entirety to each respective ff-fa author, as identified in each individual work. All Rights Reserved Worldwide.


Policy:
Any and all authors on this website have agreed to post their files on Little Corner and have granted their permission to the webmaster to edit such works as required by Little Corner's rules and policies. The author's express permission is in each case requested for use of any content, situations, characters, quotes, entire works/stories and files belonging to such author. We do not use files downloaded or copied from another website, as we respect the work and intellectual property of other webmasters and authors. Before using ANY of the content on this website, we require in all cases that you request prior written permission from us. If and when we have granted permission, you may add a link to our homepage or any other page as requested.
Additionally, solely upon prior written permission from us, you are also required to add a link to our disclaimers and another link to our email address.

The rules of copyright also apply and are enforced for the use of printed material containing works belonging to our authors, such as fanfics, fanarts, doujinshi or fanart calendars.

 

Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

Sono chiassosi e allegri, i soldati. Non partecipa mai a queste riunioni, ma stavolta hanno insistito, festeggiamenti in corso, le hanno accennato, lasciandola perplessa e curiosa. Fino ad un certo punto: in fondo basta che non si parli di lei, di loro.

“Hai idea di cosa si festeggi?” Ha buttato là ad André, che, però, è bravo a svicolare, a distrarla, e se la ride, dopo averla lasciata rossa in volto, senza fiato e parecchio spettinata. Con discrezione, s’intende.

E così l’allegra tavolata si perde fra ricordi, brindisi, risate.

Poi, partono gli annunci, vari, fantasiosi, deve ammettere, buffi, insospettabilmente teneri. Fidanzate, nozze, compleanni di pargoli, pargoli, ancora pargoli, decisamente troppi, in tutte le salse, congedi… Non conosce questo lato dei suoi ragazzi. Evita di invadere il campo personale, non le pare giusto. E, invece, eccoli lì, allegri, pronti ad applaudire fragorosamente quando si annuncia l’ennesima futura paternità.

Si guarda attorno imbarazzata, lei, mentre tenta di scomparire, e solleva il boccale, in un brindisi poco credibile, mentre, con la coda dell’occhio, tiene sotto controllo André, che non parli, che taccia, non osi cambiare espressione o tentare allusioni o povero lui!

“Sarà sicuramente un maschio”, sentenzia orgoglioso il malcapitato commilitone, senza immaginare l’occhiataccia che il comandante gli riserva: “Non sarai un pochino retrogrado?” Lo fulmina.

“Ah, Grandier, il tuo comandante ha le idee chiare!”, lo inchioda Alain, assestandogli una robusta pacca, come solo un amico sa infliggere, con la giusta dose di potenza e calore – maledetto! Pensa André –, tra le scapole.

“Molto”, chiosa lui, serafico, massaggiandosi una spalla. “Ahi…”

“Anche troppo”, chiude lei, girandosi verso André, minacciosa.

Le si avvicina di spalle, il ribaldo. Si china accanto al suo viso. “Peccato, comandante…” e se ne va, brindando. “A te, mia cara, adorata, unica…” e, mentre sventola il berretto, “… e al…”

“Silenzio, Soisson!” Intima, zittendolo.

Si volta verso André, che se la ride con i compagni – l’imbarazzante sequenza cara adorata unica deve essergli provvidenzialmente sfuggita –. Trucida, imperscrutabile, lo studia. Invidia la sua tranquillità. Lei non riesce a prendere tutto così con calma. Intercetta il lampo di uno sguardo. Un attimo solo, qualcosa che gli brilla, remoto, in fondo agli occhi. Un guizzo. Come se riuscisse a comunicarle che vorrebbe festeggiare anche lui, e non sentirsi sempre diverso, sempre nascondersi. Che lui vorrebbe poter dire, magari rosso d’imbarazzo “Ragazzi, anche noi…”, eppure tace, e sostiene il suo sguardo. Poi, improvvisamente serio, lo distoglie. Si congeda. Esce dal locale.

 

L’ha raggiunto fuori.

Eccolo là, appoggiato alla spalletta del ponte.[1] Bello e malinconico, si dice, pure questa mi tocca… arghh, troppo bello: come fai a resistere ad uno così… e si avvia verso Canossa.

Una mano, leggera, sulla spalla. Vecchia consuetudine, vecchie sbronze di coppia, vecchie canzoni cantate assieme – solo che, quando lo faceva, non si rendeva conto di quanto fosse bello lui, lo dava per scontato, come troppe altre cose –. Lui neanche ha bisogno di voltarsi. Un sorriso gli stira le labbra. Il cuore vola. Se non riconoscesse il passo, riconoscerebbe il tocco. Un lieve cenno della testa.

“Allora, cos’hai…”

Nessuna risposta. Giusto un cenno della fronte. Aspira l’aria della sera e scruta lontano.

Si piazza accanto a lui, di spalle al ponte. Un po’ sul triste, un po’ sul malinconico, un po’ sul propositivo decisa a non mollare. “Non mi dire che non sei contento”, lo provoca.

Un sorriso gli scalda lo sguardo mentre china la testa di lato ad osservarla meglio. “Sei bella…”

“Non cambiare discorso…” attacca. “Normalmente farebbe comodo a me lo cambiassi, ma direi che in questo momento sei assolutamente inchiodato alle tue responsabilità. O no?” Quasi deve tirare il fiato, dopo il discorsetto.

“Responsabilità in incognito…” si prende gioco lui.

“La sostanza non cambia…”

“Pensa, quando nascerà ti chiederanno chi è il padre…”, la canzona, divertito.

“O la madre…” fa notare, lei. Poi, aggiunge, “Beh, nel mio caso, credo proprio che l’indiziato sia per tutti, unanimemente, uno solo…” Lo spinge indietro. “Avanti, fila a festeggiare, babbo…” e si sente morire d’imbarazzo, nel rendersi conto che le è sfuggita, imprevista, la fatidica parola.

Anche lui, a quanto pare. Incassa, sorpreso, un sorriso ebete da un orecchio all’altro, l’aria tra lo stupefatto ed il trasognato.

“Vai…” Resta a guardarlo fare qualche passo in direzione della locanda, poi, un cenno, lo richiama, gli punta il dito contro: “E non dirglielo!”

 

“Cos’è che ti fa così tanto paura?”

Gliel’ha domandato mentre rientrano a casa, insieme. Una delle rare volte.

Un’occhiata fugace. Non ha voglia di rispondere. Non sa neppure bene cosa. Però nota che non molla la presa del braccio, saldamente ancorato a circondarle le spalle. “Tu con che idea sei cresciuto?” La voce piana, che tradisce l’emozione. “Che ti saresti sposato? Avresti avuto una famiglia…”

Ha uno scarto, lui, colpito. “No… no…”, mentre il passo perde il sincronismo da coppia collaudata.

“Non erano neppure nei miei piani…” la voce distante, a sferzarlo. “Io non ci ho mai pensato…” Ha un sorriso triste. “Non mi sarei neppure dovuta permettere di innamorarmi, immagino.”

Lui serra le labbra in una piega triste. Il braccio ricade, lo percepisce rimanere indietro. Quasi una metafora.

Si rende conto di averlo ferito. “No, non è quello…” Il tono serio. “Ringrazio ogni momento per il fatto che tu ci sia” e lui avverte il calore e l’affetto. Ma anche il disagio. E non osa parlare. Per non interrompere quei pensieri. “Chissà cosa pensava mio padre… una vergine guerriera… ma che razza di idiozia! Una specie di vestale, non lo so… non lo so cosa pretendesse da me… forse che rinunciassi a tutto…”[2]

“E non è giusto…”

“No… però… però… ecco… io non ci avevo mai pensato… e in qualche modo, anche stando con te, ho sempre accantonato l’idea… c’erano mille ragioni, sempre…” Poi, si volta verso di lui. “Per te non è stato così, vero?” Lo inchioda.

“Io sono cresciuto con te…” come se potesse spiegare ogni cosa.

“E allora?” Lo provoca. Che lo dica chiaramente.

“Non ti è venuto il dubbio che le idee che ci inculcavano fossero in qualche modo analoghe?” La sorprende. “In fondo”, ammette, in una piega di amarezza, “dovevamo servire allo stesso gioco… anche se per me non sei mai stata un gioco”, precisa.

Si ferma, sorpresa. Non l’aveva considerata da questo punto di vista. Quindi, la follia che ha governato la sua vita, ha coinvolto anche lui. Anche a lui non hanno mai lasciato immaginare un’esistenza diversa, in fondo. Lui era quello da sacrificare, come lei. Lei al padre, lui, a lei.

“Comunque”, riprende lui, “per risponderti: no, non ci ho mai pensato. Al di là di quello che speravano per noi, mi sono innamorato di te e quindi non mi sono posto questioni che ritenevo estranee alla problematica…” se la ride, cercando di sdrammatizzare.

“Ah”, coglie lo spunto, lei, “quindi non ti vedevi circondato da una nidiata di pargoli ululanti…” e gli batte una pacca sulla spalla, grata per la sua capacità di rendere meno pesanti le cose.

“No di certo… nego ogni addebito.”

“E, però, hai fatto centro lo stesso!” Lo squadra, tra il divertito e il rancoroso. In effetti, non sa decidersi tra i due stati d’animo. E in fondo è curiosa di indagare su come si sente lui.

“Oddio, non farmi passare come un inseminatore folle…” si domanda per quante volte ancora glielo rinfaccerà.[3]

“E quell’aria vagamente orgogliosa, come la spieghi?” Nell’angolo.

“Mica è per aver fatto centro…” si difende, vanamente, lui.

“Ah, no?”

“No. E guarda che anche tu, in mezzo a quell’aria disperata, ogni tanto tiri fuori un’espressione quasi…” e si prepara a lanciare il sasso. Il macigno – più corretto –. ”… come dire… materna.”

“Che cosa????!” Scandalizzata. Mai affronto fu peggiore.

“Anzi, mi correggo: orgogliosamente materna…” la prende in giro. “Sai che i soldati dicono che sei materna?”

“Ma come ti permetti, cretino, essere assolutamente idiota, decerebrato…”

“Nonché padre dei tuoi figli…” chiosa lui, aereo. Lieve come solo un cazzotto sa essere. “Comunque, sono loro che si permettono… io mai oserei…”

“Mavaff…” poi, il peso della realtà le crolla addosso. “Figli? Hai usato il plurale?” Annientandola.

“E certo: mica vorrai lasciare un povero infante senza fratellini – o sorelline – absit iniuria verbis…”

“Certo che sì! Non sono mica una vacca fattrice! Che ti viene in mente?”

“E non pretenderai mica che vada a produrli… come dire… altrove… povero cocco, già me lo vedo…”

“Senti, idiota abissale…”

“Ma bellissimo”, la corregge prontamente lui, vecchia e collaudata tattica di distrazione della bellicosa compagna.

Alza le mani “Ovvio… ora te lo spiego io cosa, chi e come. E vedi, mi ripeterò, di tenere l’arnese a posto. Non in sciopero, sia chiaro, ma a posto!”

“Uh, che bella idea m’hai dato!!! Eh, lo sapevo: mia moglie è un genio!”

“Oddio, oddio, oddio, oddio, oddio… ma perché mi sono messa con un uomo intelligente invece che con l’idiota imbellettato[4] o lo stallone nordico?” si domanda Oscar, chiedendosi se la stia prendendo in giro o quel matto abbia intenzioni serie.

 

Poi, inaspettatamente, lui torna serio. Le prende la mano. “Guarda che non sono un troglodita di quel tipo…”

Sopracciglio inarcato, espressione scettica. “Ah, no? Niente maschio inseminatore folle?” Eppure, si sente vagamente tranquillizzata.

Resta a guardarla. Non ci sarebbe neanche da risponderle.

Ma la conosce. Tanto vale rassicurarla. “Come pensi mi sia sentito, quando l’ho saputo…” Le bacia le dita, piano. La voce profonda. “Non credi che avrei voluto evitarti ogni tipo di problema?”

“…” è sorpresa. Imbarazzata.

“Non pensi che mi renda conto di quanto tutto sia più complicato, in questa situazione?”

Scuote la testa. Preferirebbe tacesse.

Invece no.

“Tu noi potresti permettertelo. Hai ragione. Sei un soldato. Ed è un primo, ottimo, motivo.” La voce sferzante.

Intuisce. Ti prego, non dire altro…

Implacabile. “E neppure io. Sto diventando cieco.” Una leggera increspatura nella voce a tradire giusto un attimo di emozione. “E questo è il secondo motivo, altrettanto ottimo.”

Poi, alza le spalle. “Non era previsto. Non era nei loro piani. E, in fondo, neppure nei nostri. Sarebbe comunque una responsabilità enorme anche in condizioni, diciamo così, normali. Anche se io fossi stato bene.”

Non s’aspettava quella durezza, Oscar. Quel realismo, quel cinismo, che, di solito, è lei a sfoderare. L’ha visto cambiare di registro troppo in fretta, per non rendersi conto che anche in lui si agitano mille sentimenti, radicati, nuovi, contrastanti. Che lui sembra vivere e porsi nella dimensione di entrambi.

“Va bene, d’accordo…” gli fa, mentre apre la porta di casa, e lui resta lì, la conosce troppo bene, a conteggiare fra quanto arriverà il risultato sperato. Quanto ci metterà la ragazza a metabolizzare. “In fondo, tra tutti e due, non saremo due frane complete, no…” Sa che arrivare a casa le fa bene.

 

Ritrovare la casa, la calma ovattata, ha il potere di calmarla.

Lunghi istanti silenziosi, interrotti solo dalle fusa della gatta, che chiede coccole e non ammette deroghe, e dai loro dialoghi felini. I suoi occhioni fiduciosi che scrutano la dispensa, mentre attende paziente, come davanti ad un tempio, che gli sportelli vengano aperti. La coda che lenta vibra in tante esse e il naso, che Oscar definisce organo di puntamento, diretto, verso di lei, la forza leggera di quella carezza contro le gambe. Un piccolo ariete da sfondamento.

Si sta bene lì. A parte quella situazione.

Si sta bene a scambiarsi un libro sul divano. Potersi rilassare senza il rischio di essere visti, scoperti.

André si sente a proprio agio, si muove con sicurezza sempre maggiore, in casa, e questo è un traguardo importante.

Lo osserva stupita quando, lentamente ma con gesti sempre più precisi, sistema i bicchieri in tavola e versa senza errori acqua o vino anche quando l’illuminazione è scarsa.

“Come…”

Un’espressione divertita, all’idea di averla sorpresa, e orgogliosa. “L’odore. Poi, spesso usiamo recipienti con forme diverse…” Delinea, piano, con le dita, una delle brocche.

“Ma non sempre…” obietta.

“No… infatti, se fai caso, i liquidi fanno un rumore diverso, quando vengono versati… l’acqua, il vino… sono suoni differenti…”

Si scopre a guardarlo, piena di ammirazione e tristezza. A considerare a quante cose non ha mai pensato, fatto caso. Sente solo che desidera manifestargli amore, presenza, rispetto, e lo cerca, quasi gli vola tra le braccia. “Sei straordinario… sei davvero straordinario…” e poi annullarsi in lui, perché la commozione preme.

“Ehi…” le sorride, sorpreso, “non è così strano… basta fare attenzione…” Le carezza i capelli.

No, non è scontato…

 

Si china a baciarlo, colma d’affetto, mentre lo sorprende, abbandonato al sonno.

Si sposta una ciocca di capelli, per non svegliarlo col solletico.

Pensa che è così bello, anche quando dorme. Che adora le sue espressioni. La pace. La quiete. La gioia. La serietà. La serenità che sanno trasmettere di lui.

 

È bello dormire insieme senza timori. Nessuno che possa sorprenderli entrando, provare finalmente la sensazione della libertà, dell’abbandono completo. Rilassarsi contro la schiena di lui. Abbracciarlo. Sentirlo accomodarsi contro di lei, come se facesse le fusa.

Si stupisce, quando, di notte, i suoi baci, le sue mani, la cercano, improvvisi; quando le labbra si soffermano su tutto di lei, e la percorrono. E lo desidera. In brividi. Ondate. Sempre.

È bello, l’amore, nel buio, e sente di impazzire.

 

 

Un’idea, mentre il corpo di lui la blocca. Sorride, divertita, al pensiero di provocare una sua reazione.

“Resta così, che faccio gli addominali” dichiara, e si tira su, di botto, mentre lui la osserva perplesso.

“Ma che fai?”

“Visto che mi blocchi le gambe…” e continua, imperterrita, sentendosi, assolutamente, meglio, quando può avere cura del suo fisico.

“Insomma, vuoi fermarti?”

“E perché? Questa settimana non sono riuscita ad allenarmi…”

Soffoca la tentazione di farle notare che potrebbe non essere salutare, sa benissimo come la frustrerebbe. Cerca un modo per distrarla. “Ti alleno io…”, propone, collaborativo. Anche se l’hanno appena fatto. E non è che sia poi così in forze, sarà la vecchiaia, si dice. Mentre lei sembra così piena di energie… come si nota, pensa scornato, un anno in meno, mentre nota che, tutto sommato, le forze stanno gloriosamente tornando, e la gatta osserva, perplessa, le strane manovre dei suoi coinquilini poi scivola, discreta, sotto il letto.

 

Forse potrà abituarsi alla cosa. Forse ha ragione André, è una situazione temporanea.

È difficile, venire a patti con quell’idea.

La stanchezza sembra essere affiorata improvvisamente, mentre ha sentito il bisogno di rannicchiarsi sul letto, un raggio di sole a spezzare la penombra, poter chiudere gli occhi per un po’. La camicia è ampia, ma la mano che osa, timida, sfiorarsi ritrova tutti i segni. Si sente a disagio, strana. Si sforza, razionalmente, di non considerarsi diversa da prima. Da cosa, esattamente, non saprebbe dire. Eppure, non le è facile.

Sa solo che è stanca.

 

La trova così, lui. E, in un moto di tenerezza, resta a lungo ad imprimersela nella memoria. E nei colori.

Poi, silenziosamente, la copre e scivola via, lasciandola a quello sprazzo di quiete.

 

La carrozza le porta un paesaggio di colline silenziose e verdi. E, più avanti, la frescura di un bosco. Guarda lontano, fuori dal finestrino. E si domanda quanto ancora occorrerà per arrivare.

Tutto sommato, considera, non è un posto spiacevole. Anche se, per uno che non vede, certi particolari suppone debbano contare poco. E, si dice, il viaggio è breve.

Ha lasciato André, appositamente caricato di impegni da sbrigare, in compagnia di Alain. Non poteva portarlo con sé, stavolta.

Le hanno raccontato di un istituto in cui rieducano i ciechi.

Dei tentativi, da qualche anno, di un alfabeto tattile, da parte del direttore dell’istituto, Haüy. Se Diderot ha scritto dell’importanza dell’educazione per i sordomuti, si dice, se Locke e Berkeley si sono espressi a riguardo dei ciechi, perché non fare un tentativo…

Un respiro. E le si stringe il cuore a pensare a quella parola. Associata a lui. Si nasconde il viso tra le mani, il respiro trattenuto.

Ma gliene hanno parlato bene. Le hanno detto che c’è la possibilità di un buon reinserimento nella vita di tutti i giorni, e, perché no?, in quella sociale, lavorativa. Certo, si tratta di un’istituzione particolarissima, e le rette sono alte, ma lui merita questo e altro. E, poi, a che serve il denaro, se non per situazioni di emergenza? Non per l’ostentazione. Non per il lusso. Non per se stessa. Per lui, per poter fare qualcosa, per riparare in qualche modo a quella ferita, allora, sì… E così, sebbene l’idea di imporgli o anche solo di ventilargli una opzione del genere la faccia star male a priori, si è detta che forse era il caso di verificare di persona.

 

Scende gli scalini.

Si gode la sensazione del sole caldo sulla pelle, per un attimo, abbagliata.

Non l’aspettavano. Meglio vedere le cose come stanno e non essere considerati come potenziali utenti…

 

Sembrano gentili, gli insegnanti. E gli ambienti sono spartani, ma dignitosi e puliti.

È stato un lungo colloquio. Le hanno spiegato cosa fanno, come. E come comportarsi, con lui. Cosa non fare. Cosa fare. Cose nate dall’esperienza. Le hanno parlato dei risultati. Del primo libro a lettere in rilievo, uscito giusto un anno prima, sull’educazione dei ciechi. In cuor suo pensa che non c’è niente di tutto quello che il suo André non possa fare, senza bisogno che qualcuno glielo spieghi.

Ma, si dice, non vuole essere scioccamente presuntosa. Non vuole privarlo di una possibilità in più. E chiede, domanda ancora. Vuole sapere. Capire. Non chiederebbe altro che essere convinta.

Per il bene di lui.

Forse, anche per essere rassicurata. Per le sue paure e per il loro futuro.

E perché ha il terrore, se dovesse accaderle qualcosa, se lui dovesse restare solo, che possa finire in un posto come La Salpétrière, l’ospedale che accoglie poveri, mendicanti e, su ordine del Parlamento, anche malati di mente… e che fine farebbe, il loro bambino, si domanda, angosciata.

Ma, quando le parole lasciano il posto alla realtà, alla “dimostrazione”, come la chiamano – e già questo la infastidisce: non vuole vedere cani ammaestrati, figuriamoci persone –, quando vede apparire, dal fondo dello stanzone, quelle che le sembrano uomini e donne, i passi rigidi, impacciati, che sembrano automi, chi intento ad incidere fogli, un altro declama una lettura edificante, ovviamente pochissime donne e quelle poche intente a pratiche femminili, il ricamo, le letture edificanti – e le viene da pensare che mancano solo le catene ai piedi e la testa rasata dei galeotti di Giuseppe II,[5] e che il mondo è sempre lo stesso, deludente e ristretto, anche per le donne cieche –, quasi ha un moto di nausea. Un vuoto allo stomaco. Vertigini.

Barcolla, si appoggia al tavolo lì accanto. Una pena terribile, dentro. Per loro. Per lui.

 

Via, lontano!

Con qualche scusa, promettendo che farà sapere, lasciando un contributo, e ringraziando frettolosamente, è fuggita via.

Forse si pentirà, in futuro, di non avergli offerto questa possibilità. Di avergli precluso un miglioramento delle condizioni. Magari, più in là, gliene parlerà e deciderà lui. Forse. E forse lui arriverà a non prenderla a male, pensando che lei aveva ipotizzato una cosa del genere, sia pure per il suo bene e sia pure non distante da casa – che non pensi che intendesse scacciarlo –… o, forse, non glielo dirà e basta. Che lui non sappia cosa aspetta quelli che non vedono. Che viva, come si sente. Lei è sicura che, in qualche modo, lui quelle abilità le stia già sviluppando. È strana, la natura umana. A volte sorprende. E si affida a questo, mentre si stringe nel mantello e si rintana nella penombra della carrozza. Ha i brividi, eppure è caldo.

 

Prova un’emozione indescrivibile, nel trovarlo, a casa, seduto al tavolo con Alain.

È come saperlo al sicuro. Non sa come definirla…

Veloce, lo raggiunge, quasi come dopo uno spavento. E se lo abbraccia stretto, con sollievo, le mani tra i suoi capelli, poi, sul volto, e un bacio, lieve, sulle labbra morbide, come Alain, sconcertato, non l’ha mai vista fare in sua presenza.

“Siamo calienti, oggi, eh, comandante…”

“Tutta invidia…”, riemerge, André, dall’abbraccio.

La scosta un po’ da sé, per poterla guardare in viso, la testa inclinata, un sorriso, quasi sorpreso. Come a domandarle cosa succede.

E intuisce che è come se, rientrando lì, si fosse scrollata di dosso un peso enorme, che lui, però, non riesce a vedere. È come se ora, finalmente, fosse arrivata al rifugio.

 

La conduce di là, in cucina, salvando il miserrimo Alain, impreparato a tanta foga, che ha commentato “Sei un vero amico”. “Guarda cosa ti ho preparato”, le dice orgoglioso e piano, la mano che scivola sul marmo, a cercare la teglia, perché quello è un momento soltanto loro.

E lei, lì, che si sente una traditrice, nei suoi confronti, stupita, che non se l’aspettava, e commossa, e grata. Per il pensiero. Il gesto. Perché lei non lo saprebbe fare e non dev’essere stato semplice, per lui, in quelle condizioni. E perché quello è un segno. Forse lui davvero non sprofonderà nel buio. Forse sta già trovando il modo di risalire. Perché, ha notato, i barattoli, del sale, dello zucchero, hanno dimensioni e forme diverse. Perché lui li ha voluti in posti ben precisi e facilmente accessibili. E così, ora fa caso, è analogo il modo in cui si è abituato a riporre gli oggetti in casa. Non è solo praticità, è per riconoscerli, se ne sta rendendo conto soltanto adesso. Perché, allungando una mano, sentendo l’oggetto, può intuire cosa sia. E non sarebbe lo stesso, se quella cosa non fosse più nello stesso posto.

Non è tutto, certo, ma non è neanche poco.

 

E sente una stretta al cuore quando ripensa a tutte le volte che ha appoggiato libri, bicchieri, vestiti a caso. E ha notato che lui li aveva rimessi in ordine. Quasi mortificata dalla propria insensibilità, improvvisamente ne comprende la ragione. Ma, si ripromette, d’ora in avanti farà attenzione.

 

È stato bravo, pensa, a non negare la situazione e a reagire, cercando un modo per fare le cose di prima.

E lei non dovrà stargli troppo addosso o trattarlo come un invalido, perché lui non deve perdere la sua autonomia.

 

Le hanno dato dei suggerimenti. E, fuga a parte, ne è grata. Si rende conto che è molto difficile che lui riesca a notare un cenno, un gesto, anche un’espressione, anche se è certa che veda ancora le luci e le ombre e questo facilita molto le cose. È una pena tremenda, ma, si dice, meglio essersene resi conto, perché ora toccherà a lei reinventare il proprio modo di esprimersi, con lui, evitando di dare per scontate cose che prima lo erano e parlandogli di più.

Riesce a capire, solo ora, l’espressione a volte interrogativa di lui, quando è con più persone che non conosce, perché, se non riesce a vedere bene, non sa a chi rivolgersi, se non riconosce le voci. E lui, sempre più spesso, si isola e tace. È stato bravo a nasconderlo, finora, dietro il disinteresse, ma, ora che gli educatori le hanno spiegato, nota molte più cose.

E, pensa, che ha fatto bene ad insistere per una casa senza gradini, al piano terra, perché la percezione delle scale cambia, ed è diverso se sono in salita, e lui può notarle, o in discesa, e rischia di cadere.

Tutto sommato, si dice, la visita all’istituto non è stata del tutto inutile, vista la quantità di informazioni che ora ha e che forse renderanno a lui la vita meno complicata.

 

 

Sente un po’ freddo e si stringe di più a lui. È così dolce, e folle, rimanere lì, mentre lui tiene quello che ha definito il loro diario – il diario di bordo –. E, lento, attento, piano, perché a tratti la vista peggiora, la guarda, la disegna. Lei, così. Ha cominciato a farlo una sera, davanti al camino. Quando erano ancora di là, a palazzo. Senza che lei se ne accorgesse. Giusto un mozzicone di sanguigna e un pezzo di carta.[6]

Poi, lei si era accorta di quanto lui fosse preso, concentrato. Si è mossa, incuriosita.

“Cosa fai…”

“No, ferma…”, le aveva risposto, piano. “Resta così…”

Ed era stato allora che aveva visto quel bozzetto, lei, abbandonata, com’era stata fino a un attimo prima.

Lo aveva guardato, imbarazzatissimo lui, e anche lei. Si era immediatamente coperta, le mani, precipitose, a cercare il lenzuolo, a disagio con quel corpo che lui sembrava adorare. Nonostante tutto, anche adesso.

“Cosa sarebbe…” non sapeva se essere intenerita, infastidita, divertita, ammirata. Senza neppure dirgli quanto fosse bello quello schizzo. Eppure l’aveva pensato.

Lui resta in silenzio. Non sa neanche come spiegarglielo.

“Avanti…”

“Volevo ritrarti…” confessa, gli occhi bassi.

E lei, lei che conosce le sue condizioni, incassa, muta.

“Volevo un ricordo di come sei… di come sarai” cerca le parole per non farla sentire peggio, ma sprofonda di fronte ai propri pensieri “a mano a mano…”

Lo guarda, gli occhi sbarrati. Interrogativa. Confusa. Colpita.

“Scusami… non volevo infastidirti…”

Le braccia le ricadono lungo i fianchi. Le pieghe del lenzuolo scivolano giù. Le lacrime bruciano e vorrebbero uscire, perché non sa trattenere la commozione, ora. Per lui, per cosa lo aspetta. Per quello che non avrà più. Per quella tenerezza. Resta così, in ginocchio sul letto, le dita a trattenere l’ultimo lembo di stoffa, davanti al fuoco che arde intenso, e non sa neanche cosa dire.

“Scusami… non mi ero resa conto…” cerca di nascondere la commozione. Che lui non se ne accorga.

E, poi, lo abbraccia, stretto. Nascondendo le lacrime tra i suoi capelli. Perché lui non veda. Per non vedersi.

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-luglio 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del luglio 2006.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage

[1] YESSSS, è sempre il ponte di Christine…

[2] Appunti del 21-5-06 proseguiti il 13-7-06.

[3] Lo spunto dell’inseminator, tipo Terminator, arriva da folli scambi di sms datati 2004 con Sydreana, che ringrazio. Se non ricordo male, si ironizzava sul fatto che in certe ff André sembra incarnare l’idea del maschio inseminatore folle, appunto, modello toro riproduttore, esclusivamente deputato a soddisfare la brama sessual-riproduttiva di una Oscar da cova in batteria.

[4] Cito dal mio BK’s Night ep. 17, revisione definitiva luglio 2006. Per quanto riguarda l’espressione, incollo qui la nota inserita in proposito in BK l’11-7-2006, quando ho aggiunto quella parte (che era già stata scritta ma è stata integrata – backup a disposizione…). “Visto che il mio “Idiota mascherato” datato dicembre 1999-gennaio 2000 è stato altrimenti usato in La rifioritura delle rose, 2006, (senza credits o citazioni…); visto che ho ancora idee e, quando non ne ho, taccio e non scrivo per forza prendendole da altri; e visto che non mi sento sminuita ad ammettere le citazioni ad altri, beccatevi l’idiota imbellettato: ora voglio vedere chi lo userà… si accettano scommesse. Laura, 11-7-2006.”

[5] VENTURI, Settecento riformatore, II, Torino, Einaudi, 1984, 1065.

[6] L’idea di André che disegna arriva da De insania, di Sydreana. Mi ha talmente colpito da ispirarmi le Figurae Terribiles