Alternate BK's Night

 Parte III

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

“L’ho sognato…”

“Anche io…”

“Aveva i tuoi occhi…” Verdi.

“No… aveva i tuoi…” Azzurri.

Riesco solo a pensare ad un piccolo te… non altro…

 

A te.

Una piccola te.

Un mio piccolo te.

Sempre.

 

È un amore silenzioso, che si nutre di piccoli gesti. Sguardi.

A volte, basta la stretta di una mano, lo sfiorarsi dei loro visi in gesti d’affetto. L’appoggiarsi a lui, nel passargli accanto. Il restare abbracciati, a lungo, senza parole. A confrontare e assorbire ogni movimento, respiro, tocco, sensazione. A volte sono sguardi scambiati. Intercettati. In un dialogo muto. E si domanda come sarà, dopo. Devastata dalla paura. Quando lo sguardo di lui non sarà più lì, pronto a ricambiare il suo. Prova una rabbia terribile, perché non riavrà più André com’era prima. Sano. Eppure, in un brivido, si rende conto che sarebbe potuta andare peggio.

 

Si sente appagata, accanto ad André. E impaurita per l’altra situazione. Non riesce a decidersi.

Sa soltanto che con lui sta bene. E non è un rapporto che gli altri, dall’esterno, possano capire facilmente. Non sa spiegare la tenerezza che l’avvolge quando, nel buio della notte, lui si accomoda contro di lei, caldo, un lievissimo sorriso, soddisfatto di quel suo piccolo possesso, che per lui sembra rappresentare la maggior parte del tutto. Le si riempie il cuore per quell’amore, si sorprende, perché le sembra impossibile che lui sia così felice di starle accanto e poter sperare di essere lì, insieme, quasi liberi. Di stare, finalmente, insieme.

Rientra di corsa, a volte, come avesse paura di non trovarlo, di non trovarlo più. Di non riuscire a proteggerlo durante le sue assenze. Più gli sta accanto, più si rende conto di come lui, a mano a mano, sia diventato, in una maniera viscerale, assolutamente parte di lei. Connaturato fin nelle ossa. Nell’anima.

È diventato difficile strapparsi, quasi, da lui, ogni volta. Pensare a lui, lontano, e sentirsi come prima, completi. Ora è diverso. L’amore, a volte, anche quando si realizza, non dà quiete. L’amore cambia nel tempo, nel rapporto. Può arrivare a dare un sentimento totalizzante di incompletezza, come di mancanza di una parte di sé. Forse, riflette, è anche in questo senso che l’amore completa.

Ogni volta che lo sente arrivare e corre a prenderlo, per accompagnarlo, perché sente che è indispensabile fare accanto a lui ogni passo che sia possibile, e guardarlo, di nuovo, ancora, e stupirsi, sempre, le pare di incontrarlo dopo un’eternità. Ogni volta, si sorprende, a vederlo nella loro casa. Confrontarlo coi loro luoghi. Associarlo ai loro spazi. È bello. È qualcosa che scalda il cuore, pervade di appagamento. Non saprebbe come altro definirlo.

Eppure, ha sempre come paura di poterlo perdere.

 

È tenero il sesso e dolce. A volte disperato.

Aggrappata alle sue spalle, senza mai guardare il proprio corpo, non sa più che cosa prova. Cosa vuole- sa soltanto che ha bisogno di lui.

 

è andata a vivere con quel…” neppure pronuncia il nome del nemico che gli ha arrecato, assieme alla figlia ribelle, l’offesa mortale.

“Con André”, corregge pazientemente la moglie.

“Ci vive insieme…”

è il suo attendente…” osserva lei, come questo rendesse più facile far accettare al generale la realtà.

“Non doveva farlo!” Sbotta, imbufalito.

“E perché mai?” Una donna paziente.

“Non gliel’ho permesso!”

“Potrei risponderti che è adulta.”

La squadra risentito. Da lei il torto no.

“Che può decidere della sua vita.”

Il pallore della rabbia cede al sangue che monta. “Io sono suo padre! Decido io!” Obietta, esacerbato.

“Non sei il suo padrone. È una persona autonoma.” Vorrebbe aggiungere che non può aspettarsi altro, da come l’ha – l’hanno – cresciuta, ma suo marito è talmente infantile in certe situazioni che non sarebbe di nessun aiuto.

“Ha lasciato le Guardie reali senza il mio permesso!” Si lamenta, non potendo ribattere altrimenti.

“E mi pare non stia male, da quando ha quel nuovo incarico…” rigira impietosa il coltello nella piaga. Davvero, Oscar le è parsa più libera. Un lavoro impegnativo, sì, ma con qualche soddisfazione. Meno forma e più sostanza. L’idea di rendersi davvero utile, in qualche modo, e non di arricchire la corte di un’altra bellezza, sia pure in abiti maschili.

“Doveva fare quello che avevo deciso io.”

è semplicemente ridicolo.”

“Non è capace di fare niente, senza di me!” Accusa, ingiusto, appropriandosi dei successi della figlia. “Io avevo fatto molto di più, alla sua età!”

“Ora basta: quello che ha raggiunto l’ha fatto da sola, non perché c’eri tu. E alla sua età no, non avevi fatto le sue stesse cose. Sei obnubilato dalla gelosia.”

“Io? Geloso?”

“Sì.” Di Oscar, della vita che ha davanti. Di André, che può averla. Della vita che sfugge, senza che lui possa fermarla. Patetico vecchio. Si domanda cosa l’abbia attratta in lui, secoli prima. Se ora lo guarda, vede solo i difetti. Le vestigia di quello che era stato un amore e non un’unione combinata.

“Spero che sbagli. Che si faccia cacciare.” Incalza, inarrestabile.

“Sei esagerato…” tenta di mediare, ma non può nascondersi un grido d’allarme.

“E… con… quello… quel…” Rosso di collera.

“Cos’altro sarebbe preferibile, per come l’abbiamo educata?” Ora non può tacere. Evita solo di infierire, ricorrendo al plurale. Accollandosi parte della follia del marito. E, in fondo, anche lei aveva sperato di dare alla figlia un’opportunità in più. Qualcosa di meglio di sei parti consecutivi, di un toro da monta tra le lenzuola, dell’ansia da riproduzione con annesso inevitabile erede maschio – perché, poi, cos’hanno le donne che non va, si domanda -. “Qualcuno che non la rispetti? Preferisci che tua figlia sia comandata? Non è meglio che sia rispettata?”

“Mia figlia deve ubbidire.”

“Ah.” Lo scruta. “Però saresti geloso se dovesse ubbidire a qualcuno che non fossi tu. O mi sbaglio?” E lo lascia lì, spazientita, a rigirarsi nei tortuosi meandri della mente l’inquietante interrogativo. Idiota! Vecchio, ridicolo, rimbambito idiota! Stupido, presuntuoso, egocentrico! Non ha nessuna intenzione di passare il proprio tempo a sopportare suo marito, quando è in queste condizioni. Forse sarebbe meglio praticargli un sano salasso, così la pressione scende. O lasciarlo, lì, ad azzerarsi da solo. Cosa che, prima o poi, non dubita, gli riuscirà. Se continua con quegli accessi di collera.

 

Ha imparato dalla gatta, si dice Oscar, osservandolo, divertita. Eccolo lì che, sornione, placido, un sorriso mezzo stampato sul viso, l’andatura rilassata e appagata, si sposta, di tanto in tanto, da un angolo all’altro della casa. Forse insegue la luce, intuisce, in un brivido, e le si stringe il cuore.

“Sai… mi sembri il gattone di casa…” lo fronteggia in piedi, lui sul divano con una tisana e cuscini, l’ironia a tentare di scacciare il magone.

La guarda incuriosito. “…” Beato. è bello sentirla pronunciare con quel calore la parola casa. Pensare che è la loro. Che sono lì, insieme, nonostante tutto. E si sente sereno.

“Prima passi un po’ di tempo sul letto, poi vieni qui, poi”, e gli indica il camino, “ti piazzi di là…” in un sorriso, si domanda se ora vorrà una grattatina tra le orecchie anche lui.

Annuisce, soddisfatto, si sistema meglio, si stira. “Privilegi dell’uomo sposato…” ammette, e lei a domandarsi se tra un po’ comincerà a fare le fusa e se dovrà procurargli un enorme cuscino, da affiancare a quelli della gatta, per la siesta.

 

Sono attimi soltanto loro, nel silenzio azzurro della penombra, quando l’aria sembra sospesa in pulviscolo e il fuoco crepita, caldo di fiamme e giallo, e lui, in un tocco che brucia la pelle nuda e le dà brividi, il respiro leggero che la sfiora, la percorre, silenzioso, intenso, quasi sembra perdersi in quella bellezza malinconica, e lei in quello sguardo tanto profondo da sembrare infinito, destinato alla fine del buio.

 

 

“Grazie.”

La guarda dritto negli occhi, irriverente.

Uno sguardo troppo intenso, per i suoi gusti.

Che spera di aver travisato.

“Era giusto così…” taglia corto.

Si alza, le mani in tasca. “Non eravate obbligata.”

“Non importa…”

Sembra soppesare le parole, durante quel silenzio.

 

“Fai preparare gli altri, verrò di pattuglia con voi.”

Un’occhiata di disapprovazione.

“Non è prudente, ci sono stati parecchi disordini…”

“Appunto.”

“Comandante… non dovreste stancarvi così…”

Aggrotta le sopracciglia, sorpresa ed infastidita. “Scusa?”

“Lo sapete…”

Si chiede se si diverta a provocarla.

“Ascolta, l’argomento non esiste.”

“No?”

“No.”

“Strano…”

“Io non so come sia per voi uomini, ma forse non ti rendi conto che non si risolve tutto in rose e fiori, in congratulazioni o simili.” Una pausa. “O in un rifiuto.” La durezza e la tristezza, quasi la rassegnazione, nella voce.

“Beh, pare che il nostro Grandier cammini a due metri da terra…”

“Si dà il caso invece che io strisci due metri sotto.”

Una risata. “Mettetevi d’accordo…”

“Eravamo d’accordo.”

“E ora?” Qualcosa che vibra nella voce.

“E ora, come spesso nella vita, siamo di fronte ad un imprevisto…” Non sa neppure perché gli stia permettendo di parlargliene…

“E voi pensate di non essere il tipo, giusto?”

Annuisce. “Esatto…”

Le si avvicina. La osserva. Un’ombra di malinconia sulla maschera da istrione. “Io invece penso di sì, purtroppo…”

Scatta in piedi. Esasperata. Cerca di controllarsi. Di ignorare tutto. Compreso quel purtroppo.

“Raduna gli uomini.”

Le si avvicina. “Che peccato, comandante…”

Lei è gelata. “…”

“Ora davvero dovrò rinunciare…” glielo dice così, che quasi lei non capisce. Il viso triste, la voce lontana. E se ne va, le mani in tasca. Come avesse un peso enorme addosso. Anche lui.

 

 

E’ seduta accanto a lui, mentre la carrozza scivola lenta.

Le loro gambe si sfiorano. Attraverso il tessuto, una sensazione di calore. Chissà se stasera lui avrà voglia di farlo, si domanda.

Lui, ignaro, rilassato contro lo schienale, la guarda con dolcezza.

“Come ti senti”, le sorride, ora che, senza intrusi, può scambiare qualche parola con lei.

Lei alza le spalle. “Orrenda…” un’espressione comica. Si passa le mani gelate sul viso. Sente la tensione nel respiro.

Si appoggia a lui, di lato, gli si abbandona contro.

“Vorrei essere già a casa…” Si lascia andare. Vorrebbe poter piangere. Ma non lo dice.

“Anche io… non vedo l’ora…” confessa lui, in un sorriso lontano, mentre, affettuoso, la stringe a sé, una mano sul ventre. E lei prova imbarazzo, dolcezza, fastidio, calore. Non è abituata a pensare al suo corpo in altri termini che non efficienza, tenersi in forma, scattante…

Lo guarda, torva, quasi con risentimento. Osserva le gambe, fasciate dai calzoni scuri, la linea del torace, dei fianchi e pensa che lui, no, lui non ingrasserà. Lo odia, lo detesta.

Mentre lui accorato e dolce non sposta quella mano. Sembra, nel braccio che le circonda le spalle, volerle infondere calore. Forza. Serenità. Senso di protezione.

Eppure, le viene da piangere. Dalla rabbia. Perché nessuno sembra capirla. Perché le piombano addosso tutte quelle cose e lei non le vuole, non ora, non si sente pronta. Perché si sente costretta, inchiodata.

Perché si sente in colpa a non volere quella cosa, a non volere un cambiamento. A non voler cambiare lei stessa.

Ma non ha tempo di pensare ad altro.

La carrozza si è arrestata, e urla crescono da fuori. Quel mormorio confuso ora monta in grida.

Sembrano di belve, e invece sono uomini. E donne.

La sorpresa, prima. Poi, la paura.

Una calca contro di loro. Ora che la mano, ghiacciata, scosta le tendine.

Se ne rendono conto troppo tardi.

Si serrano più stretti. Le mani si cercano.

“Oscar, devi andare via. Cerca di nasconderti”, le dice, concitato.

“Andremo insieme, non dire sciocchezze.”

“Scappa, per favore, non c’è da scherzare”, e serra la spada.

Cercano, in gesti frenetici, di caricare le pistole.

La carrozza ondeggia, quasi la rovesciano.

Fa appena in tempo a stringerle il braccio “Copriti”, la implora, piano - che nessuno capisca, che nessuno intuisca il senso, perché non possano farle altro male, altre crudeltà -, che li trascinano via, dalle porte divelte, lontano l’uno dall’altra. Mentre si chiamano, nella paura, nella disperazione.

 

Ha il respiro corto.

Serra ancora la spada tra le dita.

Non vede dove l’abbiano portato.

Non è riuscita neppure a sentire la sua voce, in quel mare di urla disumane.

La colpiscono, la odiano. Riversano tutto il risentimento sul corpo di un essere umano. Colpevole di indossare una divisa? Di cosa, esattamente?

E lei ha paura. Che lo uccidano. Che lui soffra.

E, d’istinto, piegata in avanti, cerca riparo. Cerca di proteggersi. Di coprirsi, come lui le ha chiesto. Solo d’istinto.

La colpiscono sulla schiena, sulle spalle.

Alla testa.

Una spalla.

“Ammazzalo”, grida qualcuno ad un ragazzino che le sta accanto, un coltello lurido in mano, solo violenza, senza sapere neanche come usarlo in maniera corretta. “Scannalo”, lo incitano. E lui quasi lo farebbe. Ma la paura vince, mentre le dita tremano nell’incertezza.

Non guarda neanche in faccia il ragazzo. Sa solo che deve sottrarsi. Andare via, lontano. Da quelle bestie.

Scivola, urta di spalle muri polverosi. L’uniforme grigia di polvere e intonaco. Il puzzo di vicoli malsani e stretti. Pozze luride. Ciuffi d’erba che affiorano tra le pietre.

Piccole vie buie, che conosce poco. E il cielo sempre più scuro.

Le fa male tutto. Si domanda cosa veda, lui, come stia. Disperata, perché non riesce a trovarlo.

Incrocia davanti a sé due donne. Fa appena in tempo a sollevare su di loro uno sguardo, una richiesta di pietà. Non fate male al bambino, vorrebbe implorare. Lei, che non ama chiedere. Il sangue che le cola sugli occhi. E lo asciuga col polso. Ma sono due belve, che le mettono le mani addosso, anche loro. E lei sa solo difendersi, cerca di sottrarsi. Poi si fa belva anche lei. Non c’è niente nei loro sguardi. E può solo cercare di fuggire. E lui non sa dov’è.

 

Era di pattuglia, quando l’hanno avvisato della rivolta nel quartiere.

E sapeva che il comandante era fuori, per quella storia del loro compagno.

Forse è stato l’istinto, non lo sa, ma è corso avanti, spronando il cavallo. Ha avuto paura.

 

È un’orda impazzita, senza controllo.

“Sparate in aria!”, ordina ai compagni.

Lui si slancia avanti, spera di trovarla.

 

Sente che le forze lo abbandonano.

Che cazzata, morire così…

Oscar, almeno tu ti sei salvata? Sei riuscita a proteggerlo?

L’hanno pestato a sangue, è intontito dal dolore. Non si regge in piedi, ma lo trascinano, lo uccideranno, reclamano una preda e tocca a lui.

Mentre sente urla attorno a sé, esseri umani che incitano altri esseri umani a massacrarlo.

Non ci aveva pensato, quella mattina, svegliandosi. E considerando che ancora distingueva la luce e i contorni.

Lo costringono in ginocchio. Ancora dolore.

Non vede più niente. Il sangue in bocca lo rivolta.

Non aveva pensato a dire addio alla vita, quando aveva provato la sensazione dolce della pelle di lei tra le sue braccia. Il tepore. Il profumo dei capelli. La sua mano a proteggere calda il loro bambino.

Quando aveva sperato, egoista, che lei non rinunciasse a quel loro futuro.

Mani violente, di nuovo pugni.

Né quando, quel pomeriggio, aveva immaginato di passare la sera con lei, dopo quell’impegno.

Era tanto che non pensava alla morte, constata, sorpreso.

Non vede niente. Sente solo gli insulti e le minacce.

Gli scostano brutalmente i capelli. Dal collo. Lacerano gli abiti.

Ha cercato di reagire. Ma non ce la fa più.

E, poi, meglio che si distraggano con lui, e lascino andare lei.

Sente qualcosa di duro sulla pelle.

Se fosse fredda, potrebbe essere una lama. Neanche affilata. Ma è calda. Calda del contatto di mille mani che se la sono passata, fino a lui. Perché uno possa fare giustizia.

Giustizia… di chi…

Si scopre a considerare freddamente che sarà tremendo essere squartato da una lama ridotta così. Se lama è. Pare un pezzo di metallo. Ci vorrà una vita. A morire. Paradosso assurdo. Sarà un supplizio terribile. E sperare finisca presto, sperare di morire subito. Per non soffrire troppo. Quelli, quelli non sono esseri umani. Sono bestie. E lui lotta per gente così? Per queste belve preda degli istinti, della violenza? È per loro che sta perdendo tutto? Lei? … Oscar, purché lei stia bene…

Ha uno scatto di rabbia. L’ultimo.

Si spinge avanti, con tutta la forza che gli resta, e si slancia. Io non voglio morire così! Non ancora!

 

Gli è sembrato, nel terrore di perderla, di vederla.

Corre, scende da cavallo e corre più veloce, sparando in aria.

“Oscar!!! Comandante Oscar!” Non ricorda d’aver avuto tanta paura per qualcuno se non per Diane.[1]

Si fa largo, tra le urla di morte contro soldati e nobili. Corre contro il popolo. Strano sentirsi così accomunati, nel malumore della sua gente. Che non vede in lui un alleato, ma un nemico.

Ma non riesce a capire la bestialità che affiora. L’istinto di gruppo che prevarica la ragione. La lotta, no, non è quello. Non è una sorta di giustizia sommaria praticata nella violenza sul primo che capita, c’entri o meno qualcosa.

Lei non lo merita. Non lei. Di tanti, davvero lei no.

 

L’ha riconosciuta dai capelli. Così lunghi.

 

Riesce a farsi largo solo a forza. A fatica.

Quando la raggiunge, è quasi schiacciata contro un muro. Non legge paura, ha il viso di cera, determinato, di chi affronta l’orrore con coraggio.

“Oscar…” la protegge. La solleva, come non avesse peso. Spara, colpisce. La difende e si sente un traditore. Della gente. Di André. Ma non ha tempo per pensare, mentre, con la disperazione, riesce a sottrarla ai carnefici, e la sorregge, mentre sfilano in un vicolo buio, sorprendendosi di come il boato di quelle urla vada rimbombando affievolito.

Lei scivola giù, senza forze.

“Oscar, rispondi!!!!” Pallidissima, le mani gelate, il sangue lungo il viso.

La scuote per le spalle. “Parla!”

È un lento riaffiorare al buio. Al magma indistinto e roboante di urla.

Stringe gli occhi su di lui. Che, d’istinto, le serra forte le spalle, la fronte vicina alla sua, i visi accostati, chinando la testa, arreso, le lacrime nascoste dai capelli. “La mia Oscar… la mia Oscar”, prega, piano, mentre le si inginocchia accanto. E lei non riesce neanche a sorprendersi, quasi non ha voce, né per quei gesti, né per rispondere.

Saprebbe solo chiedere, di lui. E gira la testa verso la folla, là, in strada, allarmata. “Lui…” La mano, esangue, neanche riesce a scansarlo, in quel gesto debole. Percorre, tentando di mettere a fuoco, la marea di persone, domandando di lui con lo sguardo. Cerca di alzarsi, senza più forza. “André… come…” non riesce ad articolare, le parole che urlano nella mente lucida. Ti prego, il mio André… non farlo morire… non togliermelo ora… non ora…

Ma conosce già la sconfitta, Alain. Neanche combatterebbe, con lui o con lei. Preferisce lottare contro se stesso. E già ricaccia i possessivi della paura, e la ragione torna a galla. “Resta giù, ci penso io…” una dolcezza infinita nella voce. E, mentre lei lo scruta, ancora attonita, “Stai qui, non ti muovere!”, e lui sembra ritrovare la forza per staccarsi da lei. Per non avvicinarlesi mai più.

 

È laggiù.

Chissà perché le esecuzioni richiedono un pubblico accalcato oltre un palco. Forse è la curiosità, la voglia di vedere meglio, a poterlo aiutare. A concedere uno spazio di manovra.

Sarebbe facile mancare di un attimo. Lasciare che il metallo s’abbattesse sui tessuti. Lentamente, faticosamente, li lacerasse. Poi, tendini, vene, ossa. Di urla strazianti ne ha sentite tante, nella vita. E in quel casino, neppure è certo che le sentirebbe. E, poi, dopo un po’, il sangue cessa, le forze con esso. E la vita.

Tutto sarebbe finito.

Anche lei.

Anche lei. Sarebbe persa. L’avrebbe persa.

Si riscuote.

Quello che ha immaginato, in un attimo, gli fa orrore quasi più di quello che vede. Neanche registra più le immagini, che è già corso avanti, coi pochi commilitoni che ha radunato in aiuto, con l’ordine di coprirlo, di coprirli.

Lo strappa via dalle loro mani. Dall’abbraccio della morte. Mena colpi ovunque, e intanto lo protegge, gli tiene giù la testa. “André, avanti!”

Lo trascina quasi di peso. “Oscar è salva…”, gli confida, e giurerebbe d’aver visto un sorriso, tra il sangue e i capelli, e lui radunare le ultime forze.

 

Lei, che lo culla tra le braccia esanimi, lui, che debolmente le si stringe addosso. Non c’è posto per nessuno, in quell’abbraccio di lacrime e sangue, che, nell’oscurità del vicolo, li nasconde al mondo. Anche a lui. Mentre le voci, là fuori, perdono forza, si fanno distanti, poi, sembrano disperdersi, e allora pensa che forse i ragazzi, i soldati, ce la stanno facendo. Appena si reggeranno in piedi, questi due pazzi incoscienti, farà in modo di farli allontanare. Di metterli in salvo, questi due assurdi amanti delle tenebre. Due coglioni a mettersi in gioco così. E coglione anche lui, a lasciarsi coinvolgere. Ma è il suo lavoro. Vorrebbe solo sprofondare lontano, via. Invece resta lì, vecchio pirla, a proteggerli da tutto. Sguardi, domande. Anche da loro stessi. Da sé. Mentre volta loro le spalle e si domanda quando si decideranno a staccarsi l’uno dall’altra, questi due relitti senza forze apparenti. “I carnefici sono pesti anche loro”, riflette. “Ti sei difeso, Grandier”, mentre gli sfugge un sorriso.

 

Porta tutti i segni della lotta, André.

Da quando l’altro gliel’ha riconsegnato, non si è staccata da lui un attimo. Vorrebbe non doverlo fare mai più. La paura latente di perderlo la conosceva. Ora conosce il terrore.

Mentre tutto, come in un incubo, torna alla mente. E il silenzio la sorprende. E il peso di lui, tra le sue braccia. abbandonato. Pallido. Vivo.

Mentre la carrozza li porta a palazzo, dove avranno cure maggiori e più veloci, non ci sarà bisogno di spiegare al medico dove trovarli. Basterà che non tradisca il loro segreto.

Purché lui viva.

E con le dita gelate, mentre non le importa più di niente, accarezza il viso esangue. E le sembra sempre più bello.

All’altro, no, non vuole pensare. E ricaccia quelle parole, gli sguardi, i gesti, in fondo all’anima, per poterli non ricordare più.

 

Sta lì. Di traverso sul letto. Che la lascino in pace, tutti, finché non è il turno del dottore. Le forze che lentamente tornano. Le braccia a proteggersi il grembo. Ancora. Un dolore che la piega. E la paura. Riesce solo a piangere. Brividi che la scuotono. Paura. Orrore. Ansia.

Non sa come stia André. Non sa come finirà per lei.

Ha paura. Una paura terribile.

Di non averlo saputo difendere.

Di aver deluso André.

Di perderlo. Anche se è terrorizzata dall’averlo.

 

“Andiamo, state tranquilla…”

Non l’ha mai vista così, il dottore.

“Come sta André?”

“Pieno di ferite, ma poteva andare peggio… ha insistito che venissi prima da voi. Voleva sapere come state.” Le spiega.

“Ho paura…”

 

“Perché c’è quel sangue…” fissa le macchie sulla biancheria. Sulle lenzuola. Spaventata. Confusa da quello che prova.

Sembra non finire mai, la visita. Vorrebbe scrutare l’espressione del medico, ma non ne ha il coraggio. Guarda lontano, quando non chiude gli occhi.

Cos’è che fa cambiare, in pochi istanti? La vita, che si trasforma in un attimo. Prospettive che mutano. Situazioni che accettiamo. Quali sono i pensieri che svaniscono, e quelli che affiorano, diversi, nuovi, inattesi, indesiderati, in scarse manciate di secondi?

 

“È stata molto coraggiosa” può finalmente annunciargli, piano, il medico. Ha spedito la nonna a preparare del brodo caldo, “per i ragazzi”, ha detto, così da potergli parlare. Perché è preoccupato, André, che le sia successo qualcosa, a lei e al bambino, anche. “Si è protetta”, gli spiega, “si è piegata in avanti. Ha preso tutti i colpi sulla schiena, sulle spalle.”

“Come sta…” rabbrividisce, all’idea di cosa abbia passato, fisicamente e mentalmente. Non è stato in grado di proteggerla.

“Stai tranquillo, bene, sta salendo a vedere te, quindi, cerchiamo di rimetterti in sesto…” scherza, incoraggiante.

 

Sta lì, un braccio malconcio, la schiena che non le dà tregua per i lividi. Rimane lì, eppure vorrebbe avvicinarsi. Ma il dottore ancora non ha terminato. E così aspetta, le braccia conserte, come a nascondere il corpo, appoggiata al muro, l’espressione corrucciata.

 

Ha avuto un moto di terrore, quando l’ha visto armeggiare con la candela, fargli quelle domande, come l’altra volta, e vedere l’espressione di André, pallidissimo, pieno di lividi e tagli, che stava a malapena seduto, abbandonato contro il cuscino.

 

“Cosa succede”, ha domandato, con la voce che tremava, mente l’ha visto prendere le bende. Di nuovo.

“Vorrei tenerlo a riposo un giorno o due…” spiega lui. “Al momento la vista è estremamente affaticata.”

“La sta perdendo, vero…”

Lui non risponde.

André ha un gesto di impazienza. Che il dottore nota, mentre gli stringe, fugace, il braccio.

Poi, la paura. “L’ha persa?”

Un’occhiata all’espressione tesa di André.

“State tranquilla… ho detto affaticata.”

 

È un riemergere dal dormiveglia. Dalle paure. Per affrontarne altre.

Ricorda vagamente che il dottore l’ha tranquillizzato. E che è buio perché l’ha bendato.

Intuisce una presenza lì, accanto a lui.

"Sei tu...", articola, cercandone, con la mano, che lei serra, gelata, i lineamenti.

E a lei si stringe il cuore.

"Stai bene?" le domanda, incredibilmente.

E in una carezza le cerca il ventre. Le dita scorrono lungo le pieghe ampie della camicia. La stoffa morbida a celare.

Scuote la testa, incredula, le lacrime che ricominciano a rigarle il viso, la tensione che finalmente si scioglie e la libera. Mentre si piega su di lui, a nascondere quel gesto al mondo. Troppo scossa. Da quello che è appena accaduto. Dalla tempesta di sentimenti che si contrastano in lei. Dalla paura provata per lui.

E si avvicina al suo orecchio, i capelli che gli spiovono addosso e ne sente il profumo, e, sapendo di firmare la propria condanna, dolcissima e triste gli annuncia: “Sta bene…”

Ha paura di non aver capito, l’espressione incredula, non osa parlare, lui. “…” Scuote la testa.

“Il bambino… sta bene…” lo rassicura.

E lui, d’impulso, la circonda in un abbraccio fortissimo.[2]

 

Si stacca dallo specchio della porta. Ha visto. Ha capito, la governante. Poveri ragazzi, si domanda come faranno, ora.

 

Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-aprile 2006, maggio 2006, Pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2006.

Continua...

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1] Sebbene nella cronologia dell’anime la morte di Diane avvenga dopo questo episodio, ho preferito anticiparla.

[2] Da BK’s Night, p. 4. era questa la scena da cui originariamente partiva l’idea di questo racconto, cioè che quella domanda di André avesse un senso ben preciso. Quando ho iniziato a buttare giù questo testo, ho poi deciso di posticipare il tutto al 1788, quando Oscar è già nella Guardia cittadina.