Alternate BK's Night
Parte XIV
Warning!!!
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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.
Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.
Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.
L’ha avvolta nel mantello, senza forze, quasi non reagiva, cingendole le spalle, e corre, al galoppo, lontano da lì. È tornato ancora, quando era sola, violento.
L’ha trovata stravolta. Annichilita.
“Tua madre vuole lasciarmi, per colpa tua!”, le ha urlato contro. “Minaccia di dire tutto!”
Oscar lo sentiva addosso, e riusciva solo a respingerlo. “Lasciatemi stare…”
Quello che l’ha spaventato di più è stata la sua mancanza di reazione. Il fatto che non riuscisse a riscuotersi. Può tanto, la disapprovazione di un padre? Che cosa rappresenta, in realtà?
Così, aveva preso una decisione.
“La porto via”, ha detto ad Alain, nella notte, trafelato. E ha inviato un messaggio al colonnello, perché provveda.
In fondo, era tanto che dovevano partire… che importa se in quella notte la pioggia spazza le vie, e gli zoccoli dei cavalli affondano. Che importa se arriveranno fradici, chissà dove, poi… non importa. Sa solo che deve portarla via.
Era tanto che non si concedevano un viaggio. Si è allungata, quasi rilassata, sui sedili e lascia che lo sguardo si perda nel paesaggio, che scorre pigramente, lentamente. Si è addormentato accanto a lei, André. Lontano da casa, sembra finalmente rilassato.
Sorride. È bello tornare a poter scrutare il suo viso disteso.
Sono i momenti in cui sente che è soltanto suo. Sta molto meglio, lontano da casa.
Una volta, hanno immaginato di poter viaggiare a lungo, loro due soli. Le piacerebbe poter pensare che sarà così, un giorno. Le piace non programmare. Tornare nei posti in cui sono stati e, timidamente, scoprirne di nuovi, sorprendersi a creare delle consuetudini, dei riti soltanto loro, immaginare di ritrovarli, una volta o l’altra. Custodirli gelosamente.
La mattina, svegliarsi con la risacca delle onde. Concedersi il lusso del tempo per sé. Camminare, a lungo, per il piacere di farlo. Tenersi per mano senza nascondersi e scambiarsi sguardi innamorati anche all’aperto.
Sorride, perché le sembra rinato, André. E si domanda quanto staccare servisse anche a lui. Perché è bello ritrovarlo.
Appoggia la tazza sul piatto. Lei sembra persa, la brezza che le carezza i capelli, lo sguardo al mare.
Raduna le stoviglie sul vassoio. Le sfiora la mano. Sorride al suo riscuotersi.
“Sistemo queste ed andiamo, se vuoi”, le dice in un cenno.
“Dove, oggi…” è felice del tocco con cui l’ha cercata.
Un cenno del mento, ad indicare un punto, oltre. “Mi hanno detto che vale davvero la pena…”
La diverte che lui si occupi dei loro itinerari, di organizzare qualche escursione, di tenere i contatti con i locali. È sempre stato bravo, nei rapporti umani, e di solito sceglie bene le destinazioni. Lo guarda, sentendosi leggera. Come appagata. È bello, stare con lui.
Se solo potesse durare per sempre. Se solo si potesse davvero scegliere un esilio mentale e dimenticare…
Invece, la percentuale di gente spiacevole che si accalca alle soglie delle nostre esistenze esigendo attenzione, tempo, energie supera sempre di gran lunga quella delle persone con cui vale la pena avere contatti. Che spreco, si dice.
Che spreco di vita, occupati la maggior parte del tempo in cose che non ci interessano e neanche ci appagano. Poi arriva il senso del dovere, e quello che era un singolo, infinitesimale attimo, sparisce, nel propagarsi delle esigenze superiori.
“Comme tu es belle…” le ha sorriso, una mattina, appena sveglio. E, prepotente, le ha serrato le dita attorno al polso e l’ha voluta tenere stretta, così, stretta a sé, a respirare un po’ di lei.
Partire per tornare… a volte pensa che le piacerebbe partire e basta. Eppure, tornare si deve.
In fondo, il ritorno è sempre un trauma. Da qualche tempo pensa che forse non è questa la vita che avrebbe desiderato. Non esattamente così…
“È stato qui.” Di nuovo.
Non sa neanche come dirglielo, ma ormai… Le dà anche fastidio che possa pensare ad una richiesta di aiuto, anche se si è sentita violata. Vorrebbe riuscire ad evitare accadesse di nuovo.
“Quando?”
“Due volte…”
“Quando è successo?” Ora ha paura. “Perché non me l’hai detto…”
Si appoggia al tavolo. “… Ho sperato non tornasse più… di aver avuto un’impressione sbagliata…”
“Impressione…” e dire che lui ha usato parole analoghe. “Non credo si possa parlare più di impressioni.”
Le fa paura lo sguardo con cui la scruta. “Non puoi restare sola.”
Io… io non dovrei restare sola? Io?
E la mia vita?
Io… ridotta ad oggetto… persa la mia libertà… cosa mi resta… come vogliono ridurmi?
È strano, riflette, l’aver provato una sensazione di rabbia anche nei confronti di André, che voleva solo proteggerla. L’avergli attribuito idee non sue. È col padre, che deve avercela. È giusto non spostare il risentimento su André.
Si domanda come si ingeneri un rapporto vittima-carnefice. Cosa faccia supporre a qualcuno di avere il diritto, il potere di indurre in scacco un essere umano, di farlo sentire incerto, insicuro. Di privarlo della propria tranquillità, a volte duramente conquistata. Di irrompere nella sua vita e devastarla? Come si arroghi una persona il diritto di fare violenza ad un’altra.
Oscar sente rabbia, sì, profonda, e dolore, perché il tradimento, anche se di un padre come quello, fa sempre male. E sono sentimenti profondi. Ma, ora, si rende conto, durano meno. Perché prova quel piccolo, infinitesimale sollievo, che, in fondo, è la sua salvezza, a considerare che non è lei ad essere così. Che non è André a ricorrere a quei modi di fare. Lei fa la sua vita, così almeno vorrebbe; André è una persona gentile. E si ritiene fortunata a non essere come chi ha bisogno di affossare gli altri per ritrovare un barlume di potere che gli ricordi di esistere.
Oscar vive sentendo, ama la luce, le foglie, ama la sua casa. Ama i soffi d’aria che la sorprendono da una finestra, le piccole cose che hanno comprato insieme per la casa. Ama accarezzare la sua gatta. Restare abbracciata ad André. Oscar vive, pienamente. Non è sempre facile, anzi, ma onora la vita. Chi, invece, ha bisogno di farle del male per definirsi, no. È solo un miserabile. Un mentecatto.
Forse, pensa, nella notte, abbracciata a lui, caldo, la paura si comunica. Leggerla nello sguardo di lui è come vederla propagata. Quando una sensazione è solo nostra, temiamo di poterci ingannare. Tendiamo a non fidarci degli istinti. Ma quando è il tuo compagno, una persona che consideri affidabile, a provarla, tutto cambia.
Oscar non ha avuto paura per sé. Quel giorno tutto è accaduto troppo in fretta, quasi non ricorda. E, quando lui le si è ripresentato davanti, ha provato come la sensazione di non valere abbastanza, per poterlo odiare davvero. Forse, ha pensato, non lo meritava. Non meritava di poter desiderare altro, nella vita. Non meritava di difendersi da lui. Di scegliere.
Forse. Non è sicura delle ragioni. Forse, invece, è solo stata colta alla sprovvista: come si era difesa da una folla inferocita poteva difendersi da un vecchio urlante. E, così, si sente ancora più in colpa, verso André.
Ma, al di là di tutto, André, la loro coppia, non merita di vivere nel terrore. Non si può andare avanti ad aver paura ad aprire la porta, pur essendo perfettamente in grado di difendersi, André che la guarda ogni volta come se dovesse perderla da un momento all’altro – e lei a cogliere quello sguardo come fosse l’ultimo, per lui, e della propria vita –. No, il rischio fa parte dell’essere in vita, certo, ma vivere con la paura no. Questo non può accettarlo.
Deve fermare quel pazzo. Tocca a lei difendere se stessa e lui.
Non sa ancora come, non sa cosa di preciso, ma quella notte, accanto ad André, un pensiero inizia a nascere, oscuro.
Metodica. Si allena. Ha chiamato un maestro d’armi e lo vede tre volte la settimana per due ore. Gli altri giorni, tocca ad Alain o a lui. Parla pochissimo, a volte. Altre volte sembra normale. Sembra determinata solo a tornare come prima.
Non vuole vedere nessuno fuori dal lavoro. Solo lui, Alain, e con loro è come sempre. André ci capisce sempre meno. Rosalie le dà i nervi e la delega a loro due.
Si raddolcisce solo con la gatta. A volte, si accoccola vicino a lei, e allora riesce a piangere.
Cosa abbia, dentro, è diventato difficile dirlo.
Ma la determinazione di quel pensiero che si è radicato in lei si è rafforzata. Difendere se stessa, lui, loro due.
“Come osate mettermi in imbarazzo davanti ai miei uomini!???” Ha sbattuto con violenza la spada sulla scrivania. Il metallo colpisce il legno con un rumore secco. “Avete messo in ridicolo la mia autorità!”
Ribolle di rabbia, mentre un sorriso idiota stira le labbra del pretendente. Che diavolo di scherzo è quello?
“Il vostro signor padre mi ha concesso la vostra mano, non vedo quindi…”
“Concesso… cosa?” Qualche secondo per registrare la novità, per recepire l’ennesima aggressione alla sua integrità. Poi, la reazione. “Come vi viene in mente? Siete pazzo?” Allo stupore iniziale si sostituisce la rabbia. Vorrebbe fare a pezzi tutto. La scrivania, la stanza, e quell’idiota imbellettato che le sta di fronte. Strappargli i merletti, i capelli, evidenziare la ridicola bambola truccata che è . In quel turbinare di pensieri, si sorprende della strana freddezza per cui non ha obiettato la cosa più ovvia. Già sposata. Ama un altro. Non può dirlo. Preferisce non dirlo.
Eppure, eppure… neanche ora lei ed André sembrano avere dei diritti. Suo padre trova comunque il modo di portare i suoi attacchi. Se non direttamente, attraverso un braccio armato.
“Tornerò a trovarvi”, in uno svolazzo di merletti e riccioli. Sente l’odore della cipria nell’aria. Che schifo… “Fisseremo la data.”
“Colonnello!!!!” Tuona. “Colonnello!!!”
Gli è davanti. “Struccatevi, se vi presentate a me, prima di tutto. Siete ridicolo.” Ora è lei a soffocare una risata.
Sotto lo spesso strato di trucco, arrossisce.
Centro, pensa lei. “Inoltre, ricordate: io sono già impegnata. E non intendo avere a che fare con voi.”
“Impegnata?” con aria di superiorità. “Con quello… quel…” pare che non riesca ad assumere aria per muovere il diaframma e pronunciare il ferale nome.
“Con chi mi pare.”
“Voi sposerete me.”
“Sposate il vostro cavallo!” Apre la porta “Colonnello!!! Eccovi, finalmente. Chiamate de Soisson e Grandier, immediatamente. E accompagnate fuori il signor conte.”
Certo che è insistente, riflette.
“Cosa ci fate, ancora, qui?”
“Vi aspetto…”
Si è appoggiata alla soglia della finestra. Controluce troneggia sull’idiota, che la trova bella, ma soprattutto appetibile trofeo. Lo intuisce, lei, e non sa se ridersela o sentirsi profondamente schifata da tutto quanto, quello là truccato e il signor padre che la tortura per procura.
“Non permettetevi mai più. Non fatevi più vedere qui.”
“Non sperate…”
“La cosa non mi riguarda, voi qui non siete gradito.”
Bussano. Stavolta l’hanno marcato stretto e non se lo lasceranno sfuggire.
André ha uno sguardo omicida, che maschera a stento, quando lo vede. Alain annota le espressioni e qualcosa ha capito, qualcosa domanderà poi. Pettegolezzi maschili…
“Accompagnatelo all’ingresso, e fate in modo che non lo veda mai più attorno a me.” Eppure il tono è triste, nascosta, dietro le parole, una gran stanchezza, per tutto quanto. C’è sempre l’abuso di lei, della sua integrità, dei suoi spazi. Suo padre, mediatamente o direttamente, ci prova sempre. Lei vorrebbe non esistesse, vorrebbe essere finalmente libera. Ma non lo sarà, finché lui, in un modo o nell’altro, si renderà presente. Il torturatore ha bisogno della vittima designata. La rende tale, la sceglie, anche se essa tenta di sfuggire. Per quanto Oscar viva distante, per quanto si senta libera, dentro, per quanti sforzi faccia per non pensare a come vorrebbe ridurla quel vecchio, lui non la molla. Le dà una piccola tregua, poi riparte col suo gioco al massacro, con il suo metodico eliminarla, tassello per tassello. Credendo di distruggere, di annientare, di annichilire lei, si consola di fare grande se stesso.
Si prende la meschina soddisfazione di Alain che infila il braccio sotto quello dell’impomatato, che tenta di scapolare, di evitare il contatto. Alain, invece, lo fa apposta a parlargli in faccia, a voce molto più alta del solito, un perfetto cafone, quale non è. Vorrebbe abbracciarlo, davvero, il ragazzo, per questo. André invece, lo considera a malapena. Qualsiasi cosa facciano, Oscar è sua. E loro due lo sanno. Non c’è altro da dire.
Non è facile rientrare, la sera, e trovarsi con quell’argomento da affrontare. Se prenderlo sul serio o sdrammatizzare. Mai l’avrebbero immaginato, ed ora si studiano, ai due lati della tavola, come per prendersi le misure e decidere se parlare. Ci mancava solo il disagio creato dal pretendente, riflette Oscar, tormentando le verdure nel piatto.
André vorrebbe dirle di non torturarsi, ma non sa neppure lui come togliersi dalla testa – e non solo – quel fastidio, quel visitatore inopportuno e legittimato dall’autorità familiare. Vorrebbe stringerla, sussurrarle di lasciar perdere, ma lei sembra chiusa in se stessa, nel fastidio, e terrebbe lontano chiunque.
Visto che in sede non lo lasciano più entrare, ha preso l’abitudine di attenderla lungo strada.
Un gesto d’impazienza, con cui si avvolge meglio il mantello addosso. Getta indietro i capelli. Serra l’elsa. Non può far finta di non averlo visto. Non con quella mise rosso fuoco in raso, per dio, che schiaffo al buon gusto!
Un inchino a mezza via. Salamelecchi, annota, lei.
“Allora, mia futura consorte?”
Lo sorpassa, lasciandolo lì, il sedere al vento.
Ma lui è fin troppo lesto a rimettersi in posizione eretta.
“Attendete, mia signora!”
Signora a chi?
Affretta il passo, calcando sulle pietre calde.
“Perdindirindina, attendete! Suvvia, cara!”
Cara?
Si gira.
Lo squadra.
“Andate a farvi fottere.”
“Siate gentile, via…” con attonita aria di sufficienza per gli ingrati suoni che le sue orecchie debbono subire.
“Vorreste cortesemente andare a farvi fottere?” e lo lascia lì, in mezzo alla strada, rosso come un bocciolo troppo cresciuto.
“Avanti, mangia.” Le ha piazzato davanti un tortino sontuoso. E non ammetterà sconti. Non permetterà che quell’idiota rovini le loro serate e il suo personale piano di rimessa in forma di sua moglie.
“Ah, che meraviglia…” In effetti sarebbe un vero delitto distrarsi di fronte a quelle prelibatezze che sa quanto sia stato difficile procurare… André, pensa, ti adoro! Per queste piccole cose… anche, non solo… sorride tra sé.
Deve constatare che il suo accorato e sincero suggerimento non è stato seguito. Purtroppo. Oggi si è truccato ancora meglio, per l’occasione. Forse, riflette, dovrebbe rubargli, così, amichevolmente, a quattr’occhi, qualche consiglio di bellezza. Certo ce ne vuole di pazienza per sopportare questo cicisbeo, questo lacchè deviato che vaneggia di lenzuola di seta, cani, nonnini e non sa che altro e che non ha ancora deciso se la faccia più ridere o se la rabbia prevalga. Forse, pensa, finché non se ne sarà liberata, la rabbia. Se i suoi soldati fossero così solerti, dopo aver steso il Grandier, da stendere lui… ecco, quella potrebbe essere un’idea niente male. Ma non ha da lavorare, questo cretino? Quando era lei, alle Guardie reali, non si poteva permettere un attimo libero. Com’è che lui invece passa il tempo a pedinarla? La regina non ha più bisogno di una balia? La regina non ha più bisogno di qualcuno che controlli la sua sicurezza? O, intuizione ferale, la regina ne ha piene le palle del demente blasonato e gli ha concesso libera uscita?
Dovrà forse fare appello ad un’antica consuetudine che ha legato due donne, a volte quasi complici? Dovrà ricordare a sua maestà di mandare in missione, che so, scoprire nuovi profumi, o magari al confino, quella maschera di bellezza montata su gambe provviste di tacchi modaioli?
O, ricorrendo alle buone vecchie maniere, dovrà assoldare qualcuno dei più scalmanati dei suoi, ed offrirgli campo libero, come si suol dire, col vecchio Giro, che magari si diverte anche lui? Si lascia cullare qualche attimo dietro questa robusta, insana fantasia, fino a sconfinare in quella di solenne punizione del vecchio. Poi, semplicemente, il monocorde blaterare del cretino la riscuote.
Arrotola torvo la pasta. Ha fatto di tutto per procurarsi questa rara specialità del sud della penisola italiana, si è fatto spiegare come trattarla, era anche contento del risultato, e sinceramente non immaginava certo una serata a parlare di importuni pretendenti – sperava di tirare su il morale di Oscar, di sorprenderla, di rifocillarla e distrarla. Magra più di prima, nervosa, bisognerebbe nutrirla e curarla un po’. Cosa che al momento non gli riesce anche per colpa dell’idiota.
Quindi la novità culinaria passa in secondo piano, dimenticata dietro tutti quei problemi. Oscar quasi neanche si alimenta, annota infastidito. La scruta. Dopo tanta fatica e tanto entusiasmo, è dura sopportare di non essere neanche notati per gli sforzi.
“Ehi, arrivano dall’Italia… sono rari…” cerca di suonare entusiasta, ma il tono è deluso, stanco.
Abbassa gli occhi. In un gesto rassegnato poggia il tovagliolo. Si alza.
Si rintana nella piccola stanza che funge da cucina, le spalle al muro, ad attendere che la sensazione di inutilità che prova di fronte a quello che accade ad Oscar, da sempre, svanisca. Lo sa, alla fine succede.
Lo raggiunge di là, una mano scivola nella sua.
“Scusami…”
Preme il viso contro la sua spalla.
Scuote la testa, come a scacciare la tensione. “Torniamo di là, sono curiosissima…
Non riesce a nascondere che quasi pensa ad altro, mentre guarda a terra e lo riconduce al tavolo. Vigliacca, spera che l’illuminazione serale lo tradisca, e sente una fitta al cuore. Lui, che la ama, lei che lo raggira.
Si siede, cerca di assumere un atteggiamento incoraggiante, propositivo.
Azzarda un boccone, centellinando.
“Buoni”, s’illumina.
E a lui, lentamente, pare che la delusione si possa dissipare, come fosse comparso il sole.
Basta poco a sollevare un cuore… basta poco per ripiombarlo nello sconforto.
Oscar continua a rimuginare, nervosa, senza riuscire a nasconderlo del tutto, arrovellata dietro quell’ennesimo problema, che logora entrambi.
Alla fine, lui si alza, comincia a sparecchiare. Lei pare non accorgersene.
“Sono stanco… finirà che cucinerò per Alain, almeno lui mi apprezza…” ma sa che lei neanche l’ha sentito. Parlare, a volte, tentare di comunicare, è inutile. Un gran spreco di aspettative.
La squadra, lei rossa in viso.
“Come… come…”
“Tuo marito conosce qualche… peripatetica… ehm… qualche individuo… non so, una tenutaria…”
“Ma… ma… ma…”
“Avanti, non essere timida…”
Annaspa, la misera Rosalie. Come può la sua inaccessibile madamigella Oscar pronunciare simili sconcezze… scuote, sconsolata, la testa, quasi le manca il respiro, le parole le muoiono in gola.
“Su, Bernard è un uomo di mondo… saprà certamente…” non si farà sfuggire la preda, dopo aver dovuto affrontarne anche l’impresentabile suocera, che non ha mancato, mirando al pianerottolo come d’abitudine e masticando rumorosamente, di far pervenire ad Oscar la propria totale disapprovazione per la sua condotta di vita.
“Sei o no la mia fedele Rosalie?” sbotta, alla fine, quasi persa ogni speranza.
Dopo una buona mezz’ora di farfugliamenti, finalmente in possesso delle informazioni utili, chiama a raccolta i soldati più fidati. Vale a dire i soliti.
Qualche giorno dopo, il sedicente pretendente viene arrestato nel corso di una retata in un noto bordello parigino. Suscita scalpore, e dà la stura a numerosi libelli e pettegolezzi, il particolare che sia stato trovato incatenato alla cuccia di un paio di pechinesi, abbrancato a tre efebici giovinetti coperti di piume e turbanti, nonché circondato da giovani aitanti, tutti dalle larghe spalle e dagli ampi petti,[1] provenienti dai più disparati continenti. A voler essere precisi, circondato non è il termine esatto.
Finisce qui la triste storia di Monsieur de Girodel, pretendente fallito, annota Oscar, mentre Alain e André se la ridono. Sono stati loro a prezzolare, tassandosi personalmente, i baldi giovani – quello che non hanno osato riferire ad Oscar sono state le innumeri avances ricevute. Il tocco da maestro sulla geniale idea di Oscar!
Sono timidi tentativi, a volte. Indugiare in una carezza. Trattenerla contro di sé, insistente. Poi, in silenzio, serrando un sospiro, lasciarla andare, rassegnato.
A volte lei sembra non volersi allontanare, e allora l’abbraccia, forte.
Sono baci, a volte dolci, a volte appassionati.
Mani a vederla, su di lei, delicate, ardenti.
Labbra. Che la percorrono.
È come ricominciare. Lentamente.
Reimparare. Gesti. Tempi.
Eppure, quando vorrebbe prenderla, la sente irrigidirsi. E non lo fa.
Non l’ha più disegnata.
Ora, quello che le era parso imbarazzante, quasi le sembra un rifiuto.
Lo teme. Anche se sa che non è così. E quella distanza, che si aggiunge ad altre, tra loro due, le pesa più di tutte. Quel varco che aveva aperto nel mondo solo di lui, come conoscerlo di più.
Lo raggiunge da dietro.
I capelli sulle sue spalle. Il viso accostato. Si sente meno peggio da quando il suo corpo dà segnali di poter tornare come prima. È come se si sentisse più sicura, anche di sé. Ma dell’amore, della vicinanza di lui, ha paura. Ancora.
“Non hai più disegnato…” ha un tono diverso, ora, la sua voce. Come stesse per spezzarsi.
Lo sente irrigidirsi. Ha deciso di non farci caso.
“Tieni”, e mette dei fogli, nuovi, sul tavolo.
Sono bellissimi, pensa lui, assaporando la grana con le dita. “Grazie…” la osserva, incuriosito, la testa leggermente inclinata, mentre lei gli passa le dita tra i capelli e si sente felice. Li sfoglia. Sono diversi. Carta tessuta a mano. Grane di peso differente. Eppure, è così difficile tornare alle proprie passioni, dopo quello che è successo. Come se il trauma risucchiasse le vite. Occorre tempo. E a volte il tempo non c’è.
“Vorrei un ritratto.”
La guarda, perplesso. “Da me?”
Annuisce. Sorride. “Sì, mi piacciono i tuoi pastelli. Voglio un disegno informale”, è imbarazzata, non sa bene come proseguire, “… di come sono per te…” non dice di come mi vedi. Sa bene che ricordare un viso non è questione di vedere.
“Che ne dici…” Esita. Sembra importante, per lei. E attende, come sospesa. Come se ne dipendesse chissà cosa.
“Sì…” Sorride, “ci vorrà un po’ di tempo ma…” Sorpreso. Felice.
“Non importa… prendi tutto il tempo che vuoi…” Poi, pensa, quando sarà finito, sarò pronta anche io…
Laura, gennaio-agosto 2006, maggio-giugno 2008, Pubblicazione sul sito Little Corner del giugno 2008.
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[1] Scrivo così perché mi risulta essere questo il canone target di molte fanfic in merito all’ideale di bellezza maschile. ^_-;