Alternate BK's Night
Parte XII
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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.
Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.
Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.
La guarda, appisolata sulla poltrona. Resta lì, e gli pare quasi di averla violata anche lui, con le sue richieste, col suo amore, oltre al padre.
Sono usciti, qualche giorno prima. Un evento raro. E lei aveva l’impressione, dopo tanta solitudine, di una protezione soffocante. Camminando, se ne era allontanata apposta. Poi, le dita di lui si erano strette attorno alla sua mano, quando, a fatica, l’aveva raggiunta. Aveva sentito il suo calore. Si era detta che era bello, che poteva riabituarsi a lui.
A volte le manca.
Non c’è quasi mai, tra i turni e il resto. Si sente così sola…
Se pensa che ora avrebbero dovuto essere lontano…
A volte si sente bene. A volte, le capita di non avere quasi forze. Si sente stupida. Stupida per la reazione ai fatti, perché prima non voleva accettare la situazione e ora non riesce ad accettare quella soluzione… sì, in fondo, è una soluzione come un’altra. Solo che le è stata imposta. Imposta a lei, alla sua vita, al suo corpo. E al suo compagno.
Avrebbe dovuto decidere lei, poi, loro due. Non suo padre.
Un padre, come Crono, che divora i figli. Che annega nel narcisismo. Fino ad annientare il senso delle sue proprie pretese. Se Oscar è l’erede, chi sarà l’erede dell’erede? Come avrebbe dovuto vivere, come una vergine? Negarsi tutto? Sarebbe davvero stato impossibile tentare una vita normale?
Un padre, che non sa amare e neppure farsi amare. Che riesce a provocare solo indignazione e rifiuto. Un padre che finisce sempre per sbagliare.
Un padre. Un carnefice.
Ricorda a sprazzi. Ricorda la voce di André e suo padre che urlava “bastardo”, ma non sa se si rivolgesse a lui o al bambino. Un modo obbrobrioso per definirlo, comunque. Solo uno sporco moralista come lui poteva farlo. Uno che salva la morale pubblica.
Sa che Alain resta con lei anche per sorvegliarla. Non le hanno detto niente, ma ha intuito scambi di sguardi preoccupati con André.
È strano avere attorno Alain. Nasconde un sacco di tenerezze e di vulnerabilità sotto l’aspetto vissuto e inattaccabile.
Le prepara il tea, le porta da leggere. O sta lì, in silenzio, con lei. Certe sere che André ha tardato, ha anche cucinato – non se la cava affatto male –,[1] mentre Oscar e la gatta, dalla porta della cucina, assistevano, curiose, alle creazioni. La micia, poi, lo adora. Come sa farle fare le fusa lui, non sa farlo nessuno. André, silenzioso e rapido, ha fatto un piccolo schizzo a sanguigna, un pomeriggio, mentre lui teneva la felina.
Una volta le ha detto “è che tu sei incasinata nella testa, comandante… e lui nel cuore…” e a lei quasi ha fatto tenerezza, perché usa un tono che non gli ha mai sentito, sembra scoperto, quando parla con lei. Ma sono sensazioni che cancella subito.
“Le donne sono costrette, in alcuni momenti, dalla debolezza del proprio corpo…”
La guarda, sorpreso. Da lei non si aspettava un’affermazione simile.
“Non sempre… non intendo che siano deboli…”, cerca di spiegarsi, “è solo in alcuni casi contingenti…” non lo guarda neppure in faccia e lui non osa interromperla. Sa benissimo a cosa si riferisce. “Ed è squallido che si possa approfittare di queste situazioni per costringerle, per imporre loro qualcosa che non vorrebbero…”
Non la interrompe. Resta a contemplarla, attento.
“Il corpo delle donne è sempre negoziabile. Per tutti. Sarà sempre la posta, la merce di scambio, anche tra fazioni opposte. È un argomento che tocca la libertà, e sul negare la libertà, quella più radicale, quella di decidere di se stesse, alle donne, alla fine, si ritrovano tutti d’accordo.” È indignata. E stanca.
A volte non sa cosa pensare. Si fa quasi schifo ad immaginare che, per lei, per sé, probabilmente è meglio così. Lei è libera. Non è legata. André riesce a lasciarla libera, a viverle attorno senza costringerla, un figlio sarebbe diverso. Si tratta di piccoli equilibri. E, in qualche modo, questo gliela rende meno lontana. Sa che non sarà mai sua, ma è meno perduta. Poi, intuisce scintille di desolazione in uno sguardo fugace, e scaccia quei pensieri.[2]
“Vedi, io probabilmente sarei stata strana anche come donna… non sono stata educata nell’idea di formare una famiglia, è vero, ma è che davvero mi interessano altre cose… forse sarei stata un’infelice, se avessero tentato di impormi la vita delle mie sorelle…”
Lui sorride. Approva. Silenzioso. Sei un coglione, Grandier, come fai a lasciarmi qui, a piede libero, con la tua donna…
Il sole inonda di luce la stanza. Si è fatto tardi.
“Tra poco arriva Rosalie…” annota desolata.
Se prima non aveva voglia di mostrarsi ad Alain diversa, ora non si sente di affrontare occhiate accorate mascherate di ottimismo, domande mute, espressioni di circostanza. Non ha voglia di incrociare nessuno. Di dovere spiegazioni. Di sentirsi compatita.
Se potesse, fuggirebbe via.
“Faresti una passeggiata con me…”
“Non è il caso, sei ancora debole…”
“Per questo te lo chiedo”, puntualizza, tra l’ironico e il depresso. “Mica mi serve un accompagnatore!” Se la ride. E lui pensa che è bellissima. E un po’ stronza.
“Non sai cosa ti perdi…” rimanda lui.
Non scherzare… Lo guarda negli occhi, severa. Per bloccarlo.
Non stavo scherzando… Distoglie lo sguardo.
Chissà se sembriamo una coppia… o cosa… si domanda lui, divertito, imbarazzato.
Lei, imperturbabile, procede, sforzandosi di ignorare ogni segnale.
Averla lì, che gli cammina accanto. L’idea di misurare il passo sul suo, che, annota, non ricordava lento – ma dev’essere quello che è successo, è ancora debole… tanto che pare volare –. Si sente strano. È bello starle vicino. Ascoltarla pronunciare quelle scarne parole. Osservare i suoi gesti. I capelli che ondeggiano e brillano. Ma non può non pensare a ciò che non gli spetta, guardare ma non toccare. E non sentirsi male all’idea di quello che ha passato, di quello che le hanno fatto.
“C’è un parco, qui dietro, vuoi che ci sediamo?” in fondo, ogni lasciata è persa… vale per te, Grandier, come vale per me.
è davvero bella, pensa, mentre lei, come incantata, dimentica per qualche istante di tutto, si stupisce di quell’angolo, e gli occhi le scintillano, ma non saprebbe dire se sono i raggi del sole che, morendo tra le fronde, li fanno brillare. Sembra una magia, il parco avvolto nello stormire, l’erba curata. Il fresco improvviso e il canto penetrante.
Lei, davvero, per un attimo, sembra persa. Sospesa da tutto.
“Davvero non lo conoscevi?”
“No…” e tormenta tra le dita un filo d’erba.
È così stanca… all’improvviso, sente tutta la fragilità. Tutto il dolore. Gira il viso di lato, ma lui si accorge del tremito che le scuote le spalle.
“…”
Ricaccia indietro le lacrime. Serra le labbra.
È un attimo, poi si ferma. Vorrebbe circondarla col braccio. Dirle di stare tranquilla. Accarezzarle i capelli.
Ha immaginato il calore di quell’abbraccio. L’imbarazzo.
Poi, si era riscossa. Si era asciugata le lacrime, una mano sul viso.
“Anche lui soffre”, le aveva detto, piano, dopo. “Ha avuto paura di perderti…”
Annuisce, in silenzio.
“Alla fine, non devi lasciare che vi faccia ancora del male…”
Le ha versato acqua e vino rosso. Nonostante la crisi di poche ore prima. Ora vede e si sente quasi libero. Come più leggero. Così ha ripreso in mano la situazione.
Non le dice che soppesa le caraffe e sente il diverso rumore dei liquidi che scendono nei bicchieri. Né che si aiuta con gli odori. Forse lei lo sa.
Sotto le dita il marmo del tagliere. I pomodori, dalla Provenza, non sono ancora molto diffusi ma a lei piacciono e glieli procura in qualche modo. [3] Li affetta sul tagliere, li compone accanto alle verdure. Con cura. Come ricorda sua nonna, quando era bambino, ha fatto per lui.
Aver conosciuto l’affetto significa, poi, saperlo restituire. E lui vuole che Oscar si senta amata. Circondata di piccole cure.
È voluta tornare al lavoro.
Ha insistito. Dice di sentirsi meglio.
Forse, si illude lui, l’aiuterà a dimenticare.
Le passa una spada. “Per favore, potresti batterti con me…”
Lo scruta, interrogativa.
“Con un solo occhio è molto difficile giudicare le distanze… sto perdendo l’allenamento…” Mente, ma spera di distrarla un po’. Oscar non sembra disposta a concedersi sconti. Sembra aver dimenticato di essere stata una vittima. Si sente il carnefice.
Dopo, sono crollati, sfiniti. Come dopo l’amore.
Le ha preso la mano. Intimidito. Ricordando ognuna delle infinite volte in cui avrebbe desiderato poterlo fare. Ricorda di aver pensato che è viva, ed è bellissima.
Che presto non potrà più vederla. Ma che è più di quanto per anni abbia sognato.
Che, dentro, ha tanta tristezza. Ma, con lei accanto, potranno andare avanti. Lasciarsi alle spalle tutto quel dolore. Dimenticarlo non è possibile, ma lei è viva, e questo conta più di ogni altra cosa.
Si sposta su di lei, a scrutarla. Raddolcito.
Ansima. Lo sguardo lontano. Azzurro.
Le sposta i capelli dal viso, piano.
Poi, un bacio. E lei non si sottrae.
Un altro. Più profondo. E ancora. Le sfiora l’orecchio. La sente arcuarsi. Il respiro più pesante, scende lungo il collo, le dita, leggere, a liberarlo dalla camicia.
Resta in silenzio, lei. Irrigidita. Le dita, ora immobili, sulle sue spalle.
Si è fermato, lui. “Scusami…” fa per sollevarsi, ma è lei che se lo preme contro, le mani tra i suoi capelli, in un abbraccio disperato.[4]
“Sembra una bella giornata, oggi…” Ha aperto la finestra, e il tepore del sole sembra comunicarsi come una sensazione.
Si è girata appena a guardarlo.
Lui decide di non farci caso. “Ti andrebbe una passeggiata?”
Non risponde. Lo raggiunge, gli si preme contro, di fianco. Fa scivolare il braccio lungo il suo. Intreccia le dita a quelle di lui.
Gli rivolge, in un attimo, quegli occhi azzurri addosso. Poi, in silenzio, abbassa lo sguardo.
Sa che dovrebbe parlargli e non imporgli un silenzio che per lui, ora, può essere difficile da interpretare. Ma è come se non ne avesse la forza.
Non è che le cose le sembrino diverse. E neanche che lo siano.
È soltanto che sente addosso un peso che la schiaccia, come a comprimerle ogni sprazzo di ripresa. Ogni speranza di poter tornare a guardare le cose con qualcosa di simile alla serenità. A dimostrarle che, qualunque cosa faccia, è inutile.
Prova come un senso di perdita. Di smarrimento totale. Qualcosa di simile al dolore. Non l’avrebbe mai immaginato, riflette.
Serra più forte la mano di André, che le cammina accanto. Loro due, in mezzo alla gente. Soli.
Le fa male camminare e guardare a quegli stessi luoghi in cui, poco tempo prima, era stata. Ed era diversa. Ricordare cosa aveva fatto, chi aveva incrociato. Il negozio in cui era entrata, colta da un’ispirazione improvvisa, e aveva comprato dei libri e un nastro per lui. E ricordare la sensazione di appagamento che aveva provato, dopo, uscendo col pacchetto, immaginando la sorpresa di lui, e, nella mano, l’altro piccolo regalo, quel quaderno per gli appunti, disegni, se le vorrà dettare qualche ricetta, e lei la trascriverà, chissà, magari poi lo passeranno a loro figlio, come una delle poche “cose di famiglia”, loro che si sono lasciati tutto alle spalle. Loro che sono soli. E a volte è un bene poterlo essere. Perché significa anche essere liberi.
Ricorda tutto. Sarebbe in grado di catalogare ogni sfumatura, sensazione, di quel giorno. E gela.
Gli occhi le si riempiono di lacrime. Gira il viso, sperando che i capelli la celino. Che lui non lo noti.
Ma anche lui sembra avere i suoi fantasmi.
Lo saluta, un commerciante, gioviale. “Come va?” e agita la mano.
Impallidisce, imbarazzato. Non sa come dire, e, nel rispondere “Bene, grazie…”, pensa a quante cose, ogni volta, si nascondano dietro quelle due parole. Cose che non puoi dire, raccontare. Troppo complesse, difficili da spiegare. Tutta una vita, in fondo.
È allora che si accorge del suo tono. Di quella voce che quasi inciampa, nel dire. Di quanto, anche lui, sia rabbuiato. La mano, prima salda, farsi gelata nella sua.
Lo sa, ma è come se venisse a patti solo ora con la consapevolezza che quello è un dolore anche suo. Che quella è una perdita che per lui è forse quasi più terribile che per lei.
Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-agosto 2006, novembre 2007, gennaio, febbraio 2008, Pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2008.
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