Alternate BK's Night
Parte XI
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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.
Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.
Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.
Non ricorda molto.
Non ricorda quasi niente, se non dolore. Un dolore immane. Sorpresa. Prima ancora che il senso di tradimento. Prima ancora della reazione di autodifesa.
Ricorda quel dolore immenso, e le lacrime di lui, che le rigavano il viso.[1]
Si sente stranita. In un nascere improvviso di immagini, voci, nella mente, che non ricorda, sente di aver visto, ritrova, ma sono perdute. Come quelle sensazioni di essere già stati in un luogo, di aver vissuto quella situazione. Ma quegli scampoli di scene, lo sa, non sono mai stati. Sono come sogni troppo realistici. Ricorda quasi quando li ha trovati nella sua mente. Il dolore. Il delirio.
Non riesce a dormire. E non sa che, la notte, non dorme neppure lui. Mentre la tiene abbracciata. Nonostante la stanchezza.
Non ha idea di come si senta, non sa che ogni notte rivede tutto. E gli sembra di impazzire.
E vorrebbe trovare un senso. Magari aver ucciso il generale. Vorrebbe non aver visto quello che invece si vede passare davanti agli occhi. O vorrebbe poter dimenticare.
Non glielo dice. Non sa cosa lei ricordi. E aspetta che sia lei a parlargliene.
Non glielo dice perché non vuole farle altro male. E più male ancora, caricando la sua rabbia.
Dimenticare è un modo per tenere lontano il fantasma. Per impedire a quel pazzo di fare loro altro male. Non parlargliene è il suo modo di difenderla. Non è una negazione, è un allontanamento. È un voler evitare che li insozzi di nuovo con la sua follia.
E allora si forza a tenerla stretta, la notte. A domandarle cosa desidera mangiare, il giorno. A portarle libri, e a farla alzare, per forza. A distrarla con questioni inutili, per non lasciarla in quel baratro.
Ma si sente male. Male da morire. Perché lui ha visto. E tutto torna davanti agli occhi della mente. E la mente ricostruisce nitido. Non sfocato, come lui vede. Tutto ritorna. Quando meno se lo aspetta. quando pensa di aver trovato un attimo di requie.
Non riesce neanche a mangiare. Si forza, perché deve tirare avanti anche per lei. Ma il cibo nel piatto gli dà la nausea, dopo quello che ha dovuto vedere.
Ha detto qualcosa, l’altra sera. Poche parole. Scarne. Imbarazzate.
“Era come… se volesse distruggermi…” Non riusciva neppure a far suonare la voce.
E lui non sapeva come affrontarla. Come rassicurarla. Perché, in realtà, non riusciva a capire fino in fondo dove la straziasse più la perdita, e se più di sé o della situazione che aveva faticosamente accettato, poi, della speranza che avevano condiviso, o la delusione che temeva di aver inflitto a lui, o la distruzione sul suo corpo, operata dal padre, o quell’infinito e finale tradimento, da parte del padre.
Oscar era una persona complessa. Non meritava una risposta banale.
Se davvero, da prima, l’avesse voluto, avrebbe potuto confortarla, dire “Ne faremo un altro”. Perché quella era la realtà. Che in qualche modo bisognava tirare avanti e superare il dolore. Ma non era così, e le ferite erano ancora peggiori, molteplici. Aperte.
Cammina nelle distanze che prima non conosceva, e gli sembravano infinite. Un’infinita scoperta di cosa sarebbe stato al prossimo scorcio, all’angolo successivo. Pietre diverse, un portone. Quando sono andati ad abitare lì la sensazione di novità nel percorrere quei luoghi non l’ha abbandonato a lungo. Ora, gli sembra che il tempo sia improvvisamente trascorso, come divorato, e così quelle distanze, si sono accorciate, nel saperle ritrovare, ogni volta.
Ogni volta lasciar scorrere, piano, nei suoi gesti pacati, la mano lungo le crepe del muro. Non finire di stupirsi di un tocco caldo che preme lungo il mantello. Esserne, comunque, grato, nonostante il peso addosso. Un peso che grava sul collo. Sulle spalle. Che sfianca. Un macigno che abbatte e toglie ogni singola forza, ogni singola energia. Ma André è resistente, e non consente che quello che è accaduto – peggio, che qualcuno ha scelto per loro – lo vinca. C’è gente fastidiosa, che ti incalza con levità e intanto ti ferisce, e lui ha imparato a non considerarli, a continuare per la sua strada. C’è chi si nutre del male fatto ad altri, e lui se ne difende.[2]
Lascia accostata la porta.
Giusto un po’ di brodo.
Gliel’ha poggiato accanto al letto.
Lo ha fatto lui, con amore. E pena. Rosalie gli ha spiegato come. E lui prova quasi un sollievo, ad occuparsi di queste piccole cose che possono essere utili a lei, gli piace prendersi cura di lei anche in questo. A doversi per forza distrarre nelle questioni quotidiane, perché bisogna comunque mandare avanti una casa, occuparsi di lei. E pensare che lei, che ami, deve mangiare, sperare che migliori, che torni come prima – anche se non sai quale sia il prima –, può essere la ragione che ti spinge ad andare avanti. A non mollare. Senza porsi altre domande. E il ragionare su cosa prepararle, cosa possa piacerle, è un’altra cosa che costringe a staccare dai pensieri bui. E così, cerca di cucinare cose leggere, ma che le restituiscano un po’ le forze e che possano piacerle. Che, almeno, abbia uno stimolo in questo.
In silenzio, senza sapere bene che fare, torna di là. Uno sguardo desolato ad Alain, seduto al tavolo.
Un cenno di domanda.
Scuote la testa. “Niente… non ne vuole neanche parlare…”
Si passa una mano tra i capelli, Alain. Sospira. “Quello è un pazzo… abbiamo controllato, nei giorni scorsi si è visto spesso qua attorno…”
“Non deve avvicinarsi… non deve arrivare qui.”
Alza le spalle “No, certo… dobbiamo fare attenzione…”
“A me pare assurdo…”
“Anche a me. Ma se è arrivato a farle quello…”
“L’ha massacrata…” la rivede, scivolare, lenta, contro il muro e, poi, a terra. “Ho temuto di perderla…” ammette, come tra sé. Rivede gli abiti strappati, le braccia senza più forze a cercare di coprirsi e già i lividi si facevano più evidenti. La chiazza densa di sangue. E lui, come un pazzo, che la sovrastava, una belva placata dalla visione della preda. Se non può essere sua, che non sia di nessun altro, sembrava dire. Sfidando l’ardire della figlia, che aveva osato essere di un uomo. Farsi possedere. Generare qualcosa di lui. E negare il suo potere. Di tiranno. Despota. Padrone. Maschio.
“Oscar pensa che io stia male per il bambino. È vero, mi fa stare male… ma non si rende conto della paura che ho avuto che lei morisse…”
Non era quello che volevo, in fondo? Che forse speravo?
Perché sono andata lì, anche se lo temevo?
Perché non mi sono difesa…
Ho lasciato che facesse lui il lavoro sporco…[3]
“è colpa mia…”
L’ha detto, così, mentre le lacrime riprendevano a scorrere.
“È solo colpa mia…”
André, ti prego, ascoltami… aiutami… aiutami…
Si gira, torna da lei. Le bende scivolano sul pavimento.
Le si siede accanto. “No.” L’accarezza, piano.
Ma è un pianto che non ha consolazione. Silenzioso. Che la scuote.
Le solleva il viso.
Lo scosta, brusca. “Lasciami stare…”
“No.” La prende per le spalle. “Guardami.” Le carezza il viso, le scosta piano i capelli.
“Non è stata colpa tua. È stato lui. Lui a farti del male.”[4]
Resta lì, controvoglia. Abbandonata sul letto, senza forze.
Piegata su se stessa, a scrivere accanitamente, fogli sgualciti, le dita sporche d’inchiostro.
Eppure, non vuole stare a letto. Non vuole!
Il dolore è sempre lì. Quella sensazione di tristezza, mista a sconfitta. Ma sente come un’energia, dentro, scorrere flebilmente, come una ribellione che cova, lentamente, impercettibilmente.
È una lotta contro se stessa. Contro ciò che la schiaccia. Contro quella parte di sé che dice basta, lascia andare. C’è qualcosa in lei che vorrebbe vivere, forse. C’è qualcosa in lei che tenta di lottare.
Il letto le pare una prigione. La soffoca.
Con difficoltà, muovendosi piano, come contro un immane peso che la annulla, tenta di muoversi. Le gambe, che paiono opporre resistenza, pesano. Le braccia, paralizzate.
Oscar… guarda… la libertà, le scelte, sono là fuori… e dentro di te…
Oscar, non lasciare che ti facciano questo…
Ma non è facile.
Eppure, vuole riprendere il controllo di se stessa. O, semplicemente, riprendere se stessa. La propria vita. Ciò che è stata, ciò che un giorno sarà.
Si alza, con immenso sforzo.
Ancora malferma, indebolita. Impressionata dal rivedere le sue stesse mani, ora pallidissime, smagrite, le vene azzurre, la fede troppo larga, cercare appoggio sui mobili, il metallo che incontra i piani e risuona, le stesse immagini di pochi giorni prima, ma cambiate. La porta.
Lentamente, come uno spettro, passo dopo passo, si muove per la casa.
Lui è là.
Ha paura di come si sentiranno, ora, l’una rispetto all’altro.
Ha vergogna di tutte le volte che lui l’ha curata, medicata.
Ha paura che si sentirà diversa. E anche lui.
Eppure, lui è là.
E, quando lo vede, e il cuore sobbalza, lo guarda, lo osserva, gli occhi ancora allucinati di febbre, scheletrica, sparuta. Quando lo nota, che sta affettando lentamente, con totale, meticolosa, concentrazione, verdure, i capelli tenuti legati, sulla nuca, dal nastro che gli ha regalato, poi, a scostare quelli che ricadono sul viso, e, in quel gesto, alzare su di lei uno sguardo sorpreso, poi, immediatamente, illuminato. Quel sorriso vivo. Quando la sensazione di calore che emana da lui, e quella sorpresa, negli occhi, la raggiungono, allora, forse, si dice, forse potrà andare avanti. Potranno andare avanti.
Resta lì, abbandonata contro di lui, le braccia che si toccano, le dita intrecciate. Strette.
È confusa. A volte, disperata. Ma cosa farebbe, se non ci fosse lui? Lui è tutto. Tutto, davvero.
Gli si stringe contro, con più forza. Come a volersi confondere in lui.
Ma, forse, quel tutto non basta.
Perché a volte è difficile lasciarsi tutto alle spalle, tornare a vivere. Saperlo fare. Riuscire ad ammettere che è davvero passato, e non aspettarsi il peggio, non anticipare il dolore nell’ansia per il timore di dover soffrire ancora, di essere colpiti di nuovo. Quella pace che era naturale, nelle serate stanche di due persone vicine, quei silenzi, quel lusso di leggere un libro o parlare di niente, ora, non erano più normali e l’angoscia era diventata la compagna del tempo.[5]
“Che cosa voleva, da me?”
Gliel’ha domandato quasi all’improvviso. Ma i pensieri covavano, si contorcevano da tempo. E lei si sentiva come investita e sbattuta contro un muro. Annichilita. Frustrata. Senza più nessuna speranza.
“Perché… perché si è comportato così?” sembra non le importi niente, dal tono, piatto. Eppure un lampo di sguardo, accorato, si è spostato, rapido, a lui.
L’ha guardata. “Non ce l’aveva con te…”
Aggrotta le sopracciglia, pronta a ribattere, stanca.
“Era con quello che rappresentavi per lui, che ce l’aveva…”[6]
Una mattina, si è svegliata con un musetto che le puntava il naso, umido.
Lo ha messo a fuoco, perplessa. Non ha osato muoversi. Poi, piano, l’ha accarezzato. Un bel micione. Le teneva calduccio, mentre la gatta tonda osservava dal basso, curiosa e contrariata, non ha capito se per l’intruso o perché ha svegliato la sua protetta.
“E tu da dove sbuchi…”
Di là, la voce di lui. “Era sul divano stamattina… Don’t ask me…”
“Bello, però…”
“Vero…” Le si è avvicinato, le ha passato la tazza di tea caldo, come illuminato da quella presenza imprevista che sembrava mandata dal cielo a sanare le ferite. Poi, si è sentita male quando ha sentito le dita scivolare sulle sue, entrambe le mani, per non sbagliare la presa. Stamattina, si è detta, vede peggio.
Non parlavamo. Stavamo lì.
Ma mi strinse la mano. Senza guardarmi.
E quel tocco, e quel calore, mi comunicarono un senso di pace.[7]
Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-agosto 2006, novembre 2007, Pubblicazione sul sito Little Corner del novembre 2007.
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