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Alternate BK's Night
Parte X
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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.
Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.
Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.
Il tempo è un signore distratto e un bambino che dorme…
Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano, cosa importa se sono caduto, se sono lontano…
Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole.
Perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole…
F. de André – Hotel Supramonte, in Fabrizio de André (L’indiano), Sony, 1981
Quando nacque, eravamo soli. Non c’era nessun altro. Abbiamo voluto così. Era la nostra vita. Niente cerimonie. Niente pompa.[1]
È arrivata trafelata, sua madre. È rimasta lì, accanto, a carezzarle il viso, l’espressione indecifrabile. Quando lui è rientrato, gli ha stretto il braccio. Poi, come avesse deciso qualcosa, risoluta, si è alzata. E li ha lasciati soli.
“André…”
Si è chinato su di lei, sorpreso, accorato. Le ha stretto la mano. Carezzato i capelli.
“Dov’è… fammi vedere il bambino…” come in un lamento. Voglio tenerlo… come un delirio.
Una stretta al cuore, l’ennesima.
Le passa, dolce, disperato, la mano sul viso. “Dopo, amore… ora sei stanca…”[2]
È in uno stato di dormiveglia. Non è ancora riuscito a dirglielo. Ma, forse, lei ha capito.
Quando, lo sguardo appannato, si è guardata, come allucinata, e ha intuito, sgomenta, il vuoto, sotto le coperte.
“Io… io lo ricordo…” Ha alzato su di lui due occhi disperati. “Sono stata così male…” Suonano fragili, alterate, le parole.
Lui non sapeva dire.
“L’ho visto… è… è nato… io l’ho visto…” la voce debolissima. Incredula.
Le si è seduto vicino. “Oscar…” La scrutava.
“Dov’è…” Lo cerca, con le braccia. E lui si sente morire.
“Oscar… sarebbe dovuto nascere a ottobre…”
“Dov’è…”
“Ora è giugno…”
“…”
“Dov’è…”
Ha scosso la testa, lui, l’ha abbracciata. Ma non poteva consolarla.[3]
Poi, in silenzio, ha pianto, il viso di lato. A nascondersi anche a lui.
Il silenzio affonda. È solo un comunicarsi le parole del dottore. Non c’è altro da fare. Anche la nonna non sa che dire. E può solo passare un braccio sulle spalle di lui, un gesto discreto, che non la lascia un attimo.
La sfiora con un panno, delicato.
“Come ti senti, amore”, sussurra, piano, sperando che senta almeno il suo conforto.
Ma lei non risponde. Gli occhi sbarrati, lucidi, vorrebbe forse dire ‘come squarciata… lacerata… dentro.’ Non ha più parole. È il suo corpo, così. E sono anche metafore.
La temperatura non scende.[4]
La asciuga, in fretta. Un bacio delicato, una carezza. Le sfiora la mano.
Poi le stringe meglio le fasce che il dottore le ha messo. Perché era quasi al quinto mese e il corpo un po’ cambia, anche se lei era magra. E lei possa tornare come prima… prima quando, si domanda, dilaniato, stringendo il lino tra le dita, una rabbia che a stento trattiene e che gli fa malissimo.
Brucia di febbre.
I piedi corrono senza incertezze. Eppure si scivola, dopo la marea, quando le rocce sono ancora bagnate. Le piace giocare coi figli dei pescatori, raccogliere conchiglie, gamberetti, granchi, riempire il piccolo secchiello che porta con sé.
Il cielo grava, plumbeo, dopo il temporale. Ma si sta bene. Al riparo della scogliera. L’umidità del mare. Spazzata dal vento fresco. Un piccolo paese, mura medioevali. Una cittadina raccolta, vie squadrate. Il camminamento di terra battuta della fortezza a strapiombo sulla costa di roccia. La loro, è una casa in pietra. Chiara. Solida. Gli infissi dipinti di turchese. Al riparo dal vento battente. Una piccola spiaggia, sotto. |
La più grande ha quasi sette anni. E le sembra bellissima.
Si è innamorata di lei, quando l’ha vista la prima volta. Anche se aveva paura. Anche se temeva di non essere capace e le tremavano le mani, e moriva d’ansia, quando la prendeva in braccio. Lei, che non ci aveva mai pensato e allontanava l’idea da sé e dal tempo. Un sorriso, nel seguirne i passi veloci. Le brillano gli occhi, per il gioco, o, forse, pensa, perché ha visto suo padre e lo adora. Sa benissimo, rimugina, perché il cinismo è sempre lì, in agguato, che tra un po’ lotterà per essere indipendente e li chiamerà vegliardi, ma, ora, va bene così. In fondo, il suo primo atto verso il mondo è stato di rivolta, contro la levatrice, che voleva avvolgerle le mani nelle fasce. E lei a piangere, ribellarsi. Poi, hanno capito, e allora hanno detto che no, se loro figlia voleva avere le mani libere, bisognava lasciarle così. Sembra una bambina spensierata, invece, a volte, si rabbuia e si fa pensosa. Passa lunghe ore a disegnare, le ha insegnato lui, tenendola sulle ginocchia, mentre lei pensava che erano bellissimi, il viso di lui accostato al suo, imbronciato nella concentrazione. Eccola, che è volata alle spalle di lui, abbracciandolo, stampandogli un robusto bacio sulla guancia, mentre il secchiello giace dimenticato col suo contenuto, ma non importa, la gatta-nonna, sempre arzilla, si è scoperta un’amante del pesce fresco e gradirà, e, poi, ora hanno anche un gatto-nipote acquisito. E lui, che le serra le dita, saldo, sulle braccia, a trattenerla a sé, sembra un pascià. E le pare più bello, coi capelli lunghi, e tanto amore dentro che lo sguardo, anche ora che è perso del tutto, sembra vivo. Ancora.
Il minore, di un anno e mezzo, è il suo amore. Un André in miniatura, placido, sempre contento, gli occhi intelligenti e le mani, curiose, protese verso il mondo. Era talmente tranquillo che si addormentava in braccio anche quando dovevano dargli il latte, ricorda, raddolcita. È un bambino silenzioso e compunto, ma non gli sfugge niente ed è facile farlo felice. Segue testardo, ammirato, la sorella, che lo tiranneggia, saccente, “Tu sei piccolo, non puoi…”, però poi lo protegge e se lo abbraccia e, quando era più piccolo, giocava con lui come fosse una bambola, i riccioli scuri sulla pelle chiara, delicata, lei a dargli un’infinità di baci, ad annusarlo. Lui prosegue, imperterrito, convinto, nel volerla imitare, e impara velocemente. Col padre è storia a parte: sorride all’immagine dei due ragazzi di casa, il minuscolo che trotterella beato accanto al grande, le mani unite, i lineamenti, i caratteri così simili. Lo guarda con amore, che caracollando la raggiunge, e tra un attimo se lo stringerà in braccio, perché lo adora, e vorrebbe proteggerlo da tutto, vorrebbe potesse conoscere solo la gioia, la serenità, come è ora – e la paura per chi si ama è sempre in agguato, latente. È dura, amare. Difficile, amare senza vincolare. Si domanda, a volte, se esista una misura dell’amore. Se un essere umano possa provarne fino ad un certo livello, poi non più. Eppure, di fronte a lui, è come se sentisse l’immensità, dentro.
Poi, c’è quello in arrivo. Assolutamente inatteso. Che scalcia, pare apprezzare la musica del pianoforte a mezza coda, e forse non vede l’ora di unirsi alla combriccola. Quando gliel’hanno detto, ricorda, ha provato una sensazione di panico. Di smarrimento. Com’era stata la prima volta. E, forse, senza André non ce l’avrebbe fatta. Lui non l’ha presa male. Ha detto, sornione, che in fondo era il numero perfetto e si è messo a cercare qualcos’altro da fare, perché, dice, pagare gli studi di tre ragazzi è più impegnativo. E lei si commuove, a quella dolcezza, a quella determinazione, salda, di proteggerli. Di fare qualcosa per loro. È bravo, lui, se la cava benissimo: all’inizio alla prima le dava tutte vinte, poi ha capito, e ha saputo correggere il tiro senza far sentire la bambina defraudata. E col piccolo è un’intesa perfetta tra uomini. Le dà tranquillità. Può lasciare tutto in mano sua.
E, poi, ora è diverso. Ora niente può più fermarla.
Ora.
Batte, il vento. Sferza. Si scosta i capelli dal viso, lui. Lo sguardo lontano. Ma sereno.
La camicia gli aderisce al corpo e, tra i lacci, lei, che lo sa, ritrova i segni della cicatrice sulla pelle abbronzata. Per fortuna, si dice, in un brivido di ricordo e paura, è vivo.
Sulla tempia, sulla spalla, sulle gambe, porta anche lei le sue cicatrici. Anche dentro, le porta. Le peggiori.
Quando l’hanno saputo, e lui l’ha abbracciata stretta, come a proteggerla da tutto, le labbra tra i capelli, e lei che gli si era abbandonata contro, come persa, hanno sentito che era giunto il momento di andare via.
Che era tempo di partire.[5]
Non ha forze. Le emorragie continue. Non ricorda molto. Sono sprazzi confusi, sensazioni, immagini. E non sa distinguere se fosse la realtà o un sogno. O un incubo.[6] Ricorda quell’abbraccio, forte, che pareva non volesse più lasciarla andare. È stato questo, riemergere alla vita.[7] Dopo il nero. Il tunnel. È stato lui. Era buio, e non sa quanto tempo fosse trascorso realmente, quando André l’ha portata via, lontano, a casa loro. Se la teneva stretta contro, come se servisse a qualcosa. Come per proteggerla. Ma era tardi.
Non sarebbe mai dovuta uscire, da lì. Non se ne sarebbe dovuta allontanare, è come una litania febbrile di parole, febbre, istinto.
Lo guarda, che si scambia cenni d’intesa con la figlia. I visi accostati.
Adora stare in braccio, lei. È molto affettuosa, la sorprende questa fisicità dei sentimenti.
“No… diglielo tu…”, e abbassa lo sguardo di vergogna, intimidita, come a nascondersi, e scuote i riccioli.
Poggia le tazze. “Cosa state combinando, voi due…”, si avvicina, e i capelli lo sfiorano, le mani sulle loro spalle.
Lo inchioda, la piccola. “Te lo dice lui…” e si nasconde abbracciata al collo di lui.
“No… niente… dopo…” glissa il malcapitato complice senior. “Avanti, è ora di andare a dormire…” e, portandola in braccio, si eclissa.
È un po’, riflette, che lui la sfiora con passione diversa, le passa accanto, lascia baci sul collo, scostando piano i capelli, respiri più arditi, l’espressione lontana, come persa.
È da qualche tempo che le si preme addosso con più trasporto, le mani a delinearla, in ogni occasione. Privata, s’intende.
E indugia in lei, insistente, caldo, a provocarla, proteggendosi solo all’ultimo momento. Perché lei, implacabile, glielo ricorda.
Sorride, Oscar, e teme di riconoscere il potere seduttivo del maschio in calore, ma è pronta a rintuzzare ogni assalto.
L’avvolge, con le mani.
Adora sentire la sua pelle. I muscoli delineati, le spalle definite. Indugiare sui suoi fianchi, magri, e percorrerla. Scoprirla, nuda, tra le lenzuola. Provocarla.
Le labbra a giocare col suo seno. Solleva il viso su di lei, all’improvviso.
Come se volesse dirle qualcosa.
“…”
Teme di sapere cosa vuole. E non ha voglia di sentirselo chiedere. Ogni volta, svia il discorso. Preferirebbe lui continuasse in ciò che stava facendo… non era male, pensa, scornata. Se lui potesse vederla, noterebbe lo sguardo con cui lo implora di tacere. Di non dire.
Ma non vede. Sente il respiro sospeso. I nervi tendersi. Poi, cedere.
“Dimmi amore…”, scrutandolo in viso. Le mani ancora tra i suoi capelli. L’istinto di premerselo contro.
“Non pensi mai ad un altro figlio…” Caldo. Insinuante.
Così, diretta! E con quella voce…
“No.” Cercando di non suonare troppo infastidita, netta. Se non ci pensa, non è una colpa. Se dice un’altra parola, sono spacciata, annota.
“Perché…” quasi deluso. Oddio, ancora quella voce…
“Sono troppo vecchia. Non me la sento, lo sai…”
“Ma il tuo ciclo è regolarissimo.” Obiezione valida.
“Non stiamo bene così? Non ti impegna già abbastanza una? Quasi non ci resta tempo per noi…” Scopiamo così poco, vorrebbe dirgli.
Le toglie di dosso quello sguardo, che pare vivo. Le labbra sul suo seno. Ancora. E mani. Mani che vedono tutto di lei. Attente. “A me piacerebbe… e poi ormai è grandicella…”
“Era di questo che parlavate, prima?” Gli si preme contro. Le piace il modo in cui il suo corpo, le sue mani, la scrutano, sembrano memorizzare tutto di lei.
Annuisce. Mentre le dita indugiano. Seno. Ombelico. Il ventre teso in un brivido.
“Gliel’hai detto tu?”
“No.” Scorrendo su di lei.
Strano, riflette. “Come le è venuto in mente?”
“Non lo so… forse vedendo gli altri… non lo so…” Dentro. Lentamente.
“E tu, che le hai risposto?” Certo che la bambina è incredibile…
Le sorride. “Che dovevo parlarne con te.” Ma il movimento si fa più insistente. Sapiente.
“Perché lo vorresti?” Certo che così è un po’ difficile resistere… mentre pensa solo che ne vorrebbe ancora, ancora, ancora…
“Forse…” ma poi si perde in lei.
Lo richiama in un gesto. “Parla…”
“Forse è perché ho nostalgia…”
“…”
“… di quando lei era piccola. Dei giochi. Di quando la cullavamo…”
Lei sorride.
“… di te che te la stringevi contro.” La percorre. Il respiro più profondo. “Perché è stato bello… perché ricordo com’eri e vorrei provarlo ancora…” Disarmante. Avvolgente. Eccitante.
“E delle veglie notturne?” Questo è poco eccitante, riflette.
“Anche”, se la ride. “Mi piaceva, quando pensavo che poi mi ti sarei fatta…”
“Fatemi dormire… pensavo solo fatemi dormire”, implora, tra il comico e il disperato. Lo ricorda benissimo. Lui che le saltava letteralmente addosso tra le coperte, le premeva le mani addosso, ovunque, la voleva. Infinitamente. Ricorda anche che non si reggeva in piedi dalla stanchezza e letteralmente cascava dal sonno. Ma questa è un’altra storia… Poi, più seria: “Non hai paura?”
“Sì…” Risale su di lei. “Infatti è un po’ che ci penso, ma non te ne ho parlato subito…”
“E non pensi che sarebbe molto impegnativo?” La voce suona come rattristata. “Io già così non ce la faccio… sono stanca da morire…”
Le carezza il viso. Un bacio, leggero. È come se davvero la guardasse negli occhi. A volte quasi non riesce a credere sia cieco. “Lo so… è per questo che…”
“Però continui a pensarci…” Un gesto d’affetto, sul naso. Dio, che belle ciglia… il dito a delineargli le labbra. E che bel mento.
Sei così bello…
“Sì.”
Sei così bello…
La bambina, ricorda, era stata una sfida. Una provocazione ad esistere di André. E lei, impaurita, e insieme coinvolta, da lui, a rivivere, ancora, qualcosa che la spaventava. Che l’aveva annientata. Lui, che voleva lei vivesse. Lui, che non voleva lasciarla andare. Aveva ricordi soffusi, disperati, dolci. L’idea di qualcosa di fragile, che poteva spezzarsi al minimo tocco.
Ricorda l’imbarazzo, quando aveva dichiarato che voleva assistere alla nascita. E lei aveva protestato: “Non scherziamo! Non voglio che tu mi veda così! È un fatto privato!!”
“Non guardo…”
“Non voglio che tu mi senta urlare…”
“Farò finta di non sentire…”
“Mi sento un mostro…” aveva tentato un’ultima protesta.
Poi, lui si era fatto serio. “Oscar…” L’aveva fissata, intenso. Forse avrebbe preferito non parlare. “Voglio vederlo nascere. Ti prego.” Avrebbe voluto dire ‘voglio vederlo vivere’. E lei aveva capito.
E l’emozione di averla, viva, appena nata. Di poterla abbracciare. Sentirla muoversi, respirare.
Aveva perso la vista poco dopo. Prima, avevano combattuto assieme. Per la libertà. Perché loro figlia potesse vivere in un mondo migliore.
“Ho paura…” confessa.
“Di nuovo?” La prende in giro.
“Ho paura”, ripete, seria.
È come se la fissasse negli occhi. “No… non avere paura… lo faremo insieme…”
Non costringermi…
Non farlo…
È come se ricambiasse quello sguardo cieco. “…”
“Qualcosa da te e da me…”
Lo guarda, spaventata.
“Sei così bella…” La sfiora. “Tornerai presto in forma…” Il viso tra i suoi capelli.
Fosse tutto così semplice… “Se sono in forma, è perché faccio attenzione ed esercizio…” Scorata.
“Ti aiuterò a farne di più…” sornione. “Potrebbe essere divertente… Oscar…”, riprende, poi, serio, “per me tu sei bellissima… davvero.”
Ma non mi vedi, riflette lei.
“So cosa pensi… ma io ti sento, so come sei.” La percorre con le mani. “E sei davvero bella. Davvero.” Accorato. “Tu mi piaci, da impazzire. Ma, al di là di questo, sei bella. Bella come non immagini.”
Sospira. “E diventerò orrenda…”
“No, sarai bellissima. Solo bellissima.” La mano, calda. Sul ventre.
Le labbra sulle sue. “Meravigliosa…” Le dita, in lei.
Le bacia il ventre. Sente i capelli su di sé. Le labbra di lui. E un brivido.
“Voglio esserti dentro.”
“Ti prego… lascia che ti stia dentro…”
E, dopo, l’aveva fatto senza più dirglielo.
Poi, era successo. Non subito, ricorda. “Ammetti che sono troppo vecchia?” lo canzonava, quando le tornavano. E lui alzava le spalle e, ridendo, rispondeva “Riproveremo…”
E quando era nato il piccolino, si era resa conto che per André era stata come una liberazione da un incubo lontano. L’aveva tenuto stretto a sé, a lungo. E non era orgoglio per il figlio maschio. No.
L’aveva visto, piano, con le dita, con la paura di fargli male. “Dimmi com’è”, le aveva domandato, poi.
Poi, c’era stato l’imprevisto. Quelle nausee improvvise, che non aveva mai avuto. E loro due, increduli. Lei, spaventata, perché era una responsabilità troppo grossa, tre.
La sera che l’avevano detto ai bambini, la ricorda ancora.
Lo scoramento che aveva provato, rientrando, e ritrovando il soggiorno sottosopra, giochi ovunque. I bambini, totalmente fuori controllo. ‘Come faremo?’, si era domandata. E lui, che era accorso, quasi a scusarsi “Scusa, avevo da…” e non aveva finito la frase, era inciampato in quella marea di oggetti, cadendo, urtando contro una sedia.
Subito, gli si era fatta accanto. “Stai bene?” E mentre lo aiutava ad alzarsi, mentre la pena per lui, per quella condizione, montava, aveva alzato la voce: “Quante volte vi ho detto di non lasciare le vostre cose in giro?” I bambini erano attoniti. “Lo sapete, papà può farsi male!” E si era scatenato un putiferio incredibile, le due pesti ad urlare a squarciagola, “Sei cattiva!”, l’aveva accusata la maggiore. E André a cercare di calmarli “Su, la mamma è molto stanca…”
Poi, l’aveva raggiunta in camera. “Non sono stanca”, l’aveva apostrofato. “è che hanno una stanza apposta per i giochi e sanno di non doverli portare di là.” Gli aveva scostato i capelli, in un gesto stanco. Un livido. “Sei un po’ ammaccato…”, dispiaciuta per lui. E una carezza.
L’ha presa per le spalle. “Scusami, è colpa mia… Ho detto io di giocare in soggiorno, perché avevo un po’ da fare e così potevo controllarli meglio…”
Gli aveva sorriso. “Come fai? Tra fare attenzione a loro e concentrarti…” sa che ascolta i rumori, le voci. Pare i due adorino lanciare oggetti contro il pavimento. Si domanda come resista, tutto il giorno, senza un mal di testa perenne che lo assilli.
Aveva alzato le spalle. Non aveva importanza, in fondo. Le aveva preso la mano. “Ora vieni”, le aveva detto con dolcezza, “sarà meglio spiegare perché sei stanca…” E lei, riluttante, che lo tratteneva. In fondo, non si era mai abituata.
Era andata così, quella sera. Lei, rossa di imbarazzo e ancora dispiaciuta per aver alzato la voce e per lui, che meritava più attenzione. I bambini, perplessi, e André che, impacciato, aveva esordito: “Bambini, la mamma è molto stanca… perché presto avrete un altro fratellino…” Lei si era schiarita la voce. “O sorellina…” si era affrettato a rettificare. Non poteva vederla, ma avrebbe giurato di avere uno sguardo killer puntato addosso. Gli pareva di sentirlo, quasi, sulla giugulare.
“Siete contenti?”
Era stata un’esplosione di gioia. “Mamma, che bello! Mi fai un altro bambino!!” Aveva esordito la piccola, saltando ad abbracciarla. E lei si era domandata perché solo a lei le cose parevano complicate.
Ma la cosa più assurda era stato il piccolo. “E papà non ce lo fa?”
“No”, aveva risposto, trucida, lei: “Papà ha già dato!” Lanciando un’occhiata furiosa al colpevole del misfatto.
“I bambini li fanno le mamme”, aveva spiegato, compita, la sorella. “Io lo ricordo, quando sei nato tu”, aveva detto, una punta d’orgoglio. E lui l’aveva guardata, come si guarda la luce, incassando e incamerando la preziosa informazione.
“Questo”, aveva detto la sorella, “lo terrai tu. Io ho tenuto te…” Poi, era tornata da Oscar. “Mi fai sentire?” Aveva accostato il viso al grembo. L’aveva cinta con le braccia. “Fra quanto arriva?”
L’aveva guardata, un’ombra di tristezza, mentre la accoglieva in un abbraccio. C’era davvero qualcosa di sbagliato, in lei, a non condividere quell’entusiasmo? Sua figlia era così naturale… E lei, incredibilmente, aveva capito. Le si era stretta contro, e le aveva detto: “Mamma, ti aiutiamo noi. Non avere paura…”[8]
La febbre è scesa, finalmente. Quanto tempo è passato, si domanda.[9]
Sta lì da giorni. Incredula. Stravolta. Rannicchiata contro il muro. Gelata. Anche se comincia a fare caldo.
Il dolore è un po’ passato. Anche se si sente ancora tagliata in due. È il dolore dentro, che non se ne va.
È confusa. Stranita. I sentimenti, i piani temporali, le speranze, le paure, la tristezza, il rimpianto, la rabbia, il dolore, la proiezione, verso il passato e verso il futuro, i ricordi, le immagini, si confondono. E sente come una nostalgia, dentro. Dolore e nostalgia. Di quegli strani sogni che le hanno riempito la mente, nella febbre, nel delirio.[10]
Non si sente più lei…[11] Non sa dove sia stata. Non sa che pensare.
Se in fondo è essersi liberata di un peso. Se è aver perso qualcosa.
Se è stato qualcosa, che le è sfuggito, impercettibilmente, di mano, o se, invece, qualcosa che sarà, un domani e stia a lei farlo accadere.
Sa solo che non l’ha deciso lei. E neanche voluto.
Sa solo che non è giusto. Non così. Non imposto.
Riesce solo a piangere, un po’. Quando lui le va vicino. E la stringe a sé.
Quando la lascia ai suoi silenzi e non la costringe a parlare. Quando le appoggia il viso sulla spalla, e respira piano, sospeso, accanto a lei, tenendola abbracciata.
Quando gli legge lo smarrimento che, per pochi istanti, non è riuscito a nasconderle, e allora si rende conto di quanto soffra, anche lui, e vorrebbe tendergli una mano. Ma resta lì. Sola. Bloccata.
A domandarsi cosa sia stato delle loro serate di pace e quasi noia. Delle notti di respiri e abbracci. Se quella distanza, quei silenzi, scaveranno una voragine. Se non sapranno trovare il modo di cercarsi, ancora.[12]
André è più abituato di lei a subire. Più di lei riesce a farsi una ragione. Resiste, vive, cocciuto, testardo, fastidioso sasso negli ingranaggi dei progetti altrui. Non alza la voce, sopravvive pacato. Tiene il dolore dentro di sé, e sostiene la sua sfida. Il fatto stesso di continuare a stare con lei, di non aver ceduto, di affrontare ogni giorno, sembra per lui naturale, e spiazzante per quelli come il generale. Lui vive, e se ne frega di loro. I detrattori. I malvagi. Ne è sfiorato, e resiste. André è una forza, e Oscar lo ama anche per questo.
Anche se ora sembrano sbaragliati dalla tempesta, e a volte si scambiano sguardi muti, attoniti, come due naufraghi infreddoliti. Anche se quel dolore li avvolge, e rischia di far loro del male più dei fatti.
André si porta tutto dentro. Vorrebbe parlarle, ma non trova il modo e si domanda se serva. Se non sia meglio un abbraccio, un pasto caldo, sederle accanto in silenzio, passarle un libro. Cucinare lo distrae. Pulire, riordinare. Accudirla. Questo lo aiuta, anche se non sa se aiuti realmente lei.
André non dorme la notte. Incubi, vuoto, insonnia.
Macina pensieri che poi, col giorno, silenzia.
Ma va avanti.[13]
André sente che gli hanno rubato qualcosa. Che lo hanno violato. E prova rabbia. Ma, più ancora, percepisce che un dolore infinitamente maggiore vive Oscar. Che quei gesti hanno colpito molto più profondamente lei. Suo il corpo, suo il padre, suoi quei pensieri che hanno dovuto, a mano a mano, fare i conti con il feto, adattarsi, accettarlo, poi, perderlo.
André vorrebbe cancellare tutto e superarlo, e portarla via e saperla salvare. Ma non ha niente se non se stesso e quell’amore, e si sente impotente. Non ha potuto o saputo proteggerla, non ha previsto, si è fidato, e questo lo distrugge. E resiste solo perché sa che se lui non restasse saldo, lei si sentirebbe peggio.
Anche se è difficile, ogni attimo. E a volte lei lo rifiuta.[14]
“Lasciami stare!” urla.
“Amore, ti prego…” dovrebbe cambiarle le bende. O, almeno, che lo faccia lei.
“Non mi toccare!” ha gridato, quando le ha avvicinato le mani al corpo.
“Va… va bene…” sconfitto. Mortificato. “Le lascio qui… fai tu…”
Non risponde. Abbassa gli occhi. Non ha più parole.
Poi, all’improvviso, nel pianto “Che cosa mi ha fatto????” ha cominciato a strapparsi di dosso la camicia, il lino. Con gesti convulsi. “Che cosa mi ha fatto!!!!”
Poi, si vede. Le stoffe che l’avvolgono. Il sangue sui tamponi.
Non ha più nessuna voce. “No… no…” non riesce neanche a parlare. Neanche a respirare. Le mani a mezz’aria, senza il coraggio di toccarsi. “Noooooo!!!!!!!!!!” Senza riuscire a gridare. Si copre gli occhi con le mani. “No…”
“…”
“Io lo ricordo… io lo ricordo che era nato…”
E riesce solo a stringerla tra le braccia, mentre lei lo tempesta di colpi, di graffi. Quelli che non ha potuto infliggere prima. Quelli con cui non si è potuta difendere.
Quasi non respira. Non parla. Non ha più voce. Né quelle poche forze.
Resta lì, a cullarla tra le braccia. A nasconderle il suo pianto.
La tiene per mano. È così stanca.
Oggi, passeggiamo lungo la riva.
È quasi un vortice, quel grido di gabbiani che planano attorno a loro. Risuona. Avvolge.
L’acqua grigia. Il cielo come una cappa. Nuvole dense ad incombere.
E loro.
È, quello, il tenersi per mano, un gesto di lei e André. Forse, sorride, qualcosa del loro affetto davvero hanno trasmesso… qualcosa di loro due.
È molto protettiva, la bambina. Ha attenzioni, verso di lei, un modo di guardarla, curarla, che la sorprendono. Ogni volta. Forse, riflette, è che è cresciuta assieme a lei. Lei che non sapeva neppure da che parte cominciare, e che a volte la guardava, come a cercare sostegno. Lei, terrorizzata dal poterle fare del male, ed erano così fragili, tutte e due. Che si vergognava di uscire con lei, appena nata, e allora toccava a lui, che la prendeva in braccio, un misto di orgoglio e tenerezza, e provvedeva, prendendola in giro. “Tanto”, le diceva, “se vedono me, di chi altri penseranno che possa essere?” E lei a fulminarlo, con torve occhiate furibonde, e soffocando la scomoda domanda “Che ne so io quali territori vai ad irrigare, idiota di un Grandier?”
Apre gli occhi.
E sente che le ultime immagini, le sensazioni, le sfuggono. Vorrebbe toccare un ultimo lembo di quelle storie che l’oblio le racconta, invece spariscono.
Ancora qualche secondo di quiete, conosce i tempi. Poi, tutto torna. E si allontana il resto. Lasciato andare con un senso di perdita e rammarico.
Risvegliarsi è come riemergere ai ricordi, alle sensazioni dopo aver dimenticato tutto. Lentamente, la coscienza affiora, e si stupisce di essere riuscita a dormire, come senza sogni. È come un limbo, senza ricordi. Ma è giusto un attimo.
Poi, quel dolore che la spezza.
Il dolore, come una morte, dentro.
E vede lui, lì, accanto a lei, smagrito, i capelli legati, la barba di qualche giorno, gli occhi troppo lucidi.
È un attimo. Chissà come dev’essersi sentito, lui che lo voleva, lui che, forse più di lei, si è visto strappare tutto. E preso in mezzo tra lei e suo padre. Povero amore… La miseria che sente dentro, ora, è niente rispetto all’abisso che riesce a provare per lui. È come se le torcessero il cuore, lentamente, implacabilmente. Allunga una mano. E si sorprende di vederla così diafana, pallida. Gli sfiora la guancia, e sente quanto è smagrito. Non sa nemmeno dire quanto tempo sia trascorso… Si riscuote, lui.
“Come… come ti senti”, La voce roca, le si fa più vicino, piano, come avesse paura di farle del male.
“Mi dispiace…” mentre cerca di tirarsi su. “Mi dispiace… ci tenevi così… tanto…”
E allora lui la abbraccia, forte, stretta, senza lasciarla finire “No, ti prego… no…” poi, le dice piano, “L’importante è che sei viva…”
Ma è lei a circondargli il viso con le mani. A proteggerlo contro di sé.
Ad asciugargli, lenta, le lacrime di quel dolore.
Grazie ad Assunta ed a Luana per il proof-reading 2006 e a Luana per il re-reading. ^_^;
Laura, autunno-inverno 2005, gennaio-agosto 2006, revisione marzo-maggio 2007, Pubblicazione sul sito Little Corner del maggio 2007.
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Continua...
Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] 30-8-06 trascritto e completato 17-10-06.
[2] 4-8-06.
[3] 4-8-06.
[4] 4-8-06.
[5] 4-8-06.
[6] 4-8-06.
[7] 2-8-06.
[8] 5-8-06.
[9] 5-8-06.
[10] Qui devo ringraziare Mrs. Kodemari, perché è stata lei nel febbraio 2007 a trovare la parola “nostalgia” per le immagini che evocavo nel corsivo di questo episodio. Un ringraziamento affettuoso, quindi.
[11] 4-8-06.
[12] Da sms marzo 2007.
[13] 27-3-2007.
[14] 2-5-07.