Alternate BK's Night

 Parte I

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Nota: L’idea di questo racconto ce l’ho da quando, nell’autunno 1999, iniziai BK’s Night. Doveva trattarsi di uno spin-off da una frase pronunciata da André a p. 4 del mio file, al suo risveglio dopo il ferimento.

Quando ho ripreso in mano l’idea per scriverlo effettivamente, ho deciso di associarlo ad altre due suggestioni che avevo, anch’esse, in mente da anni, una cronologicamente collegata all’epoca in cui si svolge BK, l’altra ad un periodo successivo. Questa associazione ha comportato che, per far collimare le tre idee, io abbia dovuto spostare la scena che derivava dal BK originario all’anno successivo, poco prima della rivolta Réveillon.

Si tratta di un racconto che, comunque, riprende alcuni temi che mi interessano. Preferisco non anticiparli, se non quello, appunto, dei problemi che incontra André dopo il ferimento da parte del Cavaliere nero, e che si incarna nel titolo.

 

 

La piazza d’armi si inonda del sole, in questa mattina tiepida. Un volo di piccioni la sorprende. Gira lo sguardo, a seguirli. Poi, un capogiro, il buio.

Sente solo un ronzio sempre più forte, alla nuca, e, prima di sprofondare, il freddo delle pietre addosso.

 

E’ Alain a trovare quella sagoma informe, pare così piccola, ora.

La gira. “Comandante!”

La appoggia a sé. “Comandante Oscar!”

La guarda come trasfigurata in quel pallore. La morte, l’ha già vista.

 

André corre, il cuore in gola.

“Oscar sta male”, è venuto a dirgli Alain, “l’ho portata in infermeria!”

E, così, ora, è con lui davanti a quella porta chiusa, e porta al viso teso le dita gelate della paura di perderla. Nella penombra del corridoio in pietra, Alain gli è accanto, appena colpito da un raggio di sole.

Il tempo sembra senza misura in quegli attimi. André, la mascella serrata, quasi non riesce a respirare e vorrebbe non essere mai nato.

Alain lo osserva, impotente, e sente anche lui un disagio inammissibile al cuore.

 

Rumore di passi, dall’interno. Il respiro sospeso.

La maniglia.

L’espressione del dottore è indecifrabile. “C’è un parente… qualcuno…”

Si fa avanti. “Sì, sono io…” e sente la voce che gli trema.

 

Si richiude la porta alle spalle.

C’è un lettino, Oscar è lì, André fatica a metterla a fuoco, ma lo intuisce che è pallidissima. Ancora svenuta.

“Dottore… come sta…” Le si avvicina. Le cerca la mano sotto le coperte. La trova fredda, inerme.

“Ha uno stato di debolezza generale…” si sofferma a guardarlo. “Ma non dovrebbe essere preoccupante, dato che è incinta…” Già, riflette, dev’essere quella strana donna che fa il militare con Patente sovrana, fingendosi un uomo, si dice… Preferirebbe non essercisi imbattuto. Un caso come questo normalmente andrebbe denunciato all’autorità militare, ma lei ha il permesso del re…

Lo sguardo di stupore e come felicità che si dipinge sul viso di André incontra quello interrogativo del medico. “Non lo sapeva? Direi da più di due mesi…” E lui, dev’essere…

André guarda la sua Oscar con occhi diversi, ora, come raddolciti. Le accarezza i capelli, intenerito.

“No… noi non…” Non sa che dire, è imbarazzato, preoccupato, felice, sorpreso e nemmeno ringrazia il medico militare che si allontana.

 

Resta lì, accanto a lei. Quando si sarà svegliata insisterà per portarla dal dottor Lassonne, che la conosce da sempre, e che li rassicurerà. Sperando che non tradisca la sua vista annebbiata. Ora, però, si sorprende a guardarla con meraviglia, come un bambino che ammiri qualcosa, le dita incrociate sotto il mento, l’espressione tra il beato, l’incredulo e il lievemente idiota dei futuri padri a sorpresa…

Ma quando diavolo… ci sono stati così attenti… E come farà a dirglielo? Quale sarà il modo che la farà sentire meno a disagio? Meno sola di fronte alla situazione? Meno spaventata… il modo giusto per dirlo a lei, così diversa… E’ un privilegio e insieme un incubo, dover essere lui a dirglielo. Oscar lo fulminerà, lo sa… lei che è così attenta a queste cose… lei che rischia in proprio, perché il problema non è mai stato lui, ma lei, suo padre, la loro unione, il suo incarico, e la sua paura. Chissà come la prenderà… lui su se stesso dubbi forse non ne ha, ma Oscar è così complessa, a volte, da spaventarlo.

“Oscar…”, prova a chiamarla, lieve.

Ma si pente subito. Se ora riposa, se ora può concederle ancora gli ultimi istanti di pace, prima di una notizia che, conoscendola, le porterà paura e ansia, allora, forse è meglio lasciarla in quel limbo.

 

Bussano.

E’ Alain. E mentre lo guarda avvicinarsi, sposta lo sguardo su di lei e si chiede se anche Alain, ora, possa vedere quella lieve curva che lui immagina, sotto le coperte, e si emoziona e trema, perché non sa come la prenderà lei. E, oltre lei, quelli che rappresentano il mondo attorno a loro, maxime il generale. Che non sarà certo entusiasta di diventare nonno in quel modo, dal servo traditore, e che, per bene che possa finire, pretenderebbe di crescere un figlio loro come cosa sua. Per bene che possa finire… un'altra vittima nel suo folle ingranaggio.

“Allora…” gli posa una mano sulla spalla, in una stretta piena di calore.

“Niente, un po’ di stanchezza…” ma ha lo sguardo troppo lucido, e Alain lo nota. Un sorriso sornione. Forse la vede anche lui, ora, quella curva leggera, in quello sguardo scettico, triste, ammirato.

Gli prende le spalle, gli spiffera all’orecchio “Fammi sapere a quando, il lieto evento” e poi se ne va, imbarazzato e guascone, aggiungendo: “Ci tengo, sai?”

 

Non ha voglia di restare in caserma, oggi. Se Diane fosse viva, correrebbe da lei a spifferarle i casini del nuovo comandante, che donna! Ma Diane non c’è. E non c’è neanche la sua tomba, che ha voluto lontana, forse per darle quella libertà che lì nessuno le ha mai concesso.

La vita è dura in modi diversi, a volte. Per Diane e per lui è stata privazione di mezzi, stenti, passi difficili contro ostacoli reali. Per Oscar dev’essere stata un’estrema solitudine, una maschera di orgoglio e tristezza in una vita diversa e piena di barriere non dette.

Certo, se fanno un figlio quei due, non osa pensare come diavolo si arrangeranno. Non ce li vede proprio, soprattutto lei. Sorride. Poi torna serio. E se li lasceranno vivere. Perché nel suo mondo in figlio può essere un peso, una bocca da sfamare, un problema. Ma ha l’impressione che nel mondo di Oscar – nel particolare mondo che consente quella sua strana finzione -, un figlio sia una tempesta. Per lei, abituata a vivere in un modo diverso e magari anche totalmente estranea all’idea, per la famiglia, che avrà investito anni su di lei e che ora si trova tradita e che chiederà vendetta…

 

Riemergere dall’incoscienza è come riaffiorare dall’acqua. Il sangue torna a scorrere nelle vene, gli occhi a vedere. La voce è ancora un lamento, però.

“Cosa… cosa è successo…” vorrebbe tirarsi su, ma non ci riesce. Ha appena la forza di spostare un po’ la coperta e rendersi conto che l’hanno spogliata, ha solo la camicia leggera.

Guarda André. “Cos’è successo…” le sembra strano.

“Niente, Oscar… sei solo svenuta…” ha un tono emozionato, e questo la allarma.

“Sei in infermeria… ora ti porto a casa…”

“Ma… cosa…” è debole. Vorrebbe protestare. Cerca di alzarsi a sedere. “Non posso andare a casa, abbiamo il lavoro…”

“No, Oscar.” Il tono non ammette repliche. “Ora tu devi riguardarti…” non riesce a trovare le parole giuste.

Ma che vuol dire? “Ora?” Oscar è infastidita, ma la voce neanche ha forza…

Ed è un attimo quello in cui André le circonda la vita, le appoggia una mano sul grembo, nell’emozione di quel primo contatto che ancora non aveva osato.

E’ quel gesto, forse, a parlare per lui ad una Oscar attonita, che guarda quella mano e forse non capisce.

“Oscar, tu…”

Mentre lui ancora non trova, la voce incrinata, la forza per dirglielo.

“Oscar…” non sa come dirlo. “Amore tu… noi…” la guarda, commosso. E lei aggrotta le sopracciglia. Su, avanti, dillo… “Oscar, tu aspetti un bambino…” E’ bellissimo, vorrebbe aggiungere, ma qualcosa lo blocca…

Il silenzio si carica d’attesa. André attenderebbe un cenno, una parola. Oscar che qualcuno la svegliasse da quell’incubo mentre il senso di colpa già la dilania, perché ha visto lo sguardo di lui, ha sentito l’emozione nella sua voce. Ha sentito un calore bruciante e protettivo, in quella mano su di lei.

“Oddio…” si porta le dita gelate ai capelli. Allora è vero… Poi scivola sulla mano di lui. Vorrebbe graffiarla, fargli del male, allontanarla da sé. “Oddio…”

E invece si rannicchia attorno alle loro due mani. Le ginocchia al petto, mentre le spalle tremano.

“Aiutami…” trema.

Lui la stringe.

“Ho paura… che faremo…”

Le bacia i capelli.

“Che faremo, adesso…”

 

L’ha convinta ad andare dal dottore, ma niente carrozza.

“Cretino, non sono malata!” Lo guarda sdegnata. Colpa tua se non hai tenuto a posto il pisello…

 

“Può capitare…” il dottore ha terminato. La visita più imbarazzante della sua vita… “E”, scherza André, “guarda che dovrai farci l’abitudine…”

“Ma io ero regolare…” André annuisce, compreso. Da bravo compagno responsabile ricorda la ferocia meticolosa con cui Oscar, con una certa cura maniacale che talvolta lo ha preoccupato, ha di volta in volta appuntato i dati del suo ciclo, e mostrato la dovuta attenzione ed ansia ogni volta in cui lei gli ha comunicato, implacabile e sollevata, che le erano tornate.

“Potrebbero essere state perdite, invece…”

Sì, ripensa a quel ciclo ultimamente un po’ irregolare e troppo leggero, che le aveva dato così pochi fastidi da qualche tempo.

Non ha il coraggio di guardarsi. Diventerò grassa, orrenda… questa cosa in me crescerà… dio mio… come faccio? E chi lo dice a mio padre?

“Credo sia di tre mesi, sapete…”

“Ma com’è possibile… ci siamo stati attenti…” Rapido sguardo attonito, accusatorio e feroce alla volta di André.

“Beh, vedete, una disattenzione, una distrazione… purtroppo…” Il medico lancia un’occhiata ad André, gli sembra di compatimento. Non crede che lo attenda niente di buono, al ritorno a casa.

“E adesso” sembrano chiedere gli occhi di Oscar… ora cosa devo fare? Io non lo so, non è la vita per cui ho lottato, studiato, rinunciato a tutto… anche a questo, sempre, prima d’ora…

“Ve ne starete tranquilla, vi prenderete una pausa, poi, si vedrà…”

Oscar china la testa.

“Ma io non voglio… non me la sento…” ho paura…

“Oscar, ascoltate… ora siete sconvolta. Parlatene con lui” accenna ad André. “Valutate voi e soltanto voi quello che sentite e che volete davvero.”

Le prende le mani. La guarda come un vecchio babbo. “Ma se il problema è solo che avete paura della reazione di vostro padre e della vostra famiglia, o di chi vi vede diversa da quello che siete, allora, sinceramente…” Le sorride. “Allora vi direi di vivere la vostra vita e di non cercare l’approvazione della famiglia. Vi chiederanno di rinunciare a questo, e poi sempre di più. E non ne vale la pena…”

 

Ha un peso addosso enorme, avvolta nel mantello pesante, quando, con André, che, come illuminato, la cinge per le spalle, esce dall’ambulatorio.

Una speranza, lieve, una gioia, flebile, minuscole e schiacciate dentro la corazza. La figlia del generale, il comandante. Cos’è che voleva veramente. Cosa avrebbe voluto, se fosse stato diverso?

Riesce ad estraniarsi, a valutare la situazione, senza farsi intimorire dal padre? Ci pensa, mentre si distende sull’erba, i cavalli legati ad un albero, e conclude che non sa dirsi quale vita voglia realmente, forse perché nessuno mai le ha insegnato a domandarselo – solo, a percorrere una via già tracciata. E che non crede di riuscire a prescindere da suo padre. Non ne ha ancora la forza. O il coraggio. O l’incoscienza. A seconda dei punti di vista. Se ci pensa, preferirebbe fosse “forza”. Non ha voglia di tornare a casa. E, ora che lo sa, sente come qualcosa, dentro, in quella maledetta parte del suo corpo che non funziona come vorrebbe lei e che l’ha tradita, inchiodandola, e che lei stringe, tra le dita contratte, mentre André la osserva, allarmato, ma senza osare parlare, perché sa che darebbe a lui la colpa. E, in fondo, è così.

 

“Che facciamo…” un lampo di disperazione, nella sua domanda, dopo un lungo silenzio.

André la osserva. Bella e tormentata. Pallida. Spaventata. Certo che se devi starci così male, forse è meglio…

Stringe le mani. La squadra. Le si avvicina.

La fissa, mentre le scosta con delicatezza i capelli dal viso e l’accarezza.

Sembra passare una vita intera, dietro i suoi occhi.

“Che tipo di risposta vuoi…” E’ serio.

Lei, smascherata, cede un sorriso debole.

“La tua, la mia, la nostra…”

Un cenno d’ammirazione.

“Dunque… prendi un congedo.” Parla lentamente, ponderando le parole. “Andiamo via, lontano, e intanto cerchiamo una casa per noi, qui. Ho qualcosa da parte. Avremmo dovuto farlo prima.” Ammette, serio. “Quando il bambino sarà nato, tu potrai riprendere il tuo incarico e vivremo come una famiglia normale… ce la faremo, credo…”

Oscar spinge la testa all’indietro. Guarda il cielo. Una famiglia… saremmo noi? Mah… Un leggero senso di repulsione si mescola a qualcosa di tenero. “Bene, questa sarebbe…”

“Indovina…” Lo sguardo intenso, le stringe la mano. Come quasi vent’anni prima, sull’erba, quando gli scontri erano solo pugni, e non due corpi, nel sesso.

Lei sorride lontana.

“Dimmi l’altra…” Si accomoda più vicino a lui.

“Andiamo dal dottore non appena possibile, e la chiudiamo. Se non te la senti.” La voce è ferma. “Sono serio. E’ la tua vita, Oscar.”

Giusto… una rara botta di saggezza…

“Questa credo di sapere quale sia…”

“Al tuo buon cuore”, glissa lui. E, poi, continua. “La nostra è la più difficile…” un sospiro. “Perché non credo che quello che voglio io sia quello che vuoi anche tu… e non mi pare giusto importi niente”.

Eh, beh, quanto ad imposizioni, ho già dato… passare da un tiranno ad un altro non è la mia massima aspirazione – sebbene possa ammettere di non aver ancora capito quale sia, realmente, la mia aspirazione…

Lo guarda. Lo ama. Nonostante tutto. Lo vorrebbe odiare. Lui che non cambierà. Lui che rimarrà magro com’è e si potrà godere un figlio senza restarne inchiodato, senza soffrire, senza sacrificarsi. Senza rinunciare alla sua vita. A ciò che gli piace fare. Vorrebbe scaricargli addosso tutta la cattiveria. Invece, gli accarezza il viso, le dita leggere sopra la cicatrice.

“In conclusione…”

Lui le slaccia la camicia. Tira fuori la catenina alla quale il piccolo anello pende.

“In conclusione, smetti di nascondere le nostre fedi”. Glielo mette al dito. E fa lo stesso col suo.

“Poi, mettiamoci in cerca di una casa, perché, qualunque cosa tu decida, è ora che noi viviamo soli.”

 

Dimenticavo: Un ENORME grazie alle proof reader: Alessandra, Assunta, Luana, Sydreana

 

Laura, autunno-inverno 2005, Pubblicazione sul sito Little Corner del gennaio 2006.

Continua...

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