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Tramonto

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L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

Come andrà a finire?

 

È ormai il tramonto. Lo riconosco dalla luce che filtra dalle finestre, dalle lunghe ombre che si allungano per tutto il pavimento.

 

Questa è l’ora che mi fa star male.

È questa l’ora in cui ti rendi conto del giorno è trascorso, e ti trovi a fare i conti con la tua mente, con i tuoi pensieri, con i tuoi desideri repressi.

È l’ora in cui il giorno muore, e forse sto morendo pure io.

 

I miei soldati se ne sono appena andati, li ho congedati da poco. La notizia che attendevo, che attendevamo tutti con ansia, con paura e anche con odio, è arrivata.

“Comandante, l’ordine che attendevamo è arrivato!”

Mi risuonano ancora nelle orecchie queste parole. Alain le ha dette di fronte a me sull’attenti, con il sole alle spalle, guardandomi dritto sull’attenti.

 

Ho abbassato gli occhi, i miei occhi ancora pieni di lacrime, pieni di lacrime per te, amore mio. Quanto è penoso nascondere le lacrime, tenerle dentro di me. Ormai me le tengo nell’anima da stamani. Lacrime che avrei dovuto versare da tanti anni, da tanti anni…

Ma ho tenuto la concentrazione, un soldato la deve sempre tenere, devo essere salda, ferma.

Le parole mi sono uscite da sole “Adesso tornate nei vostri alloggi, io vi raggiungerò più tardi”.

 

Li ho visti uscire silenziosamente.

E così ho visto allontanarsi anche te, André, lentamente. Sento una spada nel cuore nel vederti allontanare piano, perché so quanto è difficile per te muoverti. E il mio dolore si espande nel sentirti andare via, lontano da me.

 

Adesso sono sola, sola nella mia stanza.

Sono in piedi, ferma, come immobilizzata.

 

Non credevo che sarebbe andata a finire così. Non immaginavo questo quando scendevo con la mia uniforme bianca le scale della questa casa, venti anni fa. Non pensavo e neanche lentamente immaginavo che sarebbe finita così…

 

L’uniforme è appesa al solito appendiabiti, gli stivali , la spada e la pistola nel loro fodero e posti accanto.

Quell’uniforme, la porto ormai da vent’anni. Ricordo ancora come era la prima, tutta bianca, il mio colore preferito. Mio padre ne era così fiero… scendevo le scale di casa mia, per salire quelle di Versailles e tutti mi guardavano… chi con ammirazione, chi con odio, chi con invidia... che cosa c’era da invidiare poi? E poi quella da colonnello, la mia promozione, il regalo della mia regina.

 

La mia regina, che ormai ho perso per sempre…

Non ho mai perso un’amica prima d’ora. Ho provato cosa vuol dire addio, quando le condizioni della vita ti costringono a farlo, ma perdersi perché ci si trova sulle due linee del fronte, lei sul suo trono, ed io in mezzo al popolo che reclama la sua libertà.

 

Ed ora un’uniforme blu, quella dei soldati della guardia, degli uomini del popolo.

 

Sono sempre in piedi nella mia stanza. È la mia stanza da quando ero bambina, ci ho vissuto tanto nella mia camera. Non è mai cambiata in questi anni, è rimasta la stessa per tutti questi anni.

Il letto a baldacchino, con le sue tende azzurre. Nanny voleva cambiarle, ma a me piacevano così.

Quel letto mi ha accolto tante volte, ci sono crollata a pezzi vinta dal sonno quando tornavo dalle missioni notturne, ci sono stata costretta quando sono stata ferita o malata.

Lì mi hai trascinato tu, nella tua rabbia, nel tuo furore verso di me. Ho percepito sulla mia pelle la paura, la nudità che non avevo mai provato prima, e le lacrime di terrore. Ma tu ti sei fermato. Tu non sei andato oltre. Tu ti sei fermato. Ti sei fermato per me. E mi hai lasciato lì, sola, sul mio letto, coprendomi con un gesto delicato della mano che portava tutto il tuo rancore e l’amore incondizionato verso di me.  

E nel mio letto mi ci sono svegliata tante volte, ricordando i miei sogni e i miei incubi. Lì ho potuto perdermi tante volte nel sogno e poi svegliarmi e concedermi qualche minuto per sognarti ancora ad occhi aperti. I pochi minuti del mattino sono quelli dove ti posso avere, qui nella mia mente, nel mio letto, senza timore. Amore mio.

 

Amore mio. Non te l’ho mai detto. Non sono mai riuscita a dirtelo, anche se forse lo provavo da sempre questo sentimento in me. Ma ora lo devi sapere, qualunque cosa capiti.

 

La luce diventa sempre più rossa, sempre più rossa. È ormai il tramonto.

Non ho più tanto tempo, ma non riesco a togliere lo sguardo dalla finestra.

 

Il paesaggio di fronte a me lo conosco da oltre trent’anni. Ma mi affascina sempre.

Subito sotto la finestra vedo il nostro giardino, l’erba verde secca delle ore del giorno fruscia nella brezza della sera. Le lucertole fuggono via, e gli insetti danzano nell’aria della sera. Laggiù le foglie del mio albero, il mio rifugio dei giochi d’infanzia, le radici che mi hanno tenuta qui.

I cespugli di rose che emanano il loro profumo, l’ultimo prima di perdere tutti i petali. Quelle rose, quelle splendide rose… loro ci sono sempre state, nel nostro giardino, sbocciano ogni primavera, sfioriscono per poi tornare sempre, ogni primavera, ogni primavera.

Vi ho visto tornare ogni anno, ed ora è così difficile dirvi addio.

 

Addio.

 

Quanti addii ho detto in questi ultimi due anni.

Non ho mai amato gli addii, per me è sempre difficile accettare una separazione.

L’addio al mio amore di gioventù, al mio sogno di femminilità,al mio sogno di essere diversa, di essere una donna, di essere una donna innamorata e assieme al proprio uomo, una donna come le altre, come tutte le altre attorno a me.

Addio alla coorte di Versailles, luogo di grande e piccoli passaggi di vita, luogo di amori e di odi, luogo che mi ha portato addosso ammirazioni ed invidie, ma ciononostante è stata la mia seconda casa, il luogo dove ho vissuto per tutti questi anni.

Addio alla mia regina, mia ragione di vita e di devozione in gioventù, mia amica e mia rivale, la mia ammirazione e la mia invidia per l’amore non corrisposto, per i figli mai avuti.

L’addio alla guardia reale, tutti i miei uomini, miei compagni con cui ho trascorso ore di lavoro, di sudore e fatica, momenti di sconforto ma anche di soddisfazione.

A volte rivedo ancora le immagini di quella vita. Vedo i colori sgargianti delle vesti, le immense acconciature delle donne, la sontuosità delle sale, il fruscio delle sottane, il suono delle musiche e il cicaleccio delle chiacchiere. E il rumore dei miei tacchi che risuonano per i lunghi corridoi, come un rumore nel silenzio, il tintinnare della spada nel fodero posta al mio fianco. Spesso mi rivedo percorrere all’infinito quei corridoi, senza sapere una meta.

 

Il sole scende all’orizzonte sempre di più, le ombre sono sempre più lunghe.

Il giardino diviene sempre più scuro.

Non so perché, ma alla fine riesco a voltarmi.

Guardo di nuovo la mia stanza. Le pareti, i quadri, la mia poltrona, il mio pianoforte, il tavolo, il vaso di fiori posto al di sopra.

È rimasta così, le pareti e questa casa è rimasta così. Ma io invece no.

 

Sento dei passi per le scale. Non ho bisogno di affacciarmi per sapere che sono i tuoi passi. Stai scendendo le scale, di dirigi verso la porta di servizio come fai di solito, e vai nelle scuderie per sellare i cavalli. Mentre ascolto tutto questo, la mia mente ti vede, anzi mi sembra di seguirti, di percorrere quella strada con te. Con te. Con te sempre.

 

Devo affrettarmi, devo andare.

Non so come, ma mi dirigo velocemente verso la mia uniforme, infilo velocemente gli stivali, abbottono la lunga giacca, pongo a lato le armi. Non ricordo nemmeno di farlo, non mi rendo nemmeno conto di essermi vestita, perché non so come mi ritrovo così davanti allo specchio.

E non so perché mi fermo a guardarmi.

 

Non avrei mai pensato che sarebbe andata a finire così!

 

Mi guardo a quello specchio, lo stesso dopo trent’anni. I miei capelli sono sempre biondi, sempre lunghi; sono stati il mio vanto per tanto tempo. Forse sono loro la mia ribellione, la mia femminilità che mi è stata negata per tanti anni. Su tutte le mie uniformi, su tutti i miei abiti maschili ho lasciato cadere, dopo averli spazzolati a lungo, i miei capelli biondi.

Il resto è tutto cambiato. Guardo il mio volto, pallido, i miei occhi sono ancora tristi e le mie guance rigate dalle lacrime che ho appena versato. Alzo la mano per guardare quell’immagine riflessa, la tocco con le dita, e mi chiedo ancora “chi sei tu?”

 

Apro il cassetto dello scrittorio, e prendo carta e penna. Li pongo davanti a me, e mi siedo.

Ma non riesco ancora a scrivere, la penna e il calamaio restano immobili davanti a me.

Questo è l’addio più doloroso per me. Padre, avrei tante di quelle cose da dirvi ancora, così tante che vi ho nascosto. Voi che mi avete dato la vita, che mi avete messo al mondo. Si, è vero mi avete cresciuto come un figlio; si è vero, mi avete fatto credere che ero un uomo. Ma in fondo questo mi ha permesso di stare di più con voi, a differenza delle mie sorelle. Io in fondo sono stata più vostra delle altre.

E guardando questo foglio bianco davanti a me, mi passano davanti agli occhi tanti di quei ricordi… ho l’immagine davanti a me di quando mi avete portato con voi fino all’accademia militare, eravate così fiero di me. Ho l’immagine di voi che mi salutate con la mano e mi sorridete.

Poi quella bellissima giornata di sole, in cui sono riuscita a montare il cavallo da sola, e voi a fianco di me che mi incitavate, per poi esultare e gridarmi “bravissimo, Oscar!” e sento ancora le mie risate mentre il sole illuminava tutto, compresa la mia gioia.

Ricordo ancora quando mi avete messo in mano la prima spada. Così lucente, così splendente,così come quelle che vedevo che portavate voi, che sceglievate voi per l’esercito.

Ammiravo così tanto il vostro lavoro, volevo così tanto essere come voi. Ma io non sono voi. E non sono neanche io figlio che volevate. E non immaginate neanche quanto mi dispiace. Vorrei potervi dire quanto dolore mi provoca questa decisione, quanto mi sanguina il cuore nel sapere che non vi rivedrò mai più. Ma se dovessi scegliere tra voi e lui, io sceglierò sempre lui. E non perché sia l’ordine naturale delle cose, lasciare il proprio padre per il proprio uomo, ma perché questa è la mia strada, questa è la vita che sento mia, e posso percorrerla solo con lui accanto. Per voi sarebbe tradimento. Per me è tutto quello in cui credo, tutto quello che ho sempre sognato, un mondo diverso che mi permetta di vivere con lui, per essere la sua donna. Perché alla fine aveva ragione André, io non sono un uomo, sono una donna, o come mi ha detto lui una volta sono una rosa, non un lillà.  

E vedo davanti a me il suo viso, il suo bellissimo viso, che mi sorride. Lo vedo bambino, ragazzo, e poi uomo, l’uomo meraviglioso che è diventato. E che io amo, che io amo con tutto il cuore. Anzi, che ho sempre amato, sempre, fin da quando ti ho visto la prima volta, anche se ero solo una bambina. Perdonami anche tu amore mio, perdonami anche tu amore mio, per tutto il tempo che ti ho fatto soffrire.

E solo pensando a te, riesco a prendere la penna in mano e vergare due frasi, due sole frasi. In queste due frasi c’è tutta la mia vita, il mio passato, il mio dolore e la mia speranza.

 

Chiudo la lettera in fretta, e sento le lacrime salirmi agli occhi.

Mi alzo veloce, se vado veloce riesco più facilmente ad andarmene. Ma ogni parete, ogni angolo mi dice qualcosa. Vedo ancora la luce filtrare dalle finestre, e le ombre sono sempre più lunghe, e ricordi sempre più numerosi. È come se vedessi un turbinio di persone girare in questa stanza, tutti quelli che l’hanno percorsa. Mio padre, mia madre, la mia governante, André, Rosalie, Fersen. Siete passati tutti qui.

 

Mi affretto ma mi fermo davanti al mio pianoforte. Lo apro, ma resto ancora ferma. Come faceva quel motivo, quello che ti piaceva tanto? Ah si, era quel piccolo motivetto, questo, e mi accorgo di suonarlo, con la mano destra, mentre con la sinistra stringo la mia lettera. Si era questo il motivo, era del tuo pezzo preferito, che era anche il mio. Il nostro.

 

Mi allontano, lasciando il piano aperto. Come se quella musica restasse lì per sempre.

E alla fine riesco ad uscire nel corridoio.

E come immaginavo di trovo lì, sapevo che mi aspettavi, o qui o in fondo alla scale.

Ti ho sempre chiamato Nanny, tu, la mia governante. Ma a volte, anzi per me sei tu mia nonna. Ti ho preso in giro per tanti anni, i tuoi rimproveri spesso lo ho ignorati, svalutavo i tuoi pettegolezzi e magari a volte rifiutavo ciò che cucinavi o cucivi per me. Adoravo le tue coccole, le tue premure, il tuo affetto per me era davvero speciale. Tu sei quella in cui ho creduto più di tutto, sei sempre stata la persona che sapevo di trovare tornando a casa, con i tuoi occhiali sulla punta del naso, il tuo viso rotondo e simpatico, i tuoi capelli folti e grigi che spuntavano dalla cuffietta. Nonna cara, tu non sei mai cambiata.

E forse ora sei la persona a cui è più difficile dire addio.

Ho la lettera in mano, ti sto guardando, e anche tu guardi me. Vedo le lacrime nei tuoi occhi, e sento che ci sono le mie. Restiamo l’una davanti all’altra, a fissarci. C’è così tanta tenerezza nel tuo sguardo, vorrei poterlo vedere ancora per tanto tempo.

Nonna mia, mi dispiace, ma ti ringrazio. Grazie di tutto.

Non riesco a dirtelo, ma in fondo non servono le parole tra noi. Tu sai già tutto, e anche io.

Ti chiedo solo di consegnargli questa lettera, perché io non posso farlo. Non riesco a salutarlo.

E tu questo dentro di te lo sai. La prendi senza dire nulla. Ti inchini davanti a me. Ma d’istinto io ti abbraccio, un abbraccio in cui ci stringiamo reciprocamente, forse ci sosteniamo a vicenda, e ci diciamo addio. Mentre mi separo dal tuo abbraccio e ti bacio sulla fronte, tu mi accarezzi il volto, e sento dire ciò che mi hai detto per anni “ la mia bambina”.

Le lacrime ormai non si possono più tenere, sapendo ora che non potrò più da tornare da te. E così ti lascio veloce, piangendo ancora una volta.

 

Vado, no, corro fino alle scale, e prima di scenderle devo fermarmi, ancora, l’ultima volta.

Rivedo tutte le immagini di quando ho salito e sceso queste scale, tutte le volte per andar a Versailles con la mia uniforme, di corsa per rincorrere Rosalie quando se n’è andata, vestita con il mio abito bianco con il cuore pieno e confuso di emozioni, di corsa con la spada in mano per ferire colui che aveva ferito ad un occhio il mio amore, e ogni mattina scendevo e ogni sera ci risalivo con la mia uniforme e la mia spada.

 

Ora scendo le scale con l’uniforme come vent’anni fa, diritta, cercando di tenere la testa alta, e lo sguardo fisso di fronte a me. Allora andavo verso il sole che sorgeva nel giorno che sarebbe stata la mia vita. Non sapevo nulla di tutto ciò che so ora. Neanche immaginavo tutto che sarebbe accaduto. Ed ero decisa a mettermi in gioco, perché volevo essere diversa dalla altre. E credevo di esserci riuscita. Fino ad ora, ora che so di amarti, come una donna ama il proprio uomo.

Rivedo tutto come allora, mentre i miei tacchi risuonano i gradini. La luce del mattino che riflette dalla porte e dalle finestre, la mia uniforme bianchissima, con i finimenti d’oro luccicanti, mio padre orgoglioso,tua nonna e tu, André, sorpresi e allibiti.

Allora mi dissi “padre, non lo faccio per me né per nessun altro”. Ora so perché lo faccio, lo faccio per te amore mio, per noi due, e per tutto ciò in cui credo, che è cresciuto in me pian piano, con te.

Ora vedo verso il tramonto, verso la notte, che porterà di nuovo ad un altro giorno, ad un’altra vita, a allora mi chiedo alla fine delle scale “Come andrà a finire stavolta?”

 

 

Dedico questo pezzo a mia nonna Gianna

Che non mi ha mai lasciato

pubblicazione sul sito Little Corner dell'ottobre 2012

 

mail to: vannacarla@libero.it

 

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