Variazione (con scambio di ruoli)
Warning!!!
The authors are aware and have agreed to their fanfics or translations being
posted on this site. So, before downloading these files, remember public
use or posting them on other's sites is not allowed, least of all without
permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please,
for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.
Attenzione!!!
Gli autori sono consapevoli ed hanno acconsentito a che le proprie fanfic o
traduzioni fossero pubblicate su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi
file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli
su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori
ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non
rubate.
“Grand-mère! Finalmente!... Non fatemi stare sulle spine!... Ditemi! È arrivato? Com’è?;.. Vi prego! L’avete visto? È più alto di me o più basso? Siamo della stessa altezza?...”.
“Calma, calma, André. Fatemi togliere i guanti, almeno. Come siete sempre impaziente”.
Ma la nonna sorrise al nipote, guardandolo nella specchiera. E sbottonò i guanti con lentezza affettata, per farlo attendere ancora. Lui le saltava intorno; otto anni, i riccioli bruni e lucidi le sfiorarono un gomito. La donna si girò lentamente, portando una mano alla crocchia candida che le teneva i capelli alla nuca e annuendo una volta in silenzio, come per dire che il momento era arrivato.
“Ditemi!...”. André la abbracciò tirandole un po’ la veste.
“Ma sì, va bene. Allora: si chiama Oscar, ed è… Sì, è un ragazzino… Uhm, come voi, certo…”.
“Come me?”.
“Sì, sì, come voi… Ma più… Come dire…”.
“Più alto? No, non ditemi!... È più alto di me? Molto più alto?…”.
“No, no, non direi proprio più alto, lasciatemi pensare un attimo… Ah, ecco, sì: più… Più biondo di voi, sì”.
“Biondo?... Ah, va bene. E poi?”.
“E poi non so, l’ho incontrato soltanto per qualche istante. Ma certo, sì, parla bene… Poi, anche, ecco… È un po’ meno timido di voi, sapete…”.
“Ah”.
“Sì, molto gentile. E delle maniere impeccabili, André… Non come certi nipoti che abitano da queste parti!...”. La donna strinse a sé il bambino; lo adorava. “Ma certo, del resto vostro padre l’aveva detto… Viene da St-Cyr, questo Oscar che vi terrà compagnia. Un orfano, ma di che maniere… Un buon nome, anche se decaduto…”.
“Sì, ma, Grand-mère, esattamente, quanto è alto?... E io quando lo vedrò?”.
“Lo incontrerete stasera prima di cena… Ma state fermo un attimo, per l’amor del Cielo”.
II
Oscar Françoise… E poi niente: un patronimico e un nome da dimenticare. Che nessuno ricorda più. Il ramo minore di una famiglia di antica nobiltà. Un ramo estinto ormai, quasi. Rimane soltanto Oscar Françoise. Françoise, certo, con una “e” alla fine. Perché non ci sono dubbî: è una bambina. Anche se vestita da ragazzo, con la divisa scura del collegio più antico di Francia, dove l’ha mandata per pietà una zia benefattrice morta a cento anni.
Fingersi maschio, naturalmente, non era stata un’idea sua: la zia abitava lontano, in provincia, si era convinta che le fosse rimasto un nipotino; già così vecchia, forse si era confusa, con quello strano nome. Viveva già in miseria, aveva messo soltanto qualcosa da parte per mandarlo a St-Cyr, questo suo nipote sconosciuto, come tutti i maschi della famiglia, da generazioni. Oscar stava da un’antica balia; una donna semplice, vedova, che lavorava di notte in taverne piene di soldati. La vita a Parigi era diventata tremenda, qualunque cosa per mangiare. Una donna semplice che non si faceva scappare le occasioni: aveva travestito la bambina da ragazzo, poi l’aveva accompagnata fino al cancello del collegio.
Quattro anni assurdi: Oscar ha imparato a tirare di spada, a comporre alessandrini, a danzare; va a cavallo come un figlio di re, vince tutte le gare; e intanto si nasconde: per vestirsi e per pisciare; non è difficile. I bambini, maschi e femmine, hanno le voci uguali e i maestri sono distratti; nessuno si aspetta di vedere una bambina tra tutti quei ragazzini all’adunata nel cortile; nessuno se lo aspetta e quindi nessuno se ne accorge.
Ma il lascito della vecchia zia non è bastato; meno soldi di quanto si era detto, forse la balia si era tenuta qualcosa, o forse la zia aveva fatto i conti con il cervello di un altro secolo. Un istitutore, impietosito, si informa presso suoi conoscenti, e viene fuori che i Grandier de Sarrabeyrouse cercano un bambino che faccia compagnia al loro André, che è troppo timido, e in casa ci sono troppe donne; tre sorelle, sua madre, la nonna e le balie, tutte a proteggerlo. Suo padre vuole per lui un compagno, un altro maschio; gli va a subito a genio l’idea di questo orfano educato a St-Cyr, di famiglia nobile, comunque; cosa chiedere di meglio? Gli dicono che si tratta di bambino intelligente, abilissimo; quello che ci vuole per André, che ha sempre la testa non si sa dove. Un altro maschio gli servirà da modello, da sprone; e se le cose vanno bene, questo Oscar potrebbe poi fargli da attendente, più in là, quando tutti e due saranno cresciuti. Hanno infatti la stessa età, Oscar e André.
III
All’inizio mi sono arrabbiata. Moltissimo. Mi aveva spiata e poi me l’aveva detto. Tranquillamente. André parla sempre tranquillamente, anche troppo. Mi sono arrabbiata perché era così calmo: come se non ci fosse niente di più normale. Come se non ci fosse niente di strano che per cinque anni nessuno mi ha visto. Come se non fosse stata una faticaccia nascondersi, andare a lavarsi fuori nelle stalle; per cinque anni! Rifiutare l’aiuto delle serve e d’estate fare il bagno mezza vestita. E poi mi ha spiata! Gli ho detto:
“Non è giusto! E non sta bene”.
Perché è vero: non si spiano le donne mentre si stanno vestendo. Lui mi ha risposto proprio così:
“Hai ragione, Oscar. Non si spiano le donne”.
A quel punto, per essere sincera, mi sono dimenticata di arrabbiarmi. Detto così, semplicemente, sembrava infatti così vero, più vero della verità che in fondo già sapevo. E non solo: mi è anche sembrato divertente, il fatto in sé, che non sono un maschio, ma anche il fatto che me lo dicesse; che lo sapesse in fin dei conti, e basta. Mi è venuto da ridere, da ridere di noi, di tutti e due. Anche lui ha ridacchiato. Poi facendo po’ l’ho offeso ha aggiunto:
“Potevi anche dirmelo prima, però”.
“Potevi anche non spiarmi, però!”.
“Ma no, Oscar, voglio dire… Insomma, non ti fidavi di me?”.
“Ma cosa c’entra?... E poi se tuo padre lo scopre, o qualcun altro, secondo te mi lasciano restare?”.
“Oh, ma tu non capisci niente!... Come sempre”. Ha sospirato come fa il nostro istitutore, con gli occhi al cielo. Lo imitiamo sempre, Monsieur Peyrou. E poi mi ha dato uno spintone.
“Capisco sempre più di te, comunque”. Ho ricambiato: la frase e anche la manata.
“No, ma aspetta: perché secondo te se me lo dicevi andavo subito a dirlo a qualcuno?”.
“No, no… È solo che…”.
“È solo che è molto meglio così. Tu la smetti di dire bugie, così magari quando muori, non dico che vai in Paradiso, ma almeno un posto al Purgatorio te lo trovano!...”.
“Oddio, gli idioti come te bisognerebbe impiccarli!”.
“…e io così ti posso…”.
“Mi puoi?... Che puoi fare, sentiamo?...”.
“Ti posso aiutare… A mantenere il segreto, intendo”.
“Oh, grazie!... Grazie mille, Monsieur! Che onore, mi commuove!... E che coraggio!”. Ecco, tieni: spintone gratuito.
“Oscar, sei tremendo!”.
L’ho guardato. Ho sentito un’improvvisa, perfetta fiducia.
“E sei tremenda, sei anche tremenda, na-tu-ral-men-te! Mademoiselle… Dopo di voi!”.
“E smettila...”.
IV
Marie Antoinette è bellissima. Se anch’io fossi una donna, intendo dire una dama, una vera dama di Versailles, anzi se io fossi la futura regina di Francia, vorrei essere esattamente come lei; anche se il problema è che io sono più alta di lei, e farei un effetto ridicolo vicino al Delfino, che è abbastanza tarchiato, mica tanto bello. Quando André passeggia vicino a lei all’aperto, li guardo da lontano. Lui ha sempre l’aria troppo seria, e si vede che lei ha voglia invece di farlo ridere; lo provoca, in quel modo usato sempre dalle dame nei salotti, con delle domande che rimangono sospese nell’aria prima che si capisca che erano in realtà scherzetti, come succede a teatro nelle commedie. Allora lui sorride con l’aria un po’ rassegnata, come se aspettasse che la frase brillante passi, rimanga nell’aria alle loro spalle. Anche lui è più alto di Marie Antoinette, naturalmente; siamo alti uguale.
André direbbe sicuramente che non è vero, ma secondo me si è innamorato di lei. Da molti mesi ormai va ogni giorno a Corte, perché comanda la Guardia reale. Ma non è questo, cioè non è soltanto il fatto che si vedono spesso, e che la futura Regina mostra molto favore per la compagnia di André, tra l’altro forse proprio perché lui non ride alle sue battute di spirito come fanno tutti gli altri. Per me è proprio come lui la guarda, lei che è bellissima, come l’ha guardata dal giorno in cui è arrivata da Vienna; tutto il popolo l’acclamava lungo le strade. La guarda sempre con tristezza e con dolcezza, e parla poco. E c’è un’altra cosa: quando siamo a casa e stiamo vicino al fuoco, o ci incontriamo per caso nelle scuderie, lui fa quella stessa faccia, è triste e commosso, come se fosse vicino a lei. E allora io credo che sta pensando a lei, anche se non la sta vedendo in quel momento. E questo è l’amore, come abbiamo anche letto molte volte nelle novelle antiche, a lezione.
Certo, André non può sperare di sposarla; forse per questo è sempre triste. Lei è già promessa al Delfino, ed è inoltre di famiglia imperiale, sarebbe impossibile chiedere la sua mano, anche per un nobile come André. Un po’ come se io volessi sposarmi con lui: non potremmo perché io sono il suo attendente, e la mia famiglia non è più nobile. E poi sarebbe comunque una cosa impossibile, perché io non sono una dama, e nessuno sa che sono una ragazza. Sì, va bene, André lo sa da molto tempo, ma anche lui poi se ne è un po’ dimenticato. E anch’io mica ci penso tutto il tempo. Mica saprei cosa rispondere così su due piedi, se qualcuno mi ferma e me lo chiede: “Sei un maschio o una femmina?”. O se mi chiedono: “E André, lo ami?”. No, ovviamente non so se lo amo. Anch’io qualche volta mi sento triste, ma non è la stessa cosa, non è come lui quando cammina lentamente vicino a Marie Antoinette. Poi siamo alti uguale, sembriamo piuttosto due amici. Non riesco a immaginare che lo amo, anche se magari sarebbe bello essere una dama, avere un bel vestito ogni e innamorarmi di André, passeggiare vicino a lui tra le fontane e scherzare.
V
Il fuoco crepita nel camino: come sempre. Oscar si affaccia alla porta, sorride e chiede se voglio ancora del vino o del cognac. Non rispondo e fuori nevica. Oscar rimane sulla porta un attimo, poi se ne va, chiudendola piano come se io dormissi e non bisognasse fare rumore. Dopo un po’ sento che parla nel corridoio con Grand-mère, ridono di qualcosa che è successo; le loro voci si allontanano.
La Regina ha rivisto il conte di Fersen. Lo ha ricevuto come tutti gli altri, ma si vedeva che era felice, veramente felice di rivederlo. Io so che lo ama, lei stessa me lo lasciato capire, ormai molti mesi fa. Lo ama da prima di diventare regina. Lo ama perché lui è bello e la fa ridere, e le racconta di viaggi per mare.
Sapevo già che il mio amore non valeva niente. Vederli insieme, però, mentre si guardano nel silenzio del cerimoniale delle udienze; capire che si parlano senza parole, che vivono in ogni momento di ogni giornata e anche al buio, ogni notte, la sorpresa lietissima e perfetta di sapere che lo stesso sentimento esatto nel cuore e nelle intenzioni dell’uno corrisponde al sentimento dell’altra, questo mi sembra insopportabile. Vorrei scappare da quella sala immensa piena di specchi, dimenticando la divisa che porto. Anch’io ti amo, Marie Antoinette. Perché non me? Avrei voglia di gridarglielo in faccia.
Invece sto qui e stringo i pugni. Vuoto il bicchiere. Vederli insieme, che parlano senza parole; e parlano di ore nascoste conosciute soltanto da loro, in alcove piene di segreto, costruite dal Re che abbiamo chiamato “Sole” proprio perché servissero all’amore: non riesco a pensarlo, ma non posso non pensarlo tutto il tempo. Un desiderio uguale di piaceri, di conforto mi soffoca. Abbandonarmi anch’io nel buio di una camera preziosa senza finestre, contro il calore profumato della sua pelle, sentire i rumori esili delle stoffe che si sciolgono. Una sola volta, Signore. Una sola!
VI
“André?”.
“Cosa vuoi ancora?”.
“Scusa, pensavo che dormissi. Avevi gli occhi chiusi, pensavo che stessi facendo un sogno”.
Il fuoco si sta ormai spegnendo. Forse Oscar è qua proprio per questo. Sì, adesso mette un nuovo ceppo nel camino, muove le braci. Mi alzo, mi prende una vertigine.
“Ti senti male?”.
“Ho solo bevuto…”.
Oscar è improvvisamente davanti a me.
“Ti aiuto, appoggiati a me”.
Ogni sera la stessa scena. Che importanza ha? Le passo un braccio sulle spalle e lei mi sorregge. Chiudo gli occhi.
“Però cammina anche, sennò come ci arriviamo al primo piano?”.
Ha il tono cordiale e semplice che si usa con gli ubriachi. Ma io non ho voglia di fare neanche un passo. Perché odio questo salotto buio, e questo dolore. E voglio essere felice anch’io, voglio essere Fersen e stringere a me la Regina.
“Dai, André, forza. Apri gli occhi…”.
Sentire la sua testa contro il mio petto.
“Cosa c’è? Stai attento, mi tiri i capelli, così”.
Carezzarla, carezzare nell’oscurità i suoi capelli morbidi. E stringerla. Stringerla di più, per amarla. Cercarla.
“André, cosa?...”.
La sua bocca. Ho aspettato tantissimo, sai? Tutto soltanto per questo momento. Resta qui. Finalmente. Lasciami amarti. Non ti muovere. Sei perfetta. Ti riconosco nel buio: la tua pelle, qui sotto le orecchie. Ecco, vieni. Resta qui. Voglio soltanto sentire. Lasciami… Ecco la stoffa scivola come nel sogno che faccio tutte le sere. Non hai idea di quanto ho aspettato. Ecco, il tuo cuore batte. Ti bacio sul cuore. Voglio soltanto sentire…
VI
“Lasciami!”.
Une luce accecante come se fosse giorno. Ho aperto gli occhi quando… Oscar! Oscar mi ha schiaffeggiato. La vedo. La guardo adesso: il viso arrossato; la camicia strappata e un seno bianco e tondo scoperto tra i lembi. I suoi capelli: come se tremassero lungo il viso. Sta tremando? Mi guarda con occhi immensi. Cosa… Ho visto il pezzo di stoffa, nella mia mano ancora tesa tra noi. Cosa ho fatto? La luce rossa del fuoco da poco ravvivato ci colpisce di fianco; arroventa la mia guancia bruciante per lo schiaffo.
“Oscar… Io…”.
Mi guarda con occhi pieni di qualcosa. Non l’ho mai vista così. La guardo come se qualcun altro le avesse fatto male. Come se fossi arrivato troppo tardi. Non è possibile che… Il braccio mi cede come se non fosse più mio. Il pezzo di stoffa bianca cade ai nostri piedi.
“André”.
La sua voce è gelida, immobile, anche se lei sta ancora tremando. Non so perché, ma non si copre, non fa nessun gesto per nascondere quello che aveva sempre nascosto. Sta dritta come sta sempre. Come se non se ne accorgesse. Il suo sguardo pieno di stupore e di verità. Come un idiota chino gli occhi e guardo la sua pelle segnata dalle mie mani che si alza indifesa al ritmo del suo respiro. E lei non si copre, come se si fosse dimenticata di essere così.
“Oscar, io… Non so…”
Anch’io me lo ero dimenticato, Oscar: che sei una donna. Non so veramente, sai, come ho fatto, io… Non puoi perdonarmi. Però lo sai, Dio mio. Mi hai scoperto adesso. Mentre ti baciavo. Mentre con gli occhi chiusi cercavo sotto la tua camicia. Hai scoperto: che non avevo pensato a te. Che non ti avevo più guardato. Per tanti anni, senza chiederti più niente. Adesso lo sappiamo tutti e due: che non è vero che ti aiutavo a proteggere il tuo segreto. Pensavo di farlo, ma intanto me ne ero dimenticato. Come un idiota, non so come ho fatto.
“Oscar”.
Non mi ascolti; ti sei girata e te ne stai andando senza risposte. E io ti guardo passare la soglia, entrare nel buio del corridoio che conosci a memoria. La casa è silenziosa, è notte fonda. Le braci crepitano nel camino. E mentre scompari non mi viene più in mente neanche una parola.
VII
“Ancora nessuna notizia di Oscar?”.
“No”.
“Che ragazzo misterioso!... Dopo tanti anni…”
“Speriamo che non gli accada niente di male… Io non potrei…”.
“Mère, non fate così. Sicuramente sta benissimo…”.
“Sì, ma…”.
“Siete troppo buona. Non dimenticate che lavorava per noi e se ne è andato senza dire una parola, senza neanche un biglietto, nulla!”.
“Lo so, lo so…”.
“Per fortuna che non si è portato via niente, neanche il suo cavallo… Di questi tempi non è cosa da poco!...”.
“Però André…”.
“André! Lui sì che è un vero mistero. Non ha detto nulla, nessun commento! Il suo attendente da tanti anni!... Che stramberia… Del resto quel ragazzo è strano, io l’ho sempre…”.
“Silenzio, eccolo che sale…”.
“In anticipo quest’oggi! Sono soltanto le quattro… Allora, quali novità a Versailles?”.
“Buonasera, Grand-mère. Père”.
“André, ma che faccia lunga…”.
“Smettete, sempre a piagnuccolargli attorno, voi!... Allora, André, cosa…”.
“Ho lasciato la Guardia Reale”.
VIII
Il temporale si è calmato un po’ ma la pioggia continua a battere con violenza sul tetto. Dormo in una soffitta; mi ha accolto questa ragazza sorridente e fragile che abbiamo con André aiutato una volta a cavarsi d’impiccio. Rosalie, un nome perfetto per lei, che si aggira per la casa canticchiando. La mattina ride stupita di vedermi in piedi già all’alba. Non mi ha fatto domande su André, non mi ha chiesto cosa intendo fare. Non sa che sono una femmina come lei, e dice di non farmi vedere dai vicini che penserebbero male. Dice che se le chiedono qualcosa dirà che sono un cugino venuto dalla campagna.
Ma chi verrebbe a Parigi dalla campagna di questi tempi? Qui non si sa più dove trovare da mangiare. Mi aggiro la sera per le vie infangate, si sentono qua e là discorsi di rivoltosi, e gente che si dispera. Mi accuccio nella mia soffitta mentre il temporale si calma un po’; al piano di sotto gli amici di Rosalie, un piccolo gruppo di uomini del popolo e studenti, parlano della Francia, dicono che le cose devono cambiare, bevono birra alsaziana da una grande botte che uno di loro ha rubato da qualche parte. Più tardi Rosalie salirà per vedere se ho bisogno di qualcosa: per sorridere dolcemente dall’uscio e raccontarmi i discorsi che ha sentito in cucina. E, un po’ scherzando, per dirmi che intanto lei pensava a me; se avessi freddo, se avessi bisogno di nulla. E parla di questo e di quello, e mi guarda per scoprire se mi piace; e mi chiede se ho mai pensato al matrimonio. Io non le dico niente, sorrido un po’, dico che presto smetterà forse di piovere.
Mi accuccio contro il giaciglio ammucchiato a terra, con una coperta sulle spalle; fa freddo. Sento il mio corpo più caldo, con le ginocchia schiacciate contro il petto. Rimango con gli occhi aperti. Con le mani stringo i miei seni; immagino come deve essere toccarli, li sento irrigidirsi. Penso a come deve essere stato quel bacio di cui non ho fatto tempo ad accorgermi. Non avevo mai pensato che sarebbe successo, e quando è successo… Anche se… Adesso mi invento un ricordo. Perché deve essere bello essere amate, essere baciate. Il temporale si calma e tu mi baci, mi stringi.
IX
Ha smesso di piovere. I cavalli si sono calmati e qualche goccia filtra dalle assi del tetto. Vengo a sorvegliare le scuderie ogni volta che scoppia un temporale di notte. Prima lo faceva Oscar. Abbiamo passato una vita insieme qui tra questi steccati; scherzavamo e gettavamo il fieno. Ci addormentavamo in pieno pomeriggio per il gran caldo. Poi da casa venivano a cercarci all’ora di cena. Quando scoppiava un temporale correvamo qua sotto i fulmini, a rassicurare i cavalli raccontando sciocchezze, spiegando che non bisognava avere paura dei tuoni. E io pensavo che era vero: che Oscar non aveva paura dei tuoni e non aveva paura di niente. E pensavo a qualcosa su cui sfidarla quando fosse finito di piovere.
Avevamo dodici o tredici anni; una mattina ero andato a cercare Oscar in camera sua, nell’ala dei domestici. Per fare uno scherzo avevo aperto la porta pianissimo, poi ero entrato in punta di piedi nascondendomi contro un armadio. Oscar si stava appena vestendo. Avevo guardato distrattamente la sua mano ferma sullo schienale di una sedia, il suo braccio abbronzato; pensavo intanto a che sorpresa fare, a qualcosa da urlare per ridere. Avevo guardato la spalla, un pezzo della schiena, la camicia da notte cadere sul pavimento di legno. E avevo scoperto in un attimo, in quel momento in cui tutto si era mosso, la mano, il braccio, la spalla, e leggermente la schiena, che si girava mentre il sole filtrava da una finestra alta sulla parete, in quel piccolo attimo in cui pensavo a qualcosa da inventarmi, io, André, avevo scoperto che tu, Oscar, sembravi, no, eri!... …Una femmina?
E ancora adesso sorrido, anche se mi tocca stringere in un pugno il pezzo della tua camicia che io ti ho strappato, e che tu mi hai lasciato andando via non so dove. Perché ripenso a che sorpresa era stata: scoprire quella mattina quel piccolo petto, una curva di pelle chiara, le ginocchia come se non le avessi mai viste prima, il tuo ombelico, e vedere che là, dove, non avrei mai e poi mai osato guardare, sembravi qualcosa di delizioso, di paffuto, di dolce e di strano. È stato bellissimo Oscar, è stato divertente e sul momento abbastanza straordinario. Ma cerca di capirmi: ero un ragazzino, ero troppo piccolo e non mi sono accorto che tutta così, nuda e morbida, bionda e nuovissima, avrei soltanto dovuto tenerti. Tenerti vicino a me. Poi contro di me; per stringerti, per provare a baciarti. Come un colpo di fortuna. E per difenderti da quelli che quando bevono troppo allungano le mani e strappano le camicie alle ragazze belle.
X
Le sei del mattino di una giornata di giugno che è già calda. André Grandier de Sarrabeyrouse fa l’appello, adesso comanda la Guardia cittadina, l’esercito dei poveracci, come dicono gli ufficiali a Versailles. Quelli che difenderanno la città da se stessa, tra poco, adesso che scoppia la rivoluzione; anche questo si sente dire. Sono notti afose, si dorme poco. André guarda stancamente le uniformi, le spalline, senza distinguere i volti. Nessuno sembra aver voglia di incrociare il suo sguardo, in ogni caso. Poi un taglio nel petto, il respiro che si arresta: lei è là a dieci metri da lui; persa tra le facce anonime, ancora una volta sull’attenti, con la bocca serrata. Oscar è là, vestita da soldato.
Evita anche lei come gli altri di incrociare i suoi occhi. È serissima, immobile, smagrita; fa paura, con il fucile lucente sulla spalla, il berretto scuro calato sui capelli che ora sono più corti. Sette mesi che non l’ha vista. Gli viene in mente d’improvviso che lei è là per lui: per vendicarsi, per trovare una vendetta, forse anche la più semplice, con i guanti bianchi e col fucile, durante un’insurrezione, un qualche scontro, una fuga; in questi tempi difficili in cui non si sa più chi è dalla parte di chi.
In realtà anche Oscar non sa cosa pensare. Sa che è venuta a cercarlo, ma non sa mica come va a finire la storia. Si è arruolata dando un falso nome, tanto prendono tutti, di questi tempi. Sa soltanto che non ha certo paura: né di lui, né di quello che le dirà, né di questi soldati maneschi e un po’ alticci che nelle camerate le hanno già attaccato briga; lo hanno subito riconosciuto, il suo accento di St-Cyr. Invece non si sono accorti che non è un uomo. Ha messo una fascia stretta sotto la camicia e ha i capelli un po’ lunghi sugli occhi, perché il suo sguardo è troppo profondo; glielo ha sussurrato all’orecchio Rosalie, il giorno in cui le ha detto addio.
XI
Senti che ti guardo? Mi dirai stasera perché sei venuta qui? Sei venuta per parlarmi, per perdonarmi? O per vendicarti? Hai visto cosa succede? Hai visto la gente nelle strade? Dicono che ci sarà la rivoluzione. Rimani dove ti posso vedere, per favore; come in questo momento, nella piazza d’armi, mentre ti alleni alla spada con uno che pesa tre volte più di te. Sai che ti sto guardando? Non riesco a staccare gli occhi dal tuo corpo. Che per anni non ho visto. E che adesso guardo dolorosamente piegarsi lungo la spada del tuo avversario, mentre ti giochi di lui come ti giocavi di me. Abbiamo avuto i migliori maestri, per la spada. Ti ricordi?
Mi sembra di non conoscerti, che sei un’altra persona. Che il tempo si è diviso in due: prima quando eravamo amici, e adesso che sei diventata il mio mistero;, un silenzio da stringere di notte. Come questo pezzo di stoffa che porto in tasca. A chi potrei mai raccontare questi sette mesi di tormento e di attesa, mentre dimenticavo inesorabilmente il mio amico dagli occhi profondi come una donna; per incontrare nei sogni, di notte, il suo corpo sconosciuto che adesso mi ossessiona?
Il tuo corpo. Che in questo momento vedo vicino alla fontana di ferro. Hai vinto tutti i duelli stamattina, qualcuno ti guarda con rispetto, mi sembra; altri ti faranno qualche brutto scherzo forse, stasera, per darti una lezione. Tu non sorridi e non bevi come gli altri. Aspetti con la fronte sudata e i capelli appiccicati sulle tempie. E io sto qua, in parte: conto uno a uno i bottoni della tua giacca, le frange dorate sulle tue spalle, i lacci dei guanti e dei tuoi stivali. Ed è la mia rassegna personale delle truppe: dove l’unico soldato che guardo sei tu, e cerco, nella stoffa scura e tra gli alari, qualcosa per me. Nonostante tutto. Perché è finita così, Oscar: che voglio che tu mi ami, e non voglio neint’altro.
XII
La sera d’estate vapora sugli stagni, il sole è tramontato lasciando un cielo violetto. Rincasano, il comandante e la sua scorta, che sono anche vecchi amici. Nessuno dei due sa cosa dire come prima cosa. Forse ognuno ha paura di macchiarsi per primo della colpa che li aspetta sulla strada: dimenticare quell’amicizia così riuscita, così strana, piena di fedeltà e di bei ricordi. I cavalli sembrano stanchi, è stata una giornata afosa. Le rondini si ritirano con piccoli strilli. Poi come a un segnale fatidico di imboscata, il buio scende sulla pianura e le lucciole brillano qua e là tra i canneti, in piccoli sciami che sembrano cespugli di candele.
“Fermiamoci”.
Uno dei due ha parlato. Sono alti uguale e tra le ombre non li si distinguerebbe l’uno dall’altra. Un po’ discosto dalla strada, sul prato, sembra aleggiare una frescura già notturna. Rimangono vicini. Nessuno ha mai trovato un nome per questo momento.
“Vieni”.
Mettono le giacche a terra, le giacche scure dell’esercito dei poveracci. Si siedono vicini, come quando si ricorda tutto un’ultima volta. Le nevicate infantili e le sgridate. I giochi con pegno da pagare alla fine. Le lezioni nei pomeriggi interminabili mentre fuori è già scuro. La fiducia, i riflessi mentre si combatte. Un segreto incredibile e un sorrisetto. Le fontane inesauste della reggia di Versailles. E Marie Antoinette che fa domande in un Francese delizioso. Passare al galoppo il ponte più antico della città. E tutte le volte che pioveva. Rosalie bella come una bambina. Il pianoforte di André che era sempre Oscar a suonare in fin dei conti. Tutto, anche la notte in cui André le aveva strappato la camicia, che era diventata la notte in cui si erano visti l’ultima volta.
Si stringono e non sono più increduli. Tutto sta accadendo davvero e si baciano. André si distende sopra di lei, con fretta, nascondendola, lei che è senza fiato, nascondendo la sua testa bruna contro i seni di lei che è vergine. Poi torna a baciarla, con una mano tenendo la sua fronte, segnando le sue guance, tendendo l’altra per spogliarla. E vorrebbe fermarsi un attimo, vedendola d’improvviso nuda, così diversa da quella mattina di quando avevano tredici anni: adesso che è notte, che il suo seno è pieno e bagnato dei baci di un uomo, i suoi fianchi più larghi e lei tutta, però, è meno morbida, e il suo corpo non è più un’unica cosa come quella volta. André vorrebbe fermarsi soltanto un attimo, per guardarla e dirle tutto questo, ma è troppo tardi anche per un attimo. E lo sguardo di Oscar è profondo e non si rimedierà mai più.
Grazia, 8-12-2005 Pubblicazione sul sito Little Corner del gennaio 2006
mail to: grace88@libero.it