Un ultimo inverno

parte 1

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

Copyright:
The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k. All Rights Reserved Worldwide.
The Copyright to the fanfics, fanarts, essays, pictures and all original works belongs, in its entirety to each respective ff-fa author, as identified in each individual work. All Rights Reserved Worldwide.


Policy:
Any and all authors on this website have agreed to post their files on Little Corner and have granted their permission to the webmaster to edit such works as required by Little Corner's rules and policies. The author's express permission is in each case requested for use of any content, situations, characters, quotes, entire works/stories and files belonging to such author. We do not use files downloaded or copied from another website, as we respect the work and intellectual property of other webmasters and authors. Before using ANY of the content on this website, we require in all cases that you request prior written permission from us. If and when we have granted permission, you may add a link to our homepage or any other page as requested.
Additionally, solely upon prior written permission from us, you are also required to add a link to our disclaimers and another link to our email address.

The rules of copyright also apply and are enforced for the use of printed material containing works belonging to our authors, such as fanfics, fanarts, doujinshi or fanart calendars.

 

Non avevo una casa, e così, fin da bambino, cominciai a sognarla. Un luogo semplice e accogliente, il fuoco nel camino la sera e la fragranza dei biscotti al mattino.

Poi, da ragazzo iniziai a desiderare una casa nostra. Mettevo via il denaro, risparmiavo ogni singola moneta, nell’ingenua speranza  di poterla un giorno acquistare per noi. Non mi importava che aspetto avesse, purché fosse con te.

Infine, smisi di volerla. Abbandonai quel sogno insensato, lo accartocciai come una foglia secca e lo lasciai andare nel vento.

Ma in verità la nostra casa l’avevamo già, da sempre. Era intima e calda. Dalle sue stanze senza pareti, entravano il tramonto e l’alba e il profumo di terra, di erba fresca e rose selvatiche . E l’aria era piena di parole soffuse e silenzi e piccoli gesti d’amore… Noi due insieme eravamo la nostra dimora.

 

 

Dopo una notte di alcol e di sesso non poteva dormire. Non poteva nemmeno sognare. Perché ora conosceva quella parola. L’aveva assaporata, imparato il suono della sua doppia esse. L’aveva sentita sibilare tra le labbra, strisciare sotto la pelle.

 

Fare l’amore doveva essere bellissimo. Un balsamo per le sue ferite. Così gli aveva detto Alain. Avrebbe dovuto sentirsi meno solo, dopo. E tutta quella voglia d’amore sarebbe stata appagata, finalmente.

E allora perché ora stava peggio di prima? Quanto avrebbe voluto fuggire! Se solo ne fosse stato capace! L’ha pensato, a volte. Quando il buio nella sua anima si faceva più fitto. L’ha persino desiderato. Andare. Via. Lontano. Ma dove? Nessun luogo sarebbe stato sufficientemente distante da lei. Fuggire non serve. Quando si ama come ama lui. L’amore l’avrebbe inseguito per sempre. Lo sapeva bene. Dove andrà a finire tutto questo amore sprecato? E quanto durerà ancora questo tormento?

Ma né il tempo, né il dolore, né la rabbia erano riusciti a scalfire quel sentimento. André era più forte. Il suo amore per lei era più forte. Più tenace. Più potente. Più violento. Non che lui ci avesse mai provato a dimenticarla. In realtà, non lo voleva veramente. Sapeva che non sarebbe guarito mai da quella insensata passione. Era certo che qualsiasi inferno sarebbe stato meglio di una vita senza di lei.

Camminò ancora, a lungo, senza meta, nell’alba livida, sprofondando i piedi e il cuore nella neve ghiacciata, stringendosi dentro il mantello umido. Gli sembrava di camminare sulle rovine di una vecchia casa abbandonata, dopo un terremoto. Un senso di vuoto, una vertigine, lo fecero barcollare un istante, dovette sorreggersi a un albero per non cadere.

Quando giunse nel bosco, era quasi giorno, il cielo color ruggine, era denso e pesante. Sembrava potesse schiacciare il suolo, togliergli il respiro. André si guardava attorno, la malinconia riempiva i suoi occhi offuscati e stanchi; cercava in quel paesaggio desolato, qualcosa di antico e familiare: i loro alberi, la casa sulla quercia, il tepore di un rifugio dal mondo.

Gli sembrava immenso, un tempo, e meraviglioso. Un regno incantato, dove tutto era semplice e chiaro, ma, forse, era la presenza di Oscar a farglielo vedere così, perché ora non lo riconosceva. Non gli apparteneva quel luogo.

Gli alberi sembravano scheletri muti, protesi dolorosamente con le braccia verso il cielo, i rami avvizziti si piegavano e scricchiolavano, sotto il peso della neve. Piccoli cumuli si rovesciavano sui rami più bassi, finivano a terra e si polverizzavano nell’aria. Tutto appariva pietrificato, coperto da un velo pallido e glaciale. Per un momento ebbe l’impressione che la terra imbiancata avesse inghiottito ogni cosa, ogni suono, ogni colore, ogni dolcezza.

Il vento soffiava e strideva, come in una bottiglia vuota, sulla superficie del fiume, prigioniero di una sottile lastra di vetro. Ma non si arrendeva, seguiva il suo corso. Perché sognava il mare.

Un silenzio irreale, doloroso e spietato rimbombava nelle sue orecchie e lentamente scavava dentro. Era come il silenzio dei cimiteri solitari e dimenticati, quando solo il vento passa, scorre e geme tra le lapidi fredde e i cipressi curvati.

Strinse i pugni, fino a farsi male, sollevò il volto al cielo, spalancò la bocca, e contro quel cielo scagliò un ruggito, un suono grave. L’unico di cui era capace. Perché non sapeva pregare, né maledire.

Un “NO”, implacabile e fermo esplose dal petto, come un dolore sordo, e divenne fumo, squarciando il silenzio. Gridò, con tutto il fiato che aveva in corpo, dal punto più profondo di sé, dove risiedeva, soffocato, il dolore. Ancora gridò. Fino a quando sentì le vene pulsare e gonfiarsi nella gola. E in quell’urlo di disperazione e furore, lasciò che l’amore straboccasse fino alla superficie, insieme alla più primordiale delle paure: il buio.

Siamo due prigionieri, Oscar.

Chiusi in un mondo senza parole. Esiste un posto dove riporle, custodirle, senza che facciano troppo male? Dove vanno a finire quelle dolorose e segrete? In quale prigione? E quelle delicate e fragili? Dentro quale respiro? E le parole d’amore, quando non possono essere espresse? In quale parte del corpo? Testa, occhi, cuore, pelle, mani. Un po’ ovunque. Io le incido, con linee curve e spezzate d’inchiostro, tra le pagine bianche, in attesa.

Si sedette su un vecchio tronco reciso, si passò le mani tra i capelli punteggiati di neve, chiuse gli occhi, e per qualche istante si sostenne la fronte aggrottata, come a raccogliere pensieri molesti. Infine, estrasse un taccuino e iniziò a scrivere. Anche se le dita gli bruciavano dal freddo e non riusciva a piegarle, lui scriveva. Per sopravvivere. Per sentire che aveva ancora un’anima. Scriveva perché era l’unico modo per parlarle, per sentirla vicina. Perché nonostante il nome di Oscar palpitasse costantemente, nell’aria e nell’anima, non poteva essere mai  pronunciato, rimaneva dolorosamente attaccato alla gola. Allora scriveva. Una lettera dopo l’altra componeva quel nome tanto amato. Come perle preziose infilate in un filo. Anche se sapeva che, probabilmente, lei quelle pagine non le avrebbe lette mai.

Avvicinò le mani a coppa alle labbra. Una nuvola di fiato uscì dalla sua bocca e gli diede un po’ di tepore.

Certe volte vorrei che soffrissi, Oscar, come soffro io.

Vederti piangere per me, insieme a me. Per punirti, per farti sentire nel tuo dolore, il mio. Per ricordarti che la nostra sofferenza ha la stessa radice. È lo stesso sconfinato, segreto, bisogno d’amore.

Quanto gli mancava… lei era così necessaria, che quella mancanza era un dolore reale. Lividi, sparsi lungo tutto il corpo. Un chiodo arrugginito piantato nella carne. Una struggente nostalgia per qualcosa che non sarebbe mai stato, che non avrebbe mai avuto.

In realtà, non poteva dire che era tutto finito, perché niente era veramente cominciato. Perché tra di loro non c’erano stati adii definitivi, né schermaglie amorose e abbracci di riconciliazione, dopo. Non c’erano state promesse infrante dalla vita, come spesso accade tra due innamorati, né mancanze da rimproverare. Lui non poteva pretendere niente, lo sapeva. Perché tutto era nato dal suo cuore ma, era certo, nel suo cuore non si sarebbe spento mai.

E, nonostante questa consapevolezza, soffriva. Si sentiva sprofondare, lentamente, precipitare verso un profondo abisso, andare in pezzi. Troppi anni vissuti nel vano tentativo di tenere insieme tante cose. Ora, improvvisamente, tutto si era sbriciolato, non gli era rimasto più niente. E lui si stava perdendo, in un’esistenza vuota, lasciandosi attraversare dal tempo e dalle cose, senza sentirli, dentro ore stanche, colme di nulla.

A volte, si domandava se fosse ancora vivo, si chiedeva che fine avesse fatto la vita. Gli sembrava che questa lo stesse abbandonando, che uscisse lentamente da lui, come quando il corpo si dissangua, piano, piano, goccia a goccia, attraverso una profonda ferita nella carne. Perché non aveva alcun motivo per alzarsi dal letto al mattino. Non sentiva alcun piacere, alcun bisogno: il sonno, la fame, gli amici, le donne, il sesso, la luce del sole. Rimaneva per ore in silenzio, disteso sul materasso, vestito, le braccia incrociate dietro la testa, con lo sguardo vuoto fissava il soffitto. Guardava senza vedere. Ascoltava senza sentire. Aveva la mente affollata da pensieri ma nello stesso tempo non riusciva a pensare. Si alzava a fatica, solo per il turno di guardia, e poi si buttava nuovamente sul letto, sperando di sognare Oscar, di poterla almeno ritrovare in un angolo della sua coscienza. Era sempre lì, dentro e fuori di lui. Lei entrava, lentamente, nel buio, durante quelle poche ore in cui riusciva a scivolare in un sonno leggero. Lo prendeva per mano e lo trascinava lontano, in un mondo perfetto, dove l’amore era semplice e non faceva male. Ma solo così poteva essere totalmente sua. Non voleva svegliarsi mai. La rivedeva nei gesti lievi e rallentati, quando distendeva le labbra in un sorriso dolceamaro, e lo fissava con quel suo sguardo trasparente, poi reclinava il capo in avanti, piano, come una corolla sul suo stelo, e socchiudeva lentamente le ciglia sottili. La immaginava quando si passava la punta della lingua sulla bocca sporca di cioccolata e, avrebbe voluto essere lui a ripulire quelle labbra perfette, così umide e schiuse e dolcissime. Il suo cuore iniziava a battere veloce e a spingere il sangue nel punto più intimo e dimenticato del suo corpo. Quanto era bella! Quanto la desiderava! In sogno faceva l’amore con lei con estenuante lentezza, o, con  un’urgenza da star male. E lei era sempre meravigliosa. E quando si svegliava e ripescava nella mente quelle immagini, si ritrovava emozionato, ancora eccitato, come se tutto fosse accaduto realmente. Sulla sua bocca sentiva ancora il sapore di quei baci rubati. Alle mani sembrava ancora di toccare i suoi piccoli seni. La pelle ricordava la pelle, e il profumo di lei era ancora nel suo respiro. Ma dopo qualche istante tornava dolorosamente alla realtà e piombava di nuovo nel suo torpore, chiuso nel suo guscio di dolore e solitudine.

Anche Il dottor Lassonne, qualche giorno prima lo aveva visitato, e lo aveva trovato pallido, dimagrito, avvolto in un profondo languore.

“André, ti senti bene? Ti vedo… prostrato” osò domandargli.

“Certo, perché me lo chiedete?” rispose, allarmandosi.

“Vedi… non è solo la tua vista a darmi pensiero, quanto…” fece una pausa e abbassò lo sguardo   “ecco… ma vedi a volte non ci si rende conto di essere…”

“Che intendete dire? Sarei malato?” chiese André, tentando di  mantenere una calma apparente.

“No, non in quel senso…” si affrettò a rassicurarlo, con un lieve imbarazzo nella voce  “forse un eccesso di passioni può… portare alla melanconia”.  André non lo lasciò finire, ringraziò gentilmente e si congedò da lui con un sorriso un po’ amaro.

Melanconia… si chiama così, adesso, l’amore?[1]

In effetti, gli sembrava di essere un pazzo, a volte, uno che vede e sente cose irreali. Sopravviveva aggrappato tenacemente a quel sentimento, alla sua incrollabile fede in quel sogno impossibile. E quella lieve speranza di averla, era anche peggio di una passiva rassegnazione.

Perché nonostante il mondo e l’evidenza, lui continuava ad amarla, di un amore smisurato e disperato. Perché una notte ho sognato che anche tu mi amavi. Piano, mi sussurravi parole d’amore. “Ti voglio bene” – dicevi.

Ma era solo lui a crederlo, mentre tutto il mondo intorno, urlava il contrario. Anche Alain…

 

 

***

 

 

Dalla mia branda, sento il rumore di bicchieri rotti e bottiglie, di pugni inferti contro un tavolo, di voci e  risate. Mi sento ancora più solo in mezzo a tutta questa vita. Ma non esiste più un luogo in cui possa star bene, perché non ho più una casa senza di lei. Solo lei è la mia casa. Sento il sapore del sale sulle labbra e un nodo che mi stringe la gola.

Un rumore di passi mi distoglie dai miei pensieri. Qualcuno si sta avvicinando al mio letto. Con un braccio piegato mi copro gli occhi e tento di nascondere le lacrime, di rimandarle indietro.

“Ehi, André, cosa fai qui, vieni a farti una partita a carte con noi” irrompe Alain nella mia solitudine.

“Mhh no, grazie Alain, ora non mi va…”

“E quando mai ti va di fare qualcosa! Forza, dai, alzati da questo letto o ti verranno le piaghe!”  dice, sollevandomi con forza per un braccio.

“Ti ringrazio Alain, ma…”

“Niente ma. Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria”.

Mi sollevo dal letto lentamente. Ho la nausea e mi sento stordito.

“Accidenti André, non hai un bell’aspetto!” commenta Alain, scrutando le mie occhiaia e i capelli arruffati, che hanno preso la forma del cuscino.

Emergo dai corridoi della caserma come uno spettro, mentre il sole del tramonto riflette i suoi raggi sui cumuli di neve e mi colpisce violentemente sugli occhi. Li chiudo, fermandomi un istante, per abituarmi a tutta quella luce, come un carcerato dopo una lunga prigionia.

Ci sediamo su un gradino, nella piazza d’armi, le spalle appoggiate al muro freddo. Rimaniamo in silenzio per qualche istante. È in imbarazzo. Intuisco che vuole dirmi qualcosa ma non sa bene come cominciare. Tiene gli occhi bassi e sembra stia raccogliendo i pensieri, scegliendo con cura le cose da dire. Si passa una mano sulla nuca. Si toglie il cappello blu della divisa e inizia a stritolarlo e rigirarlo tra le mani. Poi, finalmente domanda, con la schietta onestà di sempre.

“Che ti succede, amico, ti vedo giù…?”

“Cosa dici Alain, sto benissimo…” Rispondo con un sorriso teso ma non so quanto sono convincente, perché dentro, invece, mi sento morire, sono terrorizzato, ho paura di non riuscire a controllare ancora per molto il mio dolore e inizio a sentire le lacrime che vogliono salire.

“Non prendermi in giro, André. Sono preoccupato per te. Dico davvero. Vorrei poterti aiutare…”

“Non ho bisogno di aiuto…” rispondo, con tono sicuro. Ma lui non ci crede e sembra deciso a non mollare. Perché forse Alain conosce il mio segreto. Forse di notte, quando il silenzio copre tutte le cose, ha udito i miei sospiri, insieme ai movimenti inquieti nel letto, fino all’alba. Alain sa. Ha compreso. Perché l’amore non si può nascondere. E nemmeno il dolore.

“Perché non me ne parli? Forse ti sentirai meglio, a volte funziona” dice, e intanto continua a fissarmi negli occhi, mentre io non riesco a sostenere il suo sguardo.

“…”

“Provaci almeno, aiutami a capire…”

Sono davvero incapace di emettere qualsiasi suono. Sento le parole bloccate in fondo alla gola, impigliate alle mie emozioni. E un artiglio affilato graffiarmi il cuore. Non c’è dolore simile che possa essere spiegato.

I miei occhi iniziano a diventare liquidi ma forse posso resistere se continuo a tenere lo sguardo a terra. Appoggio i gomiti sulle ginocchia e la testa nelle mani. Avverto ancora gli occhi di Alain colmi di attesa su di me. E intanto sento la mia pena e il peso di quel silenzio crescere e diventare insopportabili. Infine, libero la verità, velocemente, senza riflettere, senza soppesarla, prima di qualsiasi ripensamento, per non doverla sentire bruciare sulle labbra.

“La amo” proclamo d’un fiato, con voce leggermente incrinata. Disperatamente, penso, ma non riesco a dirlo.

Finalmente percepisco quel suono uscire dalla mia bocca e non dalla mia penna. Dopo tanti anni di silenzi, è come se oramai gli argini si fossero rotti.

Di colpo sento il dolore diventare immenso, irradiarsi nel petto e salire fino agli occhi. Non riesco più a trattenermi. Le lacrime esplodono violente e piango, come non avevo pianto mai. All’inizio la vergogna, come una colpa, mi fa nascondere il volto e la disperazione nelle mani. Quelle prime lacrime sono trattenute, agganciate al mio pudore. Bruciano e graffiano, mentre salgono dalla gola agli occhi. Poi, libere, incontrollabili.

Il dolore e l’amarezza accumulati in tanti anni, traboccano, un fiume in piena. E in quelle lacrime lascio scorrere tutta la mia solitudine, la mia vita inutile e tutti i miei errori. Piango per il fallimento di ogni speranza d’amore, per averci creduto e invece non era vero, perché voglio lei, ma lei non c’è. Mi sento annientato, svuotato, senza più energie.

Alain rimane in silenzio, rispettoso, a fissarmi attento, con un’espressione preoccupata e addolorata insieme. Leggo  stupore nei suoi occhi. Non se lo aspettava. Non si aspettava una reazione così intensa da parte mia. Non immaginava tanto amore insensato, racchiuso in una persona come me. Uno apparentemente schivo. Ragionevole. Non capisce, nessuno può. Attende che mi calmi, poi, quando mi sente respirare regolarmente, mi appoggia una mano sulla spalla, scuotendola, come per consolarmi, e riprende a parlare, piano.

“Va meglio?” C’è apprensione nella sua voce. E io sento la sua vicinanza.

Faccio un cenno affermativo con la testa.

“André, prosegue, – lei è un ottimo comandante, su questo non ho più il minimo dubbio… ma…”

Esita un istante, mentre io con quel ma, mi preparo a ricevere la stoccata.

“È una donna da ammirare, non da amare…”

La sua frase mi trafigge, eppure riesco a rimanere impassibile. Alzo il viso e rincorro il suo sguardo.

“Lei mi ama.” Oso. “Lo capisco da come mi guarda. Da come mi parla… mi ama, credo… ma ancora non lo sa.” rispondo con voce ancora rauca ma sicura, mentre tento di riprendermi la dignità e il respiro.

Mi punta addosso i suoi occhi increduli e tenta di trovare le parole giuste per quell’affermazione assurda. Il suo tono si fa più duro. Esprime una rabbia a lungo celata.

“Tu non ragioni. Nemmeno ti vede quella, anzi, non sa proprio cosa sia l’amore. È… sembra fredda, distante… come fai a…”

“Ti sbagli Alain.” Lo interrompo bruscamente. “Tu non la conosci. Nessuno la conosce veramente. Lei è…” cerco il termine giusto, temo sia eccessivo. Ma non ne trovo altri.

Non ci sono parole, ci sono pensieri. Lei… se penso a lei è … luce.

L’incanto di un cielo azzurro di primavera…

Mi sento sciogliere mentre la penso, mentre, la rendo presente, viva, in quell’istante.

La sua immagine è dentro me, sembra una tela dai colori sgargianti. Ma le emozioni che provo sono talmente tante e talmente intense da impedirmi di esprimerne tutta la bellezza, è come un’opera rimasta incompiuta.

Sento affiorare il sorriso sulla mia faccia e i miei occhi si accendono di vita. Alain, invece, si rabbuia, scuote la testa e mi impedisce di continuare.

“Sei ancora in tempo…” esita un istante, prima di infliggermi il colpo definitivo  “Allontanati da lei. È un amore impossibile, ti farà solo male.”

Vado a ripescare pensieri e sentimenti lontani, serrati in fondo all’anima. Li faccio emergere, rendendo consapevole la mia coscienza. Sembrano drammatici, eccessivi, ma io ora mi sento libero.

“Non posso… non posso. È più forte di me quest’amore. Mi precede, mi supera. Non c’è rimedio. Io esisto solo quando sono con lei. Perché so cosa siamo noi due insieme… Io vivo per amarla e non voglio salvarmi. Voglio starci dentro… È tutto quello che ho, tutto quello che rimane di me”.

È troppo grande quello che ho detto. Non si può rispondere a qualcosa di così struggente e incomprensibile. Sa di infinito. Fa paura. Alain arretra di fronte alla mia confessione intensa e sofferta. Meglio cambiare argomento.

“Perché non vieni con me questa sera. Esco con una ragazza, porta un’amica… è graziosa…”. La sua voce ora è più morbida, quasi una supplica.

“No… no…”

“Perché no?! Ti farà bene distrarti un po’…”

“…”

Alla fine, inizia a spazientirsi di fronte alla mia ostinazione.

“Per una volta piantala di fare il damerino, metti da parte i tuoi stupidi princìpi e vivi!”.

“…” Non è per quello, Alain… ma come faccio a spiegartelo?

“Senti… ma perché vuoi continuare ad essere fedele ad una donna che nemmeno ti pensa… Davvero, nessuno ti offrirà una medaglia per questo. Ma non provi il desiderio di andare con una ragazza, dimenticare tutto…?”

“No”.

“Andiamo, non posso crederlo… non mi dirai che…”

“Non ne sento il bisogno. Tutto qui...” Questa volta Alain rimane muto, sembra disarmato, arreso, perché abbassa la testa e fa un lungo sospiro. Provo quasi tenerezza per le sue premure: dietro un’apparenza rude c’è una persona generosa.

“… E poi non sarei di buona compagnia… Ma apprezzo il tuo interesse, Alain, davvero. Sei un buon amico”.

“E allora vieni con me. Solo questa volta. E poi giuro che non te ne parlerò mai più”.

Sembra una supplica il suo invito. La sua espressione è colma di speranza.

“…”

Il mio silenzio e un sospiro rassegnato rispondono per me. D’accordo Alain, hai vinto. Cedo alle sue insistenze. È riuscito a strapparmi un sì, alla fine. Amaro, incerto, ma pur sempre un sì. Saranno state quella sensibilità ruvida, quell’apprensione fraterna o, forse, semplicemente, quel bisogno, molto umano, di scrollarmi di dosso un po’ di dolore e solitudine.

Alain si alza e a passi lenti si avvia verso la caserma, lasciandomi solo con i miei pensieri. Lo chiamo, mentre è di spalle, poco distante.

“Alain…”

Si blocca, con le mani in tasca. Si volta, mi guarda e aspetta. Non so come esprimergli il mio affetto, ma devo in qualche modo dirglielo…

“Grazie…”.

Solleva il dito medio verso di me, tira le labbra da un lato, in un sorriso obliquo, poi prosegue, con la testa bassa e le spalle un po’ curve.

Infine lo sento mormorare: “Fatti la barba. Devi essere bello questa sera!”

 

                                                                       ***

 

Mi vesto lentamente. Non ho voglia di andare. Camicia bianca e giacca marrone. Fuori la neve scende lenta, oscilla leggera nel cielo bianco. Esco, e il freddo mi colpisce la faccia, come uno schiaffo. Mi sento nudo, gelato, da dentro. Ritiro il collo e mi nascondo dentro il mantello di lana. Sulla strada solitaria sento solo il rumore ovattato dei miei passi.

Eccolo Alain, mi fa un cenno con una mano. È in compagnia di due donne. Sospiro, per affrontare una serata che non vorrei. Saluti, sorrisi di circostanza e cortesia, occhi che scrutano, indagano, spogliano. Il rituale delle presentazioni è iniziato. Pronunciano  i loro nomi ma non li sento. Che ci sto a fare qui? Mi sento fuori posto. Sorrido e invece vorrei piangere. Rimango immobile sotto i loro sguardi ammirati, e invece vorrei fuggire, lontano. Dalla mia bocca escono suoni, ma non sono io a parlare.

Infine, non so come, mi ritrovo da solo con lei, in camera. Non è male, ma se l’avessi incrociata per strada, non l’avrei notata. Non ricordo nemmeno il suo nome.

Scruto il suo corpo, indossa un corsetto rosa che la strizza ferocemente. Ma come fa a respirare?  Le calze bianche, fermate da un nastrino le avvolgono le gambe piene. Rimango come un ebete ad osservarla mentre si spoglia, poi mi scuote con la sua domanda.

“Mi aiuti?” Chiede, con un tono malizioso, e si volta di schiena, mostrandosi. Le mie mani tremano e si muovono confuse tra i laccetti. È una sensazione strana e nuova quella che provo di fronte al corpo nudo di una donna. Si  avvicina, afferra la mia testa e mi bacia con forza e passione. Io rimango immobile, stupito, con le braccia ferme lungo i fianchi, senza sapere bene che fare, mentre lei mi spinge la lingua tra le labbra.

“Non ti piaccio?” Mi domanda, lasciando intendere una punta di insicurezza.

“No, sì… sei molto graziosa…” la tranquillizzo, io. Prende la mia mano e se la passa sul seno, e io provo un brivido sotto la pelle.

“Tu invece mi piaci moltissimo, sai… ”  mi sussurra in un orecchio e lo morde. E mentre i suoi occhi scuri mi scrutano eccitati, insinua “E’ la prima volta?” Non rispondo. Meglio non dire niente, mi sento già abbastanza in imbarazzo così…

“Bevi un goccio, dai, ti sentirai meglio” suggerisce, mentre mi appoggia il collo di una bottiglia di vino alle labbra. Ubbidisco, così posso non pensare, posso cancellare ogni cosa. Perché sono stanco di essere un bravo ragazzo. Questa sera non voglio esserlo. E sono stanco di pensare a Oscar, di portarla sempre con me. E anche se la mia mente e il mio cuore non vorrebbero trovarsi qui, insieme a questa sconosciuta, di cui non provo niente, questa sera mi sento terribilmente solo e disperato. In questo momento ho solo bisogno di affetto e calore. Da star male. Mi manca il fiato per quanto è forte questo bisogno. E per una volta vorrei toccare la pelle liscia di una donna, per una volta vorrei sentire le sue carezze su di me, sentirmi amato e desiderato. Anche se questa donna non è lei. Non è Oscar. Ma vorrei potesse vedermi, sentirsi morire dalla gelosia. Guardami, Oscar. Sto per fare l’amore. Cosa provi? Fa male? Sto ancora pensando. Il vino ancora non fa effetto.

Mi prende per mano e mi spinge sul letto. Io sono senza volontà, come un burattino. Mi bacia di nuovo, infila una mano nei miei pantaloni. “Lasciati andare” mi sussurra sulle labbra. Cerco le parole ma non mi viene in mente niente da dirle. Intanto mi spoglia e dall’espressione sembra apprezzare. Si sdraia su di me, avverto il tepore del suo corpo e mi sento un po’ più caldo.

Inizia a muoversi, sinuosa come una gatta, mentre io rimango con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto, allungato e teso, sulle lenzuola ingiallite. Con una mano mi accarezza il ventre, lentamente scende giù, più giù. Oh sì, così…!

Si mette a cavalcioni su di me, tanto bagnata che quasi non avverto nulla in quel contatto. Posa le mani ai lati delle mie spalle. Le mie, ora, stringono i suoi fianchi e ne seguono il ritmo. La guardo, mentre si muove veloce su di me. Ma poi chiudo gli occhi per non vedere. Mi sembra brutta e volgare, ora, mentre si contrae dal piacere. Vorrei riuscire a non percepire il tanfo di questa stanza, di tutto questo. E vorrei non udire più nulla, i rumori della stanza vicina e il pianto di bambini, il cigolio del letto che mi penetrano nelle orecchie. Alla fine non sento più nulla, quando si preme contro con forza. Fino in fondo.

Poi, è un attimo e mi allontano. Non devo agire con leggerezza. Non posso farle del male. Non voglio che ci siano conseguenze dei miei errori, delle mie fragilità. Niente mi potrebbe giustificare. E non desidero lasciarle nulla di me, se non il ricordo, un po’ sbiadito, di un uomo solo, che in una fredda notte d’inverno cercava soltanto un po’ di sesso.

Ho goduto senza sentirlo veramente il piacere, perché la coscienza e lo spirito sono scivolati via. Il corpo sul letto e l’anima a terra, insieme ai vestiti.

“Ti è piaciuto?” Irrompe lei, ancora ansante, dopo qualche istante di silenzioso disagio.

“Sì, certo” le rispondo, non troppo convinto, mentre cerco i pantaloni con una mano. Forse dovrei farle la stessa domanda, per gentilezza, per galanteria. Ma le parole non mi escono e la risposta non mi farebbe stare meglio. Non mi sentirei più uomo. Sento crescere l’amarezza, invece. E la solitudine che sembrava lontana per qualche istante, si para dentro, e riprende il suo posto.

“Devo andare.”

“Di già?” Domanda lei, delusa.

“Devo alzarmi presto domattina, sono di guardia”. Rispondo con una bugia, mentre avverto il senso di colpa insinuarsi nel cuore.

“Ti rivedrò? Mi piacerebbe…”. Chiede, ancora nuda sul letto disfatto, mentre io sono già davanti alla porta, con una mano sulla maniglia. Abbasso la testa, e non ho nemmeno il coraggio di voltarmi. Ora sì che mi sento un vigliacco, ma almeno riesco ad essere sincero.

“No, non credo… mi dispiace…”.

Esco. Fuori è buio e il freddo mi gela il sangue. Meglio. Mi stordisce, mi impedisce di pensare. Il cielo è senza luna e senza stelle, stanotte. I fiocchi candidi danzano nella luce soffusa dei lampioni. Cammino lentamente sotto la neve, che ora scende copiosa e mi imbianca i capelli. Non voglio tornare a casa, da lei. Non ancora. Mi sento sporco. Mi fermo, con le braccia aperte e la faccia al cielo. Così mi sembra di poter lavare il corpo e i pensieri e l’anima. La neve precipita con più forza, ora, sferzando nel vento freddo. Non riesco a tenere gli occhi aperti. Abbasso le palpebre, avverto i fiocchi ghiacciati sulla pelle sottile e mi abbandono a quella sensazione di vuoto, lasciandomi bagnare il viso… di neve o di lacrime?

 

                                                                       ***                 

 

 

“André… André, dove sei?”

L’ha cercato ovunque, e nella sua stanza è tutto in ordine. Non c’è nulla fuori posto. Osserva il suo letto rifatto e sente una fitta nel ventre. Una sensazione strana, nuova, di bruciore e piacere.

Dietro la finestra si affaccia il mattino. Ma lui non c’è.

L’arredamento è semplice, sobrio: un letto, un armadio, uno scrittoio, diversi libri impilati. Una rosa bianca sul comodino china la sua fronte. Aleggia ancora il profumo di André nell’aria, l’accarezza e la fa rabbrividire. Chiude gli occhi e inspira profondamente, cerca di colmare quel vuoto che sente, quell’inspiegabile mancanza.

È chiaro che non ha dormito nella sua camera. E la notte è stata rigida, la neve, è precipitata con forza, vorticando nell’aria fredda. Nessuno si sarebbe avventurato per le strade con quel tempo.

Dove sei? Sente una strana inquietudine, e un’emozione sconosciuta pizzicarle il cuore. Amarezza e delizia. Tormento e ardore insieme. Ma non si domanda la ragione di quel turbamento, di quei sentimenti disordinati e confusi che scalpitano sotto la pelle. Dovrebbe fermarsi, guardarsi dentro. Ma lei proprio non riesce. Darsi delle risposte fa troppo male. Preferisce agire. E d’impulso decide. E allora le gambe scattano, prima del pensiero, più veloci del cuore.

È sempre stato così. Lei il mare agitato, lui la terra mite e accogliente. Insieme, il punto dove la risacca e la sabbia si sfiorano. L’istante in cui le onde impetuose cedono, si addolciscono, arretrano; e la spiaggia si dissolve in quell’infinita distesa oltremare.

Monta a cavallo, stringe le redini nelle mani ghiacciate, non sa bene dove andare, dove cercarlo, ma si lascia condurre, tra i sentieri imbiancati di neve, sfidando il vento gelido di quell’alba d’inverno. Le guance sono arrossate e gli occhi lacrimano, ma non è solo per il freddo. Il fiatone diventa una nuvola e i pensieri sono sassi. Dove sei? Lo ripete un milione di volte. Con insistente apprensione. Ma André lo sa che forse dovrebbe farsi lei quella domanda. Perché da sempre si nasconde a se stessa. Dove sei, Oscar? Dove ti nascondi?[2] Sa che se  lei si rispondesse onestamente, ritroverebbe anche lui.

Ma Oscar non si accorge di tante cose. Non si chiede nemmeno perché ora si trova in quel bosco dimenticato. Le è sembrato di sentire la sua voce, triste, che urlava il suo nome e aveva bisogno di lei. Come un’eco lontana, un richiamo, e l’ha seguita. Percepisce la sua presenza. È nell’aria e in ogni sospiro. E lo sente così solo e disperato!

C’è uno strano tepore, in quel luogo, e un silenzio ovattato, irreale. Un dolce pallore avvolge le cose e le annulla alla vista.

Cammina lentamente, cercandolo con lo sguardo colmo d’ansia. Cerca di catturare ogni particolare, ogni anfratto, ogni dettaglio, mentre macina pensieri e ricordi insieme. Attraversa, piano, il ponticello di legno, tra le due sponde del fiume. Le assi sono umide e un po’ sollevate, si muovono e scricchiolano sotto i suoi piedi.

Il salice è sempre lì, elegante e morbido, un po’ obliquo, sul ciglio del lago. La quercia acquatica, sostiene ancora i resti di un’antica dimora. Tra i suoi rami spogli troneggia una piccola capanna di legno.

Ricordi, André, ricordi la nostra casa? L’avevi costruita con i tuoi sogni. Da lassù, ogni giorno guardavamo insieme il mondo, vicini al cielo. E me lo restituivi quel mondo, reso nuovo dal tuo sguardo. In quella casa scrivevi e scrivevi, accucciato sulle assi di legno, fino a quando la luce del giorno non si consumava davanti ai nostri occhi. E io ti osservavo in silenzio, un po’ stupita, un po’ incantata, mentre dalla tua penna scorreva la vita, quella che vivevi e quella che avresti voluto. Era il tuo dono d’amore per me.

“André…” chiama ancora. La sua presenza si fa più forte. È pienezza. Sono giorni che non riesce ad incontrarlo. E ha una profonda nostalgia di lui. Le manca ogni cosa, anche la più piccola, la più insignificante, quei suoi semplici, impercettibili gesti quotidiani, quel suo conoscerla nel profondo.

Si accosta lentamente alla quercia e posa le mani sulla corteccia ruvida, scolpita da profonde cicatrici. Le stesse che ha lei nel cuore. Chiude gli occhi, per sentirne la vita che scorre dentro, per mettere a fuoco un ricordo, un rimpianto. Poi, di colpo, senza preavviso, mille emozioni la investono. Il cuore si ferma un istante e spinge avanti un pensiero.

Tu proteggerai la regina, Oscar, e io proteggerò te.

In quel luogo si nascondono i suoi ricordi più belli, più veri, e un solo nome: André, l’uomo della sua vita.

Oscar…

Dimmi pure André, ti ascolto.

… Oscar, non è ancora troppo tardi, fermati, e diventa una donna.

E anche se si sente confusa e strana e spaventata, questa volta non scappa. Resta. E ascolta, la storia eterna di un antico amore, che sussurra un segreto. E le svela il mistero.

Una rosa è una rosa anche se essa sia bianca o rossa. Una rosa non sarà mai un lillà.

… Io ti amo. Credo di averti sempre amato.

E ancora ricorda. Ripensa a ogni cosa di André e di loro due insieme. Le parole di tenerezza, le paure confessate e accolte, i sogni e le speranze sussurrati con timida dolcezza. Com’era quando tutto ci stupiva? Quando lo spettacolo della vita ci faceva sgranare gli occhi e il sorriso?

Trema, quando sente risuonare dentro la sua voce. Quella voce che da sempre la sorprende e la incanta. L’ha conosciuta mentre attraversava tutte le età della vita. Le piace assaporarne ogni sfumatura, il timbro, il ritmo, il suono, il calore. È come una musica dolce, un liquido caldo che scivola dentro, sotto la pelle, e sa placarla e scaldarla, fin da bambina. Le piace il modo in cui parla, come mette insieme le parole. La profondità che sa dare ai suoi pensieri. La prendono per mano e l’aiutano a capire il mondo, a capirsi.

Immagina la curva lieve delle sue labbra, quando si illumina di una gioia tenue. A volte diventa dolce e indulgente, a volte, assume una piega ironica, capace, in un istante, di stemperare un clima di tensione. Da quanto tempo non lo vede più sorridere? È come se il suo bellissimo sorriso si fosse spento, insieme alla luce nei suoi occhi. Ed è colpa sua.

Più di tutto ha nostalgia del suo sguardo morbido e carezzevole su di lei, colmo di attenzioni e tenerezza. È un vestito, una seconda pelle, un confine. La fa sentire al sicuro. La fa esistere. Nessuno l’ha mai guardata in quel modo. Nessuno l’ha mai fatta sentire tanto amata. Ora, invece, si sente sola, vuota, nuda, senza quello sguardo. Perché la sua presenza è lieve, ma necessaria. Perché lui guarda ma non dice. Osserva ma non tocca. È presente ma non invade. È distante ma protegge. E ora il tempo e il dolore l’hanno privata di quelle parole, di quella voce, di quello sguardo. E lei nemmeno si era resa conto di quanto fossero importanti.

Guardami, André, guardami ancora, e dimmi se questo è amore. Dimmelo tu, André!

Di nuovo grida il suo nome. Come un’eco risuona tra gli alberi. Non un sussurro, non un fruscio. Solo un battito di cuore, e un silenzio di attesa.

Sento la tua voce, Oscar, grida il mio nome. Eccomi, sono qui. Un momento. Ancora un istante e arrivo. Un istante ancora… Ma perché mi cerchi fuori? Cercami dentro di te. Abito il tuo cuore, da sempre.

Avverte un brivido percorrerle la schiena e il tepore del suo abbraccio rassicurante.

Si sente così confusa, sono nuove quelle emozioni che si agitano dentro. Ed è terrorizzata dall’intensità di quel sentimento, teme che possa impadronirsi di lei, trascinarla via, trasformarla totalmente. Non sa come gestirlo. Da dove cominciare. Quello che prova per lui è qualcosa di così prepotentemente forte e sorprendente da lasciarla senza fiato.

Non sa se è amore, o forse sì, per anni le è rimasto accanto, senza saperlo riconoscere, né esprimere. Non si è accorta quando è nato. Non può dire il momento preciso. È cresciuto piano, in silenzio, e poi di colpo. Improvvisamente. Imprevedibile, come un campo di papaveri dietro una curva, quando tutto quel rosso ti fa spalancare la bocca per la meraviglia. Ma, André ha sempre saputo che piccolo, nascosto, non significa nullo. Ha sempre creduto che dentro quell’improvvisamente, c’è tutto il senso dell’amore… e della vita.

Piano, nella quiete che avvolge tutte le cose, Oscar si guarda dentro, nel suo mondo smarrito. Ascolta: la paura che piano scivola via, un senso di pace che si espande dentro, qualcosa di dolce che si posa sul cuore, il respiro che si fa calmo e rallentato. Si ascolta, come gli alberi d’inverno; consapevole che, da sempre, attraverso gli occhi di André, guarda la vita, la sente, l’affronta. E, grazie al suo amore, sa di essere donna. Amabile e forte.

Ora tutto le sembra più chiaro. Ha capito. Ha compreso. Adesso sa che è sempre stato amore. Perché questa notte ho sognato che ti amavo.

Lentamente, si lascia scivolare a terra, le spalle appoggiate al tronco della quercia, salda e solenne. Si arriccia su se stessa e appoggia il mento sulle ginocchia, strette tra le braccia, come faceva da bambina, quando si esiliava dal mondo e pensava. In silenzio osserva il fiume, tanto limpido e chiaro da mostrare il fondo. Nei suoi occhi c’è l’incanto, adesso. E la freschezza di uno stupito amore. Poi, finalmente, lascia andare un sorriso bagnato di lacrime. Per lui.

Un ramo sottile e invincibile di calicanto emerge dalla neve pulita e nuova. I suoi fiori piccoli e profumati aprono gli occhi al cielo, senza curarsi del freddo e del gelido inverno. Resistono. Vivono. Forse è profezia. Forse è quasi primavera.

Il vento è pungente, ma ha vinto le nubi. Un pezzo di cielo ora, si spalanca e si svela. Sui rami spogli, le stelle di ghiaccio scintillano come cristalli. E, tutto intorno si fa luce.


 

[1] In verità, il termine Melanconia, non era ancora conosciuto a quel tempo (tantomeno come malattia). Qualche anno più tardi, nel 1801, il medico francese Philippe Pinel (considerato il padre della moderna psichiatria), scrisse il Traité médico-philosophique sur l'aliénation mentale, dove classificò le malattie mentali, tra cui la Melanconia.

 

[2] Ispirata da M. Buber, Il cammino dell’uomo.

 

Pubblicazione del sito Little corner settembre 2014

vietati pubblicazione e uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Mail

 

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage