Torneranno le rondini - Inversioni

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Premessa:

Il 12 dicembre 1777 il ministro degli esteri francese, Charles Gravier conte di Vergennes, convocò in segreto Franklin assieme a diplomatici statunitensi per iniziare i negoziati per un’alleanza, che fu perfezionata nei mesi seguenti. Il 6 febbraio 1778 fu firmato, grazie al lavoro diplomatico di Franklin, Beaumarchais e Vergennes, il "Trattato di amicizia e di alleanza" tra la Repubblica degli Stati Uniti d'America ed il Regno di Francia, nel quale la Francia si impegnava per un “pieno appoggio per mare e per terra”.

A corte, molti si opponevano: non solo i conservatori, ma anche Jacques Necker, consapevole della situazione economica del paese, e perfino il sovrano stesso, che, tuttavia, si lasciò convincere da Gravier de Vergennes a firmare il trattato.

Ratificata l'alleanza, si mobilitò subito un corpo di spedizione.

 

In seguito, nell’estate del 1782, anche a causa della situazione economica americana, le ostilità erano di fatto cessate, tuttavia fu solo il 3 settembre 1783 che fu siglato il trattato di Versailles, che segnava la fine di otto anni di conflitto.

 

In questo racconto di fantasia Fersen non è ancora partito per le Americhe.

 

Vorrei chiudere gli occhi. Dormire. Scivolare in un sonno profondo e senza sogni. Ma sembra che per quanti sforzi io faccia, non riesca a non guardare. A non vedere. Vedo troppo. Sento troppo.

Dalla finestra spio questa notte. Sembra serena. Tutto sembra sospeso, abbandonato, come dentro una bolla, un incantesimo. Anche il parco, dall’alto appare come una terra immota nel tempo, un luminescente mare blu, nella luce azzurrina della luna piena, che rischiara e sfuma appena il cielo attorno.

E quasi mi rasserena udire i grilli, che tacciono a momenti come in attesa di una parola, in ascolto di ogni alito di vento.

 

Lei dorme. È bella, tranquilla e in pace. Dorme e respira. Piano.

Lui è ancora sveglio. Nell’oscurità del suo petto il battito segna inesorabile il tempo. Trattiene il respiro. Negli occhi aperti nel buio, un dolore nascosto.

Se ne sta seduto, in penombra, sul divanetto, con i gomiti sulle ginocchia e le mani nelle mani.[1]

La ascolta respirare. Veglia sul suo sonno, cullandola con lo sguardo.

Dopo un po’ si alza, piano, per non svegliarla. Si avvicina alla scrivania, e dal cassetto estrae un foglio, una boccetta d’inchiostro e un pennino. La penna scorre, si ferma, poi di nuovo riparte, a tratti.

Nel silenzio si avverte il fruscio sulla carta, è come se in quelle pause André volesse riprendere fiato, ritardare di qualche istante la conclusione.

 

Mia amata Oscar,

perdonami se oso definirti “mia”, ma non posso fare a meno di sentire che mia un po’ lo sei. Per quel senso di appartenenza che tutti abbiamo bisogno di provare, per sentire di esistere, almeno per qualcuno.

 

Si ferma di colpo e guarda fuori. Una macchia d’inchiostro interrompe il flusso delle parole. È distratto, perso in troppe riflessioni. La luna sembra vicinissima, galleggia dolcemente nella fontana, frantuma l’acqua in un’infinità di schegge d’argento, rende diafani i fiori nel parco.

Il rapido passaggio di una brezza solleva piano la tenda, destandolo. Affonda la fronte nelle mani, per mettere in ordine i pensieri, poi torna a guardare il foglio e prosegue, lasciandosi guidare dalle emozioni che lo accompagnano sulla punta delle dita.

 

Quando leggerai questa lettera io sarò già lontano, su una nave carica di soldati e di illusioni, verso una terra lontana e sconosciuta: l’America.

Vorrei  riuscire a spiegarti le ragioni di questa scelta improvvisa, poterti dire che questa partenza è solo il frutto di un sogno di libertà, di un mondo migliore. Libertà di vivere. Libertà di amare.

Vorrei farti credere che il bisogno di dare il mio contributo in una terra ferita dalla guerra è più forte di ogni mio bisogno personale. Ma non è così. Non è solo questo. Non sono un martire. Non sono un eroe. Forse sono solo un vigliacco che fugge, o un impostore che mescola le carte. Dietro ai miei alti ideali, al desiderio di contribuire al bene, si nasconde una ragione meno nobile. Sei tu che mi spingi lontano.

 

André si volta e guarda fino alla fine del raggio di luna che si allunga sul letto. E su di lei ferma il suo sguardo. È impossibile resisterle. Lei è come una forza che attrae tutto.

Si avvicina, si inginocchia al suo fianco, e rimane a fissarla a lungo. È distesa, in un languido abbandono.

Gli ricorda la bellezza delle stelle, o delle lucciole d’estate, quando si guardano dietro agli occhi velati di lacrime e appaiono un po’ tremule e offuscate. Lui la vede così, illumina ma non troppo, splende ma non abbaglia nell’aura d’oro dei suoi capelli sparsi sul cuscino, della sua pelle sottile, dei lineamenti delicati come vetro dipinto. Sembra così leggera, impalpabile. Ha le braccia piegate, abbandonate sopra la testa, nel volto come un candore innocente. La camicia bianca un poco aperta, a mostrare l’incavo tra il collo e il petto che si solleva piano, piano, mentre schiude appena le labbra ed emette un profondo sospiro. Ma continua a dormire. È in un mondo lontano. Sogna e non sa cosa si agita nel cuore di André, quanto gli costa quell’amore silente. Si sente pervaso da una tenerezza struggente. Uno stupore indicibile. Una sensazione così forte che ha persino paura di non riuscire a gestirla. Si avvicina. Ancora. Un po’ di più.

Un filo d’aria separa le loro labbra. Ma si ritrae. Allunga una mano e le sfiora i capelli e una guancia, un’impercettibile carezza. Avverte il fiato caldo sulla punta delle dita, il suo profumo lieve, la pulsazione placida della vena nel collo. E per un momento si sente arreso, pensa che non riuscirà mai a lasciarla, ad abbandonare quella stanza. Eppure deve farlo. Fuori è ancora buio. Ma il giorno si avvicina, e l’ansia cresce. Deve concludere in fretta la lettera, prima dell’alba, prima che lei possa svegliarsi.

 

Ho saputo che sposerai Fersen. E io non riesco più a viverti accanto con questa pena.

Sto male, Oscar. Sono così disperato, che sto morendo lentamente. E io non voglio morire. Non così. Voglio prendere tra le mani  la mia debolezza e trasformarla in forza. Voglio inseguire la vita, ritrovarne il senso, il gusto, provare a desiderare ancora. Perché mi sono smarrito, e forse lì, in America, ritroverò me stesso. Guardando in faccia la morte, potrò ricominciare a guardare la vita dall’unica prospettiva possibile: la speranza.

Non darti pena per me, starò bene. Ho avuto un buon compagno d’armi.

Io ti penserò felice.

 

Si ferma ancora un istante davanti alla lettera. Rilegge con attenzione, un’altra volta. Distilla le parole, rigirandole nella testa. Le più importanti. Le più autentiche. La sintesi. L’unico senso a tutto.

Vuole pensarci bene, per non turbarla. Spero tu possa perdonarmi. Spero tu possa dimenticarmi in fretta.

Infine, deciso, solleva la penna e aggiunge ancora poche righe, fissando d’inchiostro gli ultimi pensieri.

 

Ma ora devo dirtelo, non posso più tacere. Lo farò piano, con dolcezza, per non farti male…

 

Una pausa ancora. Un’incertezza. Un sospiro…

 

Ti sussurro un segreto, ti svelo un mistero: io ti amo, Oscar.

 

Trattiene le lacrime, nella gola è come se avesse un grumo. Ma sente quella confessione  sgorgare finalmente libera dal cuore.

Ed è così dolce poterlo scrivere!

 

Ti amo da sempre. Ti amerò finché avrò vita.

 

La notte incomincia a scolorire, lasciando spazio al giorno. È tempo di andare.

André soffia sull’inchiostro umido, ripiega con cura il foglio, e lo infila tra le pagine di un libro antico e dimenticato.

Con una mano sulla maniglia si volta, e per l’ultima volta posa su di lei il suo sguardo, velato da un’ombra di rassegnata tristezza.

Lei ancora dorme. Ma sarà per poco. Perché l’alba, lentamente, scivola sulle sue palpebre.

 

Addio.

André.

 

Si chiude la porta alle spalle e, in punta di piedi, in silenzio, se ne va.

 

 

                                                           ***

 

Sei andato via poco prima dell’alba. Nella quiete della casa ancora assopita, hai raccolto poche cose, ma era tutto quello che possedevi. Spoglia e desolata è rimasta la tua stanza. Come se avessi voluto cancellare per sempre ogni traccia della tua presenza tra queste pareti. Come se fosse possibile! Qui tutto parla di te.

Andandotene ti sei portato via ogni cosa bella: la forza della tua gentilezza, e un mantello bagnato di pioggia. La parte migliore di me.

Dicevi che tu eri il buio e io la luce. Ma se potessi vedermi capiresti quanto ti sbagliavi.

Hai lasciato solo una lettera. Troppo breve. L’ho trovata troppo tardi. Forse temevi di essere dissuaso. Eppure non hai avuto ripensamenti. Non ti sei voltato indietro. Anche se il dolore spingeva dietro gli occhi e nel petto; e hai provato un brivido mentre i tuoi passi risuonavano nel silenzio della strada solitaria, e ti sei stretto nella tua giacca marrone. Ma forse era per l’aria fresca e rarefatta di un giovane mattino non ancora pieno, avvolto nella bruma di un pallido sole di primavera.

 

                                                                       ***

 

La luce del pomeriggio filtra dalla vetrata e allaga la stanza. È così intenso quel bagliore, che Oscar lo sente attraversare la pelle sottile, e ne avverte il tepore sul viso.

La portafinestra, in controluce, sembra una grande tela bianca, un antico dipinto che raffigura un uomo seduto davanti ad un tavolino; una donna in piedi davanti ai vetri; e sui lati, due felci nei vasi. È una scena talmente immobile da sembrare finta. Solo minuscoli granelli di polvere d’oro si muovono, galleggiando sospesi nell’aria.[2]

La luce non fa rumore, ma Fersen sì. Parla, parla, con un tono lento e monotono. È come una nenia, un malinconico sottofondo musicale.

“In America… certo che è lontana… non hai desiderio di rivederlo? Sai, dicono che la sua nave salpi tra qualche ora…”

Oscar vorrebbe non essere lì. Vorrebbe urlare. E forse l’ha fatto quando ha letto la parola addio e il foglio è scivolato dalla mano fredda; e invece non è uscito alcun suono dalle sue labbra. Eppure avrebbe voluto dirgli tante cose. Se solo avesse capito prima! Ma come poteva?

Di colpo si sente vuota. Senza pensieri. E senza desideri. Avverte un acuto, indecifrabile dolore. Un sentimento dirompente di solitudine e abbandono. Come uno strappo violento. Un lutto. È strano, perché c’è Fersen accanto a lei, l’uomo che ama. Seduto, sorseggia lentamente il suo caffè. Ogni tanto la scruta, spiandola di sottecchi. Si aspetta una risposta, una reazione qualunque a quella notizia così improvvisa e definitiva, ma niente sembra scuoterla. Lei non tradisce alcuna emozione, non esprime né paura, né dispiacere. È impassibile come fosse priva di vita.

Quando il silenzio diventa troppo gonfio e pesante, Fersen si alza. Si ferma un istante al centro della stanza prima di allontanarsi, e si volta verso di lei “Ah! Oscar, dimenticavo che devo andare a Versailles…”

Oltre i riquadri dei vetri il sole tramonta, la luce muta in una sfumatura d’oro e arancio, e le prime ombre della sera si distendono sul pavimento e sul suo profilo.

Lei non gli risponde. Sembra che niente riesca a raggiungerla là dove abitano i suoi pensieri.

Appoggia la fronte contro il vetro, e lascia andare una lacrima, a lungo trattenuta. Poi, nel vuoto della stanza, si leva un sussurro, come una preghiera:

“Non morire  André!”.

 

 

                                                                       ***

 

 

 

Il cielo sembrava scomparso. Caduto. 

Il buio si chiuse in fretta attorno a lui. Lo avvolse con le sue enormi, fredde ali nere. Inghiottì ogni cosa, mescolando mare, terra e cielo, e André si ritrovò a galleggiare sospeso nel vuoto; sbatacchiato dal vento come un secchio in un pozzo senza fondo.

Non esisteva più niente. Non c’era principio, né fine. Tutto sembrava fermo, finito. Metteva i brividi quell’oscurità.

Eppure, più giù, nel silenzio profondo dei fondali, nel cuore liquido e segreto del mare, era tutto un pulsare di vita, un tripudio di colori, di pesci, coralli e tesori sommersi.

Il vento gonfiava le vele, faceva ondeggiare la nave. La lunga scia di schiuma sulla cresta d’acqua d’argento, l’unica cosa debolmente visibile agli occhi, si apriva in due e scorreva, scrosciando sulla carena. Gli schizzi d’acqua nebulizzata arrivavano fino al viso, imperlando le ciglia e i capelli. Quell’aria frizzante toglieva il sonno, svegliava dal torpore ogni muscolo, penetrando nelle ossa attraverso il tessuto della giacca umida. Ma André rimase lì, fermo, sul ponte, lo sguardo lontano. Sollevò il bavero sul collo e incassò la testa nelle spalle. Respirò il mare; a zaffate gli arrivava l’odore di salsedine nelle narici. Chiuse gli occhi e ripensò alla partenza. Il porto. La nebbia come fili di ragnatela. La folla. I saluti. Fazzoletti e mani che si agitavano. Le lacrime e le raccomandazioni delle madri. I baci e le promesse delle spose. Veniva da piangere. Per lui nessuna presenza. Nessuna parola. Nemmeno un abbraccio. Era Solo. Ma era meglio così, pensò poco convinto. Era quello che voleva, in fondo. Nessuna tentazione di tornare indietro, di cambiare idea. Nessun doloroso addio imbevuto di lacrime.

Dal buio, improvvisamente, sbucò un ragazzo, rompendo il flusso doloroso dei suoi pensieri. André era troppo assorto per notare che da qualche minuto lo stava scrutando con i suoi curiosi occhi scuri.

“Mi chiamo Louis” gli disse, affiancandosi e allungando una mano a stringerla nella sua, con forza. Aveva voglia di parlare con qualcuno; era troppo lungo, troppo penoso quel viaggio per affrontarlo da soli.

“André” rispose, e tornò a guardare il mare.

“Perché sei qui?”

“Per le tue stesse ragioni, suppongo” rispose malvolentieri, senza distogliere lo sguardo da un indefinibile orizzonte, e sperando che quella conversazione finisse lì.

“Mhh… no, non credo… tu hai la faccia di uno che va in guerra per una giusta causa”, insistette il ragazzo.

André sorrise un poco per quell’affermazione, una giusta causa… si voltò a guardarlo e gli chiese: “E quale sarebbe la giusta causa?”

“La patria, la libertà, tutte quelle idiozie che dicono i ricchi per farti partire al loro posto.”

“E tu perché ti sei arruolato, allora?”

“Perché la sicurezza di un rancio freddo è meglio dell’incertezza di poter mangiare… e magari tra qualche mese torno con una medaglia e un po’ di gloria… ”

Louis continuò a raccontare, a lungo, per giorni. Di una ragazza oramai lontana e dei suoi occhi chiari, del loro primo, timido bacio e dell’ultimo lungo abbraccio, dell’intensità di un amore sbocciato all’improvviso e ancora troppo acerbo per essere dimenticato. Raccontava, mentre il cielo e il mare cambiavano colore.

E mentre parlava sospirava, sorrideva con gli occhi e si illuminava.

Non sapeva perché, ma quel giovane riservato e malinconico, che pazientemente lo ascoltava in silenzio, gli trasmetteva un senso di pacata fiducia. Così come la sua inconsapevole irruenza, la sua loquacità, distolsero André, per qualche momento, da tutta la tristezza che aveva dentro. Fin quando il mondo, che sembrava scomparso, lentamente riapparve, svelando i contorni degli alberi, i profili delle case, le luci tenui al di là del porto.

 

 

                                                                       ***

 

 

La camera è avvolta in un chiarore soffuso di candele. Sul tavolo da toilette, le fiammelle, sono come piccole mandorle di luce danzanti, che fanno oscillare debolmente il volto di Oscar riflesso nello specchio.

La nonna alle sue spalle, in piedi, è alta quanto lei seduta. Tenta di sbrogliare dolcemente i nodi dei suoi capelli. Oscar sente tirare agli angoli degli occhi, respira nervosamente, e fa una smorfia stizzita. Nanny si ferma un istante, poi prosegue ancora, afferra alcune ciocche, le tira su, mentre qualche ricciolo troppo sottile sfugge e rimane libero sui lati del suo collo candido. Infine, con aria compiaciuta, posa un diadema sull’acconciatura impeccabile.

“Fatti vedere…” Le prende una mano, invitandola ad alzarsi, e la fa girare lentamente su se stessa. In un fruscio la seta azzurra dell’abito  muove l’aria e spande il profumo delicato di lei nella stanza.

“Sei un incanto… non sai quanto ho atteso questo momento” dice la nonna asciugandosi gli occhi con un fazzoletto.

Lei non risponde. Abbassa lo sguardo imbarazzata. Non si trova bella. Solo a disagio, confinata in un’altra pelle, stretta in un corpetto e con le spalle scoperte.

“Se ti potesse vedere André!”

Senza preavviso le arriva addosso quel nome. Come una secchiata gelida. Le basta udirlo di sfuggita per farla trasalire. Non vorrebbe parlare di lui, o forse sì. La verità è che non vuole sentirsi scoperta, ma non riesce più a tacere. Deve, vuole sapere.

“Come sta? Ti ha scritto?” chiede, con una sfumatura d’ansia nella voce. Il cuore si paralizza nell’attesa di quella risposta, sospende per un istante la sua corsa.

“Sì, ho ricevuto una sua lettera qualche giorno fa. Poche righe in verità. Dice che sta bene, che gli mancano i piatti che gli preparavo io… non capisco come abbia potuto fare una cosa del genere…” China la testa, quasi vergognandosi di quella scelta così avventata. “Andarsene così, senza una parola…”

“André non è più un bambino, avrà avuto le sue buone ragioni. Stai tranquilla…” interviene lei, tentando di giustificarlo. In verità si sente così amareggiata, così arrabbiata che lo schiaffeggerebbe se potesse.

Non avresti dovuto lasciarmi sola, André!

“E tu stai bene?” domanda la nonna improvvisamente, con materna apprensione.

“Certo! Certo che sto bene. Perché me lo chiedi?” esclama, fingendosi felice, e guardandola dallo specchio; mentre dentro incomincia ad avvertire un’incomprensibile sensazione di pericolo.

“Hai un’aria strana…”

“Come?”

“Stai andando ad un ballo in tuo onore, non ad una parata militare; questa sera tuo padre annuncerà il tuo matrimonio… dovresti essere contenta…”

“Lo sono.”

“Davvero? Credi che io sia troppo vecchia, che non ricordi come ci si sente quando si è innamorati?”

“Perché, come ci si dovrebbe sentire?” la provoca lei, con aria apparentemente disinvolta.

“Credo non si possa fare a meno di sorridere. E tu, invece…  sembri triste…”

Subito dopo aver pronunciato quelle parole la scruta da sopra gli occhiali per studiare la sua reazione, e la vede impallidire. Oscar sente i suoi occhi addosso, ed è come se la spogliassero.

“Ma che cosa stai dicendo?” Riesce a rispondere prontamente, con un sorriso teso e finto.

“Scusami, non avrei dovuto…”

“Non importa.” Dice abbassando lo sguardo, e dopo qualche istante di imbarazzato silenzio aggiunge: “Adesso vorrei restare un po’ da sola per favore.”

“Sì, certo… non metterci troppo, però. La carrozza è pronta, e tuo padre ti sta già aspettando”.

Oscar rimane sola a fissare l’immagine di una donna sconosciuta davanti allo specchio. Sul mobile da toilette, le candele ora sono mozziconi di cera morenti. Nella luce ambrata il suo volto appare trasfigurato, e le labbra serrate assomigliano al taglio di una ferita chiusa sopra un dolore segreto. Lascia andare un sospiro spezzato, e le fiammelle si piegano lievemente, come se, anch’esse, non avessero quasi più forza né fiato.

 

                                                           ***

 

 

Quando arrivai in America mi sembrò di vedere per la prima volta il cielo, di poter respirare più a fondo, di avere più aria, più spazio per gli occhi e i polmoni. Davanti a me si apriva una terra imponente, fatta di contrasti e armonie di intensi colori. In quella natura immensa e silenziosa, attraverso spazi di meraviglia, il mio sguardo correva tra le vaste pianure verdeggianti, la dolcezza delle colline, e la maestà dei monti dell’ovest. Qua e là scorgevo i fili argentei dei fiumi, piccoli ruscelli che scorrevano lenti e poi mutavano in rapide di torrenti gonfi e fragorosi.

Tutto appariva immacolato, grande, maestoso, e dava un senso infinito di libertà.[3]

Ripensai a Parigi, a quanto fosse diversa, così chiusa nelle sue stradine cupe e senza cielo, e grigia di nuvole e nebbia.

Sembrava così lontana la guerra nei primi giorni che seguirono il mio arrivo! Così lontana la Francia. Inesistente, quasi. Forse potevo davvero ricominciare, sperai.

 

L’acquartieramento fu sistemato in prossimità delle rive di un lago. Distanti, estese foreste da cui talvolta si avvertiva l’eco inquietante di presenze nascoste. E, a vegliare, sopra tutto, come sentinelle, aquile e falchi, e l’ondeggiare lento e costante di due bandiere nemiche.

Arrivati al porto, camminammo a lungo, sotto a un sole fortissimo, la polvere si sollevava sotto le scarpe e l’afa intorpidiva i muscoli e i pensieri. Verso sera, quando il sole sparì dietro le colline, giungemmo finalmente alla nostra destinazione ci buttammo, esausti, a riposare sulle brande.

Durante la notte due ufficiali irruppero nel sonno, e dopo aver fatto l’appello, uno di loro parlò con voce aspra dando istruzioni precise: “Tra cinque minuti, tutti in riga armati ed equipaggiati”. In un istante tutto il campo si mise in movimento e ci preparammo velocemente, senza avere nemmeno la forza di pensare.

Marciavamo storditi dal sonno e dalla paura, alla luce di alcune torce e della luna alta nel cielo terso. Lontano, nei boschi intorno, si levava il solitario ululato di un lupo, e il rullo dei tamburi risuonò nell’aria umida della notte, accompagnando la nostra marcia silenziosa. C’era qualcosa di strano nell’aria, sembrava che un evento straordinario dovesse accadere. Ci guardavamo l’un l’altro interrogandoci con occhi inquieti, come se avvertissimo la dolorosa consapevolezza di poter morire questa notte. Si era come in attesa di un pericolo imminente. E qualcuno bisbigliò: “Questa notte si combatte!”. Ma non accadde nulla. Quando fu mattino tutto sembrava solo un sogno.

Momenti così accadevano di frequente. Si aspettava. Si aspettava in silenzio. Oppure, quando si riusciva a trovare la carta, chi poteva, scriveva. Anche se le lettere, spesso, non arrivavano mai, e si perdevano come messaggi in bottiglia abbandonati dai naufraghi in mare. Anche chi non aveva mai tenuto in mano una penna cercava noi che sapevamo scrivere per dettare, tra righe d’inchiostro e parole trattenute, perché avevamo un bisogno struggente di colmare la nostalgia di casa, di un profondo contatto emotivo, di ricomporre, in qualche modo, le nostre storie interrotte. Ma era soprattutto l’urgenza di esorcizzare l’angoscia della morte, di poter sparire da un momento all’altro, un modo per lasciare qualcosa di noi, l’ultima, piccola traccia della nostra esistenza. Eppure, nonostante la violenza della guerra, sapevamo parlare di bellezza e d’amore, di tenerezza e piccoli bagliori di speranza. Si celava la realtà, perché non riuscivamo a raccontare della brutalità della battaglia, della disumanità e della follia dell’uccidere e del trionfo del male.

Tutte le paure inconfessabili rimanevano dentro, abitavano in noi, insieme ai nostri fantasmi che, come ombre oscure, non ci abbandonavano mai. Così come non mi abbandonava mai la nostalgia struggente di lei…

Mi ero illuso di poter ricominciare. Di poterti dimenticare. Invece resistevi sempre dentro di me.

Quando mi mancavi con forza, ti vedevo ovunque, anche in posti e in momenti inaspettati. E ti sentivo. Intensamente. Nel silenzio assoluto di una notte solitaria, e nel fragore dei cannoni.

In quei momenti saccheggiavo il mio diario, sotto gli occhi curiosi dei compagni, “Grandier, ma quanto scrivi!”, e si rideva, dimenticando per qualche istante dove stavamo.

Anche Louis scriveva, alla fidanzata, e un po’ lo invidiavo; appoggiava un foglio sulle gambe, e prima che facesse buio, fissava la sua calligrafia un po’ incerta e quasi infantile su un pezzo di carta. Diceva che non riusciva a stare un giorno senza pensare a lei, della nostalgia che non lo abbandonava mai, della speranza di rivederla e della loro vita insieme, anche se i messaggi erano lenti, lentissimi, impiegavano una vita a giungere.

Ma un pomeriggio lo sorpresi seduto in un angolo, da solo, con il capo stretto tra i pugni.

“Louis…”

“…”

Mi sedetti a terra, accanto a lui, e rimasi in silenzio per esortarlo a parlare. Sapevo cosa gli stava succedendo, ma lasciai che fosse lui a dirlo.

“Ho paura André…”

“Lo so. È normale…”

“No, non lo è. Un soldato non può…”

“Anch’io ho paura…” dichiarai, e di colpo si voltò a guardarmi. Com’era cambiato il suo sguardo in quei mesi! Dov’erano finite la vivacità, l’audacia, la fierezza dei suoi occhi ardenti che avevo incontrato in una notte buia, su una nave? “Non possiamo farci niente… solo condividerla, per renderla più sopportabile…”

“Voglio andarmene… non ne posso più, non ce la faccio…” disse scuotendo la testa, come un bambino spaventato che non sente ragioni. “Non mi sarei mai dovuto arruolare… non sono bravo nemmeno a sparare a un coniglio… la verità è che non avevo mai tenuto in mano un fucile, prima…” ammise con un velo di imbarazzo.

“Coraggio Louis…” lo incoraggiai, stringendogli una spalla “puoi farcela… presto ce ne andremo da questo inferno”.

Sapevo di dirgli una bugia. Perché la guerra è grande per questo: non finisce mai. Nessuno sa dire quando finirà. Nemmeno i signori della guerra lo sanno. Ti precede. Ti sopravvive.

“Mi avrà già dimenticato…” replicò, come se non mi avesse ascoltato, mentre accartocciava il foglio in un gesto di rabbia e lo lanciava lontano. Mi alzai per raccoglierlo, lo riaprii e glielo porsi.

“Tieni…” dissi calmo.

Si riprese il foglio stropicciato e lo stirò tra le mani, e sul suo viso comparve un impercettibile, timido sorriso, ma mi accorsi che aveva gli occhi lucidi e la sua voce era roca.

“Non voglio morire. Non ora. Non in questo posto, lontano da casa…”

“Non morirai…”

“Tu credi che Dio permetterà ancora per molto questa guerra?” chiese serio con uno sguardo pieno di speranza, come se riponesse una fiducia assoluta nella mia risposta.

“Mi spiace Louis, non sono la persona giusta per parlare di queste cose, ma… si dice che una volta Dio fece oscurare il sole: da mezzogiorno fino alle tre, si fece buio su tutta la terra…”

“Che significa?”

“Quel tempo di oscurità è destinato a finire. Il buio finisce. Ha un tempo. Alle tre ne inizia un altro”.

“…”

“Finirà. Deve finire tutto questo dolore”. Lo dissi col cuore in quel momento, credendoci. E avrei voluto che quelle parole fossero per me.

Lo vidi allontanarsi di colpo per andare a cercare un fiore. Il sole spaccava le pietre e le zolle aride, e proprio lì, in mezzo al nulla, sopravviveva un’esile, piccola margherita, nata dal vento. Semplice e senza profumo. La raccolse con le sue mani ruvide, e in un gesto gentile la sistemò nella lettera.

 

                                                                       ***

 

Che volto ha il nemico? Io non lo sapevo fino a quel momento. L’ho guardato negli occhi e non riuscivo ad odiarlo. Il viso giovane, poco più di un bambino, il berretto scolorito e le scarpe consumate, la divisa troppo larga, simile alla mia, ma di un altro colore.

Negli occhi trasparenti e puliti di chi ancora sa vedere il bene, anche paura e sgomento. Stringeva un’arma, come fosse un giocattolo, ma anche la sua mano tremava.

Per tutti ero quello tranquillo, equilibrato. Sempre gentile, sempre disciplinato. Quello che non perdeva mai la calma sulla linea del fuoco. Saldo come una roccia. Ma quel giorno, ero così tormentato che, senza volerlo, ho lasciato prevalere il mio lato oscuro. Il pensiero di Fersen mi faceva stare così male che ho odiato il suo volto in quello del ragazzo senza nome. Ero così carico di risentimento che ho provato l’impulso pressante di picchiarlo con violenza, di provocargli dolore. Fargli sentire quello che provavo io. Ma niente poteva eguagliare la sofferenza che avevo dentro. Disperata. Rabbiosa. Dolorante. Impotente. Non si placava, cresceva e  mi stringeva le viscere in una morsa, mentre con la mano stritolavo il fucile. E ho temuto che forse, dopo, non sarei stato più lo stesso.

È accaduto tutto in un istante. Ma è bastato per sparare. È così che si uccide. È così che si muore.

L’ho visto crollare e inchiodarsi a terra, con le braccia aperte e un rantolo, un grido sordo, che rimbomba ancora dentro me, intriso di colpa e rimorso. Così come non potrò mai più dimenticare i suoi occhi umidi e spalancati di sgomento. Forse anche i miei gli saranno rimasti dentro. Sono l’ultima cosa che ha visto.

Ma voglio credere che in quell’ultimo respiro di vita, abbia guardato per l’ultima volta il cielo, e il volo solitario dell’aquila al di sopra delle nuvole.

Come potrò risarcire la vita di un essere umano perduto? Non avrei potuto fare più niente, lo sapevo. Solo, un giorno, forse, essere perdonato.

Sono caduto in ginocchio, sfinito, sulla terra spoglia; come spogli di ogni umana dignità erano i corpi dei soldati caduti. Ho stretto forte il fucile tra le dita sporche di terriccio e sangue e ho sparato ripetutamente in aria, mentre la mia rabbia, a lungo trattenuta, si liberava in un profondo, disperato grido.

 

                                              

***

 

 

Questa notte ti ho sognato. Non riuscivo a dormire, continuavo ad agitarmi tra le lenzuola, ma poi lentamente sono scivolata in un sonno inquieto e oscuro. Non era il solito incubo, quello che ogni tanto facevo da bambina e ti costringeva a tenermi stretta tra le braccia, fin quando non mi vedevi addormentare tranquilla. Questa volta non c’eri tu ad ascoltarmi. Non c’eri a scaldarmi con la tua tenerezza. Il letto era freddo. La stanza era vuota.

Ho visto un corvo nero, volteggiava intorno a te impazzito; di colpo ha preso a beccarti gli occhi. Il sangue colava sul tuo viso e tra le dita, mentre una piuma scura e lucente si posava ondeggiando sul pavimento freddo; come foglia morta staccata dal ramo. Un grido disperato, e poi precipitavi in un buco nero. Senza fondo e senza luce.

Mi sono svegliata. Mi sono seduta sul letto, sudata e affannata. Tutto sembrava così reale, così dolorosamente vero, che mi ha invasa un’improvvisa paura. Ho temuto di non poterti più rivedere.

E quell’angoscia mi è rimasta dentro. Senza rimedio.

Come ho potuto lasciarti andare in guerra? Perché non ti ho fermato?

Mi sono alzata, nell’ora azzurra che precede l’alba, ho spalancato la finestra e ho lasciato entrare tutta la luce e tutta l’aria. Ho aperto le spalle e allargato il respiro. Per scacciare quelle sensazioni.

Nel cielo, lontanissima, sbiadiva l’ultima, fragile stella. Ho immaginato che stesse attraversando l’universo, per giungere fino a te e che, mentre moriva davanti ai miei occhi, rinasceva magicamente davanti ai tuoi.

                                              

 

 

                                                                       ***

 

È così che ho immaginato l’istante della creazione, il momento in cui un Dio potente ha plasmato la terra: prima il nulla, e subito dopo un boato, l’aria si sposta, la terra trema, percorsa da un brivido profondo.

E insieme una luce. E di nuovo il buio. E ancora il silenzio.

Ma questa non era la creazione. Forse, al contrario, era la fine. Non c’era Dio a edificare cose buone e giuste. Non c’era bontà, né giustizia, non c’era misericordia. Tutto sembrava morte e distruzione.

È stato un attimo, senza preavviso, senza un rumore, dopo ore e ore di silenziosa attesa, infranta di colpo da un’infinità di esplosioni, il cielo in fiamme, la notte e le stelle macchiate di porpora.

La terra ha tremato insieme a noi, si è spaccata, una ferita profonda. E mentre pietre, detriti e zolle rotolavano giù,  insieme a rigagnoli di sangue, noi sembravamo inghiottiti dalle fauci di un gigante.

Come si resta in equilibrio quando la terra si apre e il mondo sembra sbriciolarsi addosso?

Qualcuno dice che la guerra è bella, Oscar. Ora so il perché. La guerra ti afferra. Ti trascina dentro. E fuori dalla vita. Anche quando tutto sembra esplodere, anche il cielo, anche le stelle, e l’angoscia ti immobilizza, persino in quegli istanti non puoi fare a meno di guardare a bocca aperta quello spettacolo tremendo.

E anche se senti l’orrore con ogni parte del corpo, gli occhi rimangono sbarrati, a fissare quelle immagini di fuoco e metallo che tracciano scie luminose nell’oscurità, e che sembrano una pioggia di stelle comete beffarde piovute dal cielo.

 

I colpi mi sfioravano uno dopo l’altro in sibilanti traiettorie luminose. Mi accucciai dietro alcuni corpi ammucchiati, per ripararmi, poi riemergevo e sparavo, sparavo. Mi faceva male il braccio per lo sforzo e la tensione dei muscoli. Poi iniziai a correre. Mi sembrava che i polmoni potessero scoppiare.

Non sapevo se andassero più veloci le gambe, il cuore, o l’affanno del  mio assordante respiro.

 

All’improvviso, non saprei dire come, un’esplosione, un bagliore, e come un fuoco violento qualcosa avvampò nel mio occhio sinistro.

 

Come un’esplosione nel buio arrivano e deflagrano dentro, a volte, le parole.

“Ecco Oscar, non volevo dirtelo ma… non ho più notizie di André da diverso tempo…” ha annunciato la nonna con gli occhi velati di lacrime e la voce rotta.

 

Mi sono inginocchiato a terra piegato dal dolore, portandomi la mano sul volto striato di polvere da sparo e sangue caldo. Una maschera sinistra vermiglia e azzurrognola.

 

Mi sono accasciata a terra, in ginocchio, sul pavimento, ai piedi della vita. Piegata e schiacciata dal peso del dolore. Non sentivo più niente. Non vedevo più niente. Solo un buco nero, una voragine che  si allargava dentro e risucchiava ogni cosa.

 

Urlavo di dolore. Ma chi poteva sentirmi? Era un caos di crudeltà, di grida strazianti e spari, avanti, dietro, sopra di noi. Una folle danza di belve feroci.  I corpi cadevano come bambole di stoffa e si confondevano con le cose attorno. Pezzi di vita fatta a pezzi.

È così facile morire… Ricordo di aver pensato.

 

Tutta la tensione di quel tempo senza fine e senza misura, mesi, anni?, la paura di non rivederti, il rimpianto per ciò che avevo perso, il rimorso per non aver capito, si riversarono in quell’istante e nelle mie lacrime. Piangevo, chiusa nella mia stanza. Lasciai andare violenti singhiozzi repressi, senza riuscire a riprendere fiato, e sperando che non mi sentissero. Sarebbe stato sconveniente. Non era dignitoso.

Se tu dovessi morire, morirò anch’io, ricordo di aver pensato.

 

Poi, la voce di Louis e le sue mani che mi afferravano e mi trascinavano via.

“Resisti amico… Respira… respira”

“Mettimi giù Louis… sono così stanco… voglio riposare…  non pensare a me… scappa…” sono riuscito a sussurrare in un filo di fiato.

Hai una ragazza che ti aspetta, una famiglia, un sogno, avrei voluto dirgli prima che un’altra esplosione ci sorprendesse e mi squarciasse il petto. E l’anima.

 

Non lasciarmi sola. Senza te non ho più niente. Non sono niente. Non voglio restare. Non voglio vivere in un mondo migliore se tu non ci sei.

 

“Un mondo migliore…”, e il respiro non lo sentivo più…

“Tu…” ti pensavo. Nel buio, ti vedevo.

“Oscar…”

“Per sempre… mia Oscar…”

 

Poco prima che perdessi conoscenza, la vita e i ricordi mi sfilarono davanti agli occhi. Brevi momenti, rapide immagini: l’albero vicino alla fontana e il suo tesoro nascosto; la tenda che si gonfiava e ondeggiava leggera nel primo temporale di primavera. Piccoli dettagli di te ma che mi apparivano ingranditi: come distendevi le labbra, piano, quando sorridevi, la tua delicata leggerezza; i tuoi lunghi capelli nel vento; i polsi delicati; la tua mano abbandonata nella mia tra gli steli piegati di rugiada, all’alba.

 

Alcune immagini di te riaffioravano da dentro: il modo in cui afferravi una mela e l’addentavi, e quella tua smorfia di piacere; come ti chinavi sedendo sui polpacci mentre accoglievi nelle mani una colomba; le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, le tue braccia scoperte; il suono di un filo d’erba tra le tue labbra in un tiepido mattino di primavera.

 

Infine, l’ultimo ricordo prima di chiudere gli occhi: solo un nome, il mio rimpianto, “Oscar…”.

 

Ho gridato più volte il tuo nome: André, André, André…

 

E sopra tutto, a regnare, solo morte e silenzio. E poi il vento. Passava e gemeva sulle orecchie fredde dei morti.

 

Mi pareva di essere nuda, sul crinale di una vetta altissima. Affacciata sull’abisso freddo, a picco tra le rocce. Tra cielo e baratro. Era come precipitare, continuare a cadere senza poter respirare. Avvertivo la stessa sensazione sulla pelle e nelle ossa. La stessa vertigine. Lo stesso gelo.

Mi sono stretta nelle braccia e ho chiuso gli occhi, per non crollare; ma poi, in quel vuoto, improvvisamente, ti ho sentito. Eri sempre vivo in me. E la paura si è fatta speranza.

 

Non sono morto. Ma non mi sono veramente salvato.

                                                                      

***

 

 

Il dottore gli aveva dato una rapido sguardo e lo aveva considerato spacciato. Nell’agonia André lo aveva sentito parlare: “Questo qui non vedrà la luce del giorno domani”.

Se ne stava lì, abbandonato tra i moribondi, disteso su una brandina dell’ospedale da campo, in attesa di morire come tanti altri. E invece era sopravvissuto.

“Grandier, hai la pelle dura” ridevano i compagni, “La terra non ti ha voluto”.

Lui non lo trovava divertente, non riusciva ad esserne felice, a considerare una fortuna la sua guarigione.

Quando riprese conoscenza, aveva le ciglia incollate di sangue rappreso, una fasciatura sommaria, un pezzo di stoffa logora sull’occhio sinistro, e un’altra al petto, sul suo cuore spezzato. Poi voci intorno. E subito il suo primo pensiero: Louis.  Pronunciò piano il suo nome, spingendo a fatica quel suono oltre le labbra asciutte.

“Mi dispiace ragazzo…” lo informò un ufficiale, lasciando la frase a metà.

Ma lui aveva capito. Insieme a quelle parole era arrivata subito un’amara consapevolezza. Era morto.

Il suo amico era morto al posto suo. E lui gli aveva mentito. Non sarebbe tornato a casa. Mai più.

Si guardò attorno. Tutto sembrava immutato, uguale a prima, eppure niente era più lo stesso: la branda di Louis intatta e vuota accanto alla sua; un cambio dei suoi abiti abbandonato sopra ad una sedia; una penna e un foglio bianco; il sole esangue che si insinuava da una fessura, puntuale, ogni mattina. Tutto proseguiva, andava avanti. Ma senza Louis.

E gli sembrò così ingiusto, così crudele. Così insensata e angosciante e spietata l’indifferenza del mondo di fronte alla morte. Il sopravvivere delle cose a noi stessi.

Avrebbe voluto piangere tutte le lacrime di quella guerra. Così tanto da affogare in se stesso. Avvertire il conforto delle lacrime sarebbe stata la prova di essere ancora vivo. Ma si sentiva come un guscio vuoto. Senza voglia di vivere, né coraggio di morire. Non aveva più né abbastanza forza, né sufficiente indifferenza per far fronte ad un nuovo, profondo dolore.

 

Vorrei chiudere gli occhi. Dormire. Scivolare in un sonno profondo, e senza sogni. Ma sembra che, per quanti sforzi io faccia, non riesca a non guardare. A non vedere. Vedo troppo. Sento troppo.

 

 

 

                                                                       ***

 

Il vento flagella i rami degli alberi davanti alla finestra, questa sera. Le foglie fragili e ingiallite si staccano e vorticano nella polvere, leggere. Sembrano ululare sommessamente e gemere di una tristezza antica. Un’inquietudine simile alla sua. È qualcosa di vivo e palpitante quel malessere, che cancella di senso ogni cosa attorno. Oscar non ne parla mai. Lascia scorrere le sue giornate facendo finta di niente. Lo ha confinato in un luogo segreto quell’oscuro dolore. Ma certe volte è insopportabile. Spinge e deborda. E quando è così forte, lei può solo bere, per non sentire. Quando c’era André correva, con il suo cavallo bianco. Correva come fosse inseguita. Nel sole, nel vento, nella pioggia. Ma anche quando era sola, sapeva sempre che in casa c’era lui ad aspettarla, la sua presenza era per lei una forte certezza, un silenzioso fondamento, come un fiume gonfio e fragoroso d’acqua che ritrova sempre il mare placido. Ora, invece, la sua casa non è più un rifugio, e niente sembra bastarle. Non basta il tepore di un focolare a riscaldare una sera troppo fredda. Non basta l’inganno di un amore per dimenticare André.

Nel camino le fiamme ardono, in un crepitio di scintille, si elevano vigorose verso un punto invisibile in alto. Di colpo una finestra si spalanca, spinta da una folata improvvisa e violenta di vento, le fiamme si piegano tremanti, per poi rialzarsi con più forza. Oscar ha trascorso la serata a fissarle in silenzio, senza muoversi e con le guance accaldate. Hans ogni tanto dice qualcosa, ma si è accorto che lei risponde con fatica e ogni tanto sospira. Allora rinuncia alla conversazione, a cui, in fondo, non è così interessato.

Il ticchettio lento dell’antico orologio a pendolo si spande nella quiete della stanza e risuona dentro, come un’eco desolata in un baratro. Si voltano a controllare l’ora, sono le dieci, solo le dieci; le lancette sembrano immobili, e infinitamente lungo il tempo da colmare. Poi tornano a guardare il fuoco, ciascuno avvolto dai propri pensieri e dal proprio disagio.

Fersen si sforza di rimediare a quella tensione tra loro versando, in un gesto ampio, del vino nei calici; lo vede scivolare e brillare davanti alle fiamme come un rubino; mentre scende, si avverte un piacevole gorgoglio e lo scoppiettare sommesso delle bollicine nella schiuma. Lei lo beve in un’unica, lunga sorsata, insieme alla sua pena. Lui lo fa roteare nel bicchiere, ne assaggia un po’, poi, inaspettatamente, le si avvicina e la bacia. Lei si volta, scosta il viso, non ne ha voglia, non le piace. Non sa nemmeno se le è mai veramente piaciuto.

“Oscar… cosa c’è?” chiede, con un’espressione perplessa.

“Nulla… scusate… io…” risponde lei curvando gli angoli della bocca in una specie di sorriso, mentre si ferma a guardarlo. È bello, il profilo perfetto, le pupille d’oro, le gambe accavallate in una postura elegante. I gesti nobili e gentili. Ha tutto quello che una donna possa desiderare. Le dame a corte la invidiano quando la vedono con lui. E allora cos’è quel disagio? Quella confusa nostalgia per ciò che non sa dire?

Quel luogo con i suoi rituali basta a rievocare una vita. E lei non può fare a meno di ripensare alle tante sere fredde e innevate davanti a quel camino, insieme ad André. Era quello il suo posto. Sedevano lì, su quelle stesse poltrone, e lei all’epoca sapeva ciò che si prova quando ci si sente completamente accolti. Erano momenti, piccole abitudini, che davano serenità e allargavano il cuore. Anche allora capitava di tacere, a lungo. Ma era un’intimità, una complicità diversa. Non c’era imbarazzo. Né bisogno di dover riempire i vuoti. Perché lui sembrava ascoltare i suoi pensieri, anche quello che lei non riusciva a dire. La guardava con quegli occhi attenti e pieni di comprensione  che non lasciavano mai trasparire l’urgenza di dover capire tutto, ma solo il piacere di sentirla accanto. Era un senso di quiete, di pace e pienezza, maturato in tanti anni insieme. Come una musica dolce che li cullava per tutto il tempo. Un silenzio che non faceva male, che sapeva riposare sereno.

La verità è che l’assenza di André è più forte della presenza di Fersen.

E in questa sera irrequieta di vento non riesce più a tacerlo a se stessa.

“Hans io… non posso sposarvi” dice lei improvvisamente.

Quelle parole scagliate nel silenzio, fendono l’aria, come il rumore di un bicchiere che si infrange sul pavimento in un’infinità di aguzzi, piccolissimi cristalli.

Lui la guarda con un’espressione incredula ma poi, quando riesce a ritrovare la voce, le risponde calmo: “È normale per una sposa avere qualche dubbio prima del matrimonio, sapete…”

“Voi non mi amate” afferma lei perentoria. “Mi stimate, provate dell’affetto per me… ma non potremo mai essere felici insieme…”, fa una pausa prima di dire ciò che non ha mai osato nemmeno pensare “perché il vostro cuore appartiene ad un’altra persona e…”

“E anche il vostro.” conclude lui, fissandola con uno sguardo carico di significato.

“…”

“Si tratta di André, non è vero?”

“…”

Oscar non dice niente, ma sostiene il suo sguardo in silenzio. E lui può leggervi dentro tutte le risposte.

“Capisco…”

“Mi dispiace… ” sussurra lei chinando il capo.

“No…” la interrompe lui, sollevando una mano aperta a mezz’aria, per non farla proseguire, “avete ragione voi, è giusto così.”

Il vento, improvviso, tace. Nel camino anche le fiamme sembrano acquietarsi.

Prima di andare via Fersen si piega in un lento inchino, e le lascia un addio e una promessa. Come lo spiraglio di uno scrigno socchiuso su una luminosa sorpresa.

“Spero che il vostro André possa tornare sano e salvo. Ho controllato, e il suo nome non risulta nell’elenco dei morti, né dei dispersi”.

 

                                                                       ***

 

Quanti giorni erano trascorsi? E le notti? Erano interminabili le sue notti, e l’alba non arrivava mai. Il tempo era un lento scivolare della sabbia in una clessidra. Se ne stava in quella tenda soffocante e umida a fissare un punto impreciso nel vuoto, ma era Oscar che vedeva. Sentì le lacrime spingere dietro gli occhi e pensò che non ne poteva più di dormire accanto ai soldati agonizzanti. A forza di guardare in faccia la morte, non sapeva più se considerarsi vivo. Spinse le gambe fino al bordo della branda, appoggiò i piedi a terra, e riuscì a mettersi seduto. Prese un bacile con dell’acqua, srotolò con mani incerte la benda dal viso, e tamponò l’occhio con un telo. La ferita pulsava dolorosamente ad ogni piccolo movimento, ad ogni respiro, e gli ricordava insistentemente cosa fosse accaduto. Si sentì stringere lo stomaco, non si era ancora abituato all’idea di aver perso la vista.

Tese le mani per reggersi a una sedia, cercando di sollevarsi sulle gambe malferme, sentì le ginocchia che cedevano, era molto debole e gli girava la testa. Respirò a fondo  e si fece forza sulle braccia.

“Ehi, dove diavolo vuoi andare?” Lo ammonì una voce alle sue spalle “Non puoi uscire in quelle condizioni”. André non rispose. Non si voltò. Contrasse le mascelle e proseguì con sfrontata determinazione verso l’ingresso, attraversando il desolante corridoio tra i feriti che si agitavano nelle brande e gemevano.

Quando uscì, un bagliore tagliente lo colpì sul viso, e impiegò qualche istante ad abituare gli occhi al cambio di luce, anche se il cielo era coperto da maestose nuvole scure e gonfie da sembrare notte, e talmente basse da sentirsi schiacciare; era come avere addosso un enorme masso di pietra.

Camminava a fatica, con la testa chinata, con una mano stretta al torace, all’altezza del cuore, come fosse una resa di fronte a ciò che è troppo da affrontare per un uomo.

Poco distante dal campo, in una radura, il terreno degradava dolcemente, e l’acqua scendeva da alcune piccolissime cascate in un laghetto. Le sponde erano fangose, ricoperte di muschi e licheni e da una fitta vegetazione incolta, un groviglio confuso di canne, foglie e rigogliosi arbusti. Una sentinella passeggiava sull’argine opposto. Non c’era vento, eppure gli steli d’erba e dei fiori oscillavano lievemente, le corolle si piegavano, le foglie si aprivano. Anche gli animali si muovevano agitandosi febbrilmente, avvertendo una strana tensione nell’aria.

Si fermò a respirare l’aria fresca e umida del lago. La sua superficie era perfettamente liscia e, come uno specchio, rifletteva i colori cupi del cielo e le nuvole basse, che sembravano galleggiare dentro.

André si protese in avanti, con cautela, e osservò la sua immagine; non ricordava quanto tempo era passato dall’ultima volta che si era specchiato, e faticò a riconoscersi. Si sentì come uno spettro, invecchiato di cento anni. Raccolse un sasso e lo lanciò con rabbia nel lago, frantumando quel riflesso sgradevole.

All’improvviso il rombo di un tuono squarciò il cielo. Numerosi uccelli si sollevarono dall’acqua, bruscamente, in disordine, come se si stessero scagliando fuori da una gabbia spalancata di colpo. Con una tristezza di migranti. Per alcuni istanti si lasciarono trasportare dall’aria con le ali distese, poi, si insinuarono in alto nel cielo, attraverso sentieri invisibili, compatti e uniti come un grande unico uccello. Lo stormo si spandeva e mutava in tante strane forme diverse. Sembrava l’esibizione di una danza antica, precisa, aggraziata. André avvertì  l’ombra fredda su di sé, il fruscio delle loro ali, lo spostamento d’aria che gli scompigliò dolcemente il ciuffo di capelli sull’occhio sinistro. Li seguì con lo sguardo, incantato, finché non sparirono dietro le nuvole.

Che strana quiete ora. Senza più un battito d’ali nell’aria, Era come se anche il cielo, in quel momento, stesse trattenendo il respiro.

Ma come fanno le rondini a trovare sempre la strada di casa?

Anche lui avrebbe voluto volare via, salire in alto. Là dove la pace è assoluta e autentica. Dove tutto sarebbe stato più chiaro e più vero. Suo sarebbe stato l’azzurro dei cieli e delle acque. Sua la terra e i suoi paesaggi. Suo il silenzio.  E lì, finalmente, avrebbe colmato il suo bisogno di cielo. E di bene.

Pensò a Louis, amico e soldato bambino, alla sua morte fanciulla. Venti volte era fiorita la terra da quando era nato. E ora, su quella terra straniera, aveva abbandonato per sempre i suoi vent’anni. Tutto quello che rimaneva di lui era un cuore di carta: una lettera un po’ ingiallita e, impresso, tra le pagine bruciacchiate, un piccolo fiore seccato, salvato dall’amore più grande, che mai si sarebbe posato nelle mani tanto amate.

 

Oscar vagava tra i soldati feriti che la osservavano con i volti inespressivi e induriti dal dolore, immobili e senza parole. Continuò a cercare, in ogni capanna, il cuore in gola, il respiro sospeso tra paura, speranza e desiderio, e ogni volta una nuova bruciante delusione, sempre peggio. Era stato un viaggio lungo, stancante, ma il pensiero di lui l'aveva tenuta in piedi. All'arrivo, poi, territori infiniti, sconfinati, ancora viaggiare, alla ricerca dell'acquartieramento, poi, gli avevano detto in un lampo di terrore, dell'ospedale da campo.

Un istante, un istante ancora e ti avrei rivisto. E sarebbe stato come il primo incontro, la prima volta. Ma, dopo tutto quel tempo, dopo quel lungo viaggio verso di lui, quel momento non arrivava mai. Era uno stillicidio quell’attesa.

Il timore di non ritrovarlo si confondeva con l’ansia di doverlo incontrare. Uno strano sentimento dolceamaro. Come avrebbe reagito lui? Cosa gli avrebbe detto lei? Era passato tanto tempo. Erano stati così distanti! Sotto un cielo lontano. In un lungo, doloroso esilio. Ma, in fondo, sapeva che c’era qualcosa tra loro che li legava oltre ogni umana comprensione. Un invisibile filo segreto. Un comune respiro. Così come le stelle restano unite solo dall’aria.

Decise di riposarsi in una piccola radura. Si sedette sull’erba, appoggiò il capo e le spalle al tronco di un albero, chiuse un attimo gli occhi e si lasciò cullare dal debole fruscio dell’aria sulle foglie. Pensò che avrebbe continuato a cercarlo, ovunque, anche tra i soldati nemici, prigioniera tra i prigionieri, se necessario. Quando sollevò la testa rimase senza fiato. Fu in quel momento che lo vide. Si alzò di scatto, facendo lo stesso balzo che fece il suo cuore. E in quel preciso istante comprese che in tutto quel tempo non l’aveva mai veramente sentito il suo cuore, come se non l’avesse avuto più; glielo aveva strappato André, se l’era portato via; ma ora eccolo, palpitava ovunque, e di nuovo sentiva la vita accendersi dentro.

André era girato di spalle, contemplava l’orizzonte, fermo, assorto su quel cielo cangiante di grigi, che sfumava dal piombo all’argento, e sembrava spostarsi nel mutamento di nubi, creando ombre e chiaroscuri, giochi di luci e contrasti. Era come se stesse ammirando un quadro dipinto in bianco e nero.

Un fulmine, come una lama d’acciaio, si schiantò lontano, e spezzò in due il cielo in una crepa. Tutto divenne livido sotto la luce algida dei lampi, e le prime gocce d’acqua, grosse e pesanti  cominciarono a cadere. In quei primi istanti di pioggia, la terra esalava un tiepido calore, e una fragranza piena e feconda che sapeva di vita. Oscar respirò per controllare l’ansia.

“André!” Lo chiamò, pronunciando piano il suo nome, come fosse solamente un pensiero ad alta voce, ma era tutta la forza che aveva. Era solo un sussurro, ma André lo avvertì all’improvviso dietro di lui, e poi dentro, fino a sentire vibrare l’anima; avrebbe riconosciuto anche un solo sospiro di lei, perché era più intimo e familiare di se stesso. Quel suono lo riempì completamente, come un’esplosione in una stanza. Ebbe un sussulto, e per un attimo temette che, se si fosse voltato, non ci sarebbe stato nessuno. Solo il vuoto di sempre. Raccolse tutto il coraggio che aveva e si girò piano; così lentamente che quel movimento sembrò dolorosamente lungo, quanto la loro lontananza.

La guardò e schiuse le labbra, a metà tra un sospiro e un’espressione di stupore nel vedere Oscar materializzarsi inaspettatamente in quel luogo, come un prodigio, un miracolo sgorgato dal nulla.

“Tu… qui…” sussurrò lui con un filo di voce.

Quando si voltò, e il suo volto scavato e pallido di sonno eruppe improvviso dallo sfondo grigio e il suo sguardo la attraversò, Oscar rimase un interminabile istante senza fiato, incapace di organizzare i pensieri, collegarli alle parole.

“Sì” riuscì a rispondere sottovoce, senza poter aggiungere altro, e fissandolo negli occhi, anche se temeva che se avesse retto ancora il suo sguardo avrebbe pianto. Che cosa ti hanno fatto, André? Avrebbe voluto chiedergli.

Ora la pioggia cadeva copiosa, scrosciava violenta tra i rami degli alberi, piegava l’erba, annegava i fiori.

Si udiva il ticchettio solitario sulle foglie e sull’acqua increspata del lago, che si sollevava in spruzzi impalpabili; e l’aria odorava di terra bagnata e foglie marce.

Avrebbero voluto andarsi incontro, stringersi talmente forte da farsi male. Ma qualcosa impediva loro di muoversi. Rimasero così, fermi, sotto il diluvio. Come due gladiatori in un’arena vuota.

“Che… che ti è successo?” Fu la prima cosa che riuscì a dire, prendendogli il viso tra le mani. “Come stai?” Quasi lo investì. “Questa ferita… ti fa male?” Indicando la cicatrice che tagliava in due l’occhio.

“Sto bene, benissimo…” sorrise lui, allargando le braccia per farsi osservare, mentre la pioggia gli incollava i capelli sulla fronte, imperlava le ciglia nere, inzuppava la barba. “Guardami, non sono diventato un ottimo soldato?” c’era qualcosa di pungente in quelle parole, e come un tormento nei suoi gesti, nella sua voce.

A quella risposta Oscar avvertì un dolore arrivarle dentro come una lama. Sapeva che quel tono scherzoso, quell’atteggiamento distante, erano un inganno. Un attimo prima rideva, un attimo dopo era diventato serio. Ma non potevano essere un inganno i suoi occhi, la tristezza dietro il sorriso mesto, l’oscurità celata dal suo pallore.

“Perché non mi hai mai scritto?” mormorò lei di colpo, con voce arrochita, ingoiando le lacrime.

Cosa avrei potuto scriverti? Avrebbe voluto dirle “E tu perché sei venuta?” chiese lui, invece, rispondendo con un’altra domanda.

“Io…”

“Perché?” chiese ancora, con insistenza, trafiggendola con lo sguardo. E lei si sentì così vulnerabile, scoperta, come se le stesse leggendo dentro.

“Vorrei che venissi con me… Sapessi quanto mi sei mancato, quanto ti ho cercato!”

Lui rispose subito, senza riflettere, senza pensare a come si sarebbe sentito dopo.

“Sono cambiato Oscar, non sono più quello che conoscevi…” ammise, guardandola con un’espressione grave, “e preferisco restare con i miei compagni” confessò con la sua calma franchezza.

Ora parlava con un tono un po’ amaro. Pieno di un antico e profondo dolore.

Oscar sembrò non udire quelle parole, si avvicinò lentamente, gli sfiorò il viso con delicatezza, lasciando scorrere lo sguardo e i polpastrelli sui tagli e le cicatrici, sulla palpebra gonfia e arrossata. Una carezza di esasperante dolcezza. E dove lei appoggiava le dita, André percepiva di nuovo la pelle e la forma esile della sua mano. Ebbe un sussulto, un brivido meravigliato, e si ritrasse come scottato. Lei lo tranquillizzò con lo sguardo, e lui, infine, si lasciò accarezzare, fidandosi. Sotto le sue mani si muoveva come un cucciolo ferito, incerto tra il bisogno di tenerezza e la paura.

“Non devo essere un bello spettacolo” ironizzò, per sciogliere l’imbarazzo.

“Oh, André! Se tu potessi vederti come ti vedo io!” esclamò lei, mentre lo guardava galleggiare dietro un velo di lacrime.

Posò le mani sul suo petto, sulla ferita, come a sfiorare le pareti del cuore, dove le sembrò di toccare il suo dolore, vivo. Le lasciò lì per qualche istante, e avvertì il battito accelerare e il petto di lui sollevarsi veloce ad ogni respiro. Da quanto tempo qualcuno non lo toccava in quel modo? Aveva dimenticato la bellezza di un gesto di tenerezza, e gradualmente aveva imparato a farne a meno.

Continuò ad accarezzarlo sulle spalle e dietro, lungo la schiena; percepì sotto le dita le scapole più ossute e sporgenti: le sue piccole ali, pensò. André si sentì sciogliere i tessuti, chiuse gli occhi e si lasciò sfuggire un profondo sospiro. E il cuore, lentamente, si acquietò.

“E… lui?”

Scosse la testa. Non rispose.

“Sei sposata…” quasi una constatazione.

“No”, stavolta parlò.

“…”

“No”, ripeté.

“Non ti sei sposata… perché?” chiese allora, a bruciapelo, con la voce piena d’urgenza, quando fu abbastanza lucido per parlare.

La pioggia si fece sottile. Una carezza lieve sulle foglie e sul lago. Un tintinnio argentino. Una dolce, ritmata melodia. Dopo, cessò completamente, e il sole si aprì uno spiraglio tra le nubi, da cui filtravano fili di luce. L’azzurro si riversò sulla terra madida, e un piccolo, tenue, arcobaleno comparve sullo specchio d’acqua, facendolo brillare.

Ad André il tempo di quella risposta sembrò infinito.

“Non potevo. Non lo amavo…” disse lei, finalmente, prendendogli una mano tra le sue. E lui fu sopraffatto dall’amore. Non riuscì a dire niente con la voce, ma la felicità gli arrivò agli occhi come una luce improvvisa, e si allargò posandosi sulle labbra, dove affiorò un timido, incredulo sorriso.

Lei gli parlò piano, piano, come si parla ai bambini per farli addormentare, per tranquillizzarli dopo un brutto sogno. E con dolce fermezza gli disse: “Torna a casa con me, André.”[4]

 

                                                                       ***

 

È stato un lungo viaggio di ritorno. Sono tornato a casa con lei. Perché è sempre stato impossibile per me resisterle.

A volte, nel silenzio e nell’oscurità della notte, sento ancora il boato dei cannoni, rivedo il volto del mio amico, gli occhi del ragazzo che ho ucciso, sento nella pelle l’odore della guerra. E di colpo mi sembra di precipitare di nuovo in un abisso freddo e torbido. Ma poi avverto la tua mano sul mio cuore, e il mio corpo diventare caldo. E tutta l’angoscia, improvvisamente, tace.

Perché il tuo amore ha disarmato il mio dolore. Accompagnando dolcemente la mia resa.

Una lacrima è scivolata dal mio occhio sano, lungo la tempia. L’ultima di quella guerra spietata. 

La prima di un’altra guerra che forse verrà.

Agli uomini, alle donne, ai bambini

di tutte le violenze e le guerre dimenticate


 

[1] Scena ispirata alla notte prima del duello nel film “Lady Oscar” di J. Demy.

[2] Lady Oscar, episodio 20.

[3] Uno spunto dal film: L’ultimo dei Mohicani, del 1992, e dall’omonimo romanzo di James Fenimore Cooper.

[4] “Pensavo di tornare a casa con te” è la frase tratta dall’episodio 37 di Lady Oscar, che ho sempre trovato bellissima, come una dichiarazione d’amore. Mi fa pensare ai tanti “ritorni a casa” che affiorano nell’anime: gli uccelli migratori tornano da dove sono partiti; Fersen torna da Maria Antonietta; Rosalie alla sua vita semplice… e nel finale Oscar vorrebbe tornare ad Arras con André. Un intreccio di vite che sono come una partenza, un viaggio, ma per un lento ritorno a se stessi.


Pubblicazione del sito Little Corner novembre 2015

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