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Di cieli

Warning!!!

 

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“... venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l'universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso - questo continuerebbero a raccontare, per sempre, … perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai - lontani abbastanza - per trovarsi - lo erano quei due, lontani più di chiunque altro...”                        Alessandro Baricco, Oceano mare

Erano nati sotto cieli diversi…

Sono nato da un desiderio, in una terra antica e leggendaria.

Ho trascorso i primi anni dell’infanzia a meravigliarmi dello spettacolo di inesauribile bellezza offerto dalle alte e dalle basse maree che si alternavano davanti ai miei occhi, come un prodigio, come nell’anima di ogni uomo; dal sole che splende e improvvisamente scompare tra le nuvole talmente basse da sfiorare il mare… e poi come d’incanto riappare. Ero parte di un gioco di prestigio, tra luci e colori che si accendevano e si spegnevano, governati da mani sapienti.

Il  mio cielo era  limpido, una distesa di infinito silenzio, dominato dai gabbiani. Li osservavo incantato, mentre tra maestose scogliere sfidavano il vento. Volavano liberi e felici, senza nulla possedere, eppure a loro apparteneva il cielo. Mi sentivo come quegli uccelli, in armonia con il creato, un puntino, un minuscolo frammento di vita di fronte a tutta quell’immensità.

I miei pensieri erano tersi e leggeri e la mia vita scorreva lenta, lieve, senza tempo né distanze, ai confini della terra.

In quei luoghi primordiali e selvaggi, respiravo il soffio dell’oceano e mi nutrivo di pace e libertà. 

Sono nata come un dolore ingiusto e inaspettato, sotto un cielo apparentemente propizio, a poche miglia da Parigi e da Versailles.

 Il volto del mio cielo era cupo e malinconico, solcato da vanità e ingiustizie.

Lungo le strade, scorrevano  sogni di uguaglianza e libertà, mentre il vento soffiava mesto, come un lamento, trascinando con sé il  fragore  di chiacchiere inutili di  una nobiltà arrogante e frivola, e l’urlo di un’umanità misera e sperduta.

In quei luoghi, respiravo il profumo delle rose e ingoiavo lacrime e solitudine.

E quel dolore antico mi è cresciuto accanto, muto, lento, inevitabile. Sentivo tutto il peso del mondo sulle mie spalle, e i pensieri densi, aggrovigliati come fili alle mie parole.

Un dolce tormento, mi bruciava dentro, giù, giù, in fondo, tra la pancia e il cuore, poi si posava sul mio sguardo perduto, sulla piega lieve di un sorriso smarrito, che voleva essere altrove. Era come una mancanza, senza ragione e senza rimedio, come un vuoto incolmabile, difficile da spiegare con le parole, troppo piccole per esprimere ciò che nella mia anima appariva smisurato, troppo misere e finite per dire ciò che mi sembrava infinito.

E allora mi ritraevo, in silenzio, nascosta tra i rovi spinosi di un bosco dimenticato, per non farmi sfiorare dall’amore, per lasciare fuori la vita…  

 

*********  

Sei arrivato alle prime luci di un’alba fresca di primavera, mentre il mare eterno e placido, era ancora avvolto dal silenzio della notte. Conservava ancora bagliori d’argento, residui di luna. Poi, il sole, dai contorni sfumati di miele, timidamente si levò, e depose i suoi colori tra l’acqua e il cielo. E come acquerelli, le tinte rosa e oro si stemperarono con i rossi e i blu delle violacciocche che dondolavano leggere sui bordi del mare, accarezzate dalla brezza fresca del primo mattino di maggio. 

Dalla finestra del piccolo soggiorno, ho visto scorrere le ore della notte con dolorosa lentezza, tutte, una dietro l’altra, attraverso il rincorrersi lieve di colori e sfumature, della luce che dolcemente insegue il buio e lo rischiara. Passeggiavo nervoso, dietro la porta della mia camera, ero stanco, non avevo chiuso gli occhi nemmeno un istante, ma mi sentivo teso al massimo, come un arco pronto a scoccare la freccia. Poi un  grido mi trafisse, e mi pietrificai dalla paura, dovetti appoggiarmi al muro per non cadere. Chiusi gli occhi e tentai di respirare, ma la preoccupazione per mia moglie, per il bambino, mi serrò la gola. E sentirla gridare era così straziante! Una scheggia nel cuore. Avrei voluto essere al suo posto, prendere su di me quel dolore, ma mi sentivo totalmente impotente.

L’avevo desiderato tanto questo figlio. L’avevamo cercato, voluto, sognato, nelle tante notti d’amore, mentre le parole diventavano sussurri, ma ora pensavo che non sarei riuscito a sopportare un’altra notte così.

Un raggio di sole ancora esile si allungò piano sul piccolo villaggio, un pugno di case ancora assopite, e scivolò verso la mia piccola casa di pietra, bianca e umida, affacciata sull’oceano. Fece capolino tra le tende azzurre di una finestra, e spiò, discreto, come in attesa, come un annuncio di vita e speranza.

Afferrai un bicchiere, mi sforzai di bere un sorso d’acqua, e mi accorsi che mi tremavano le mani. Poi, improvvisamente, un urlo possente irruppe con forza tra le pareti. Eccolo, finalmente, il primo vagito ad annunciare la vita!  Il primo respiro nell’alba di un giorno nuovo.

Il bicchiere mi scivolò dalle mani e si frantumò sul pavimento - “E’ NATO! MIO FIGLIO È NATO!” - proclamai con la felicità nelle parole, liberando tutta l’energia e la tensione imprigionata in ogni fibra del mio corpo. Fu come un’esplosione nel petto. Spalancai la porta e mi precipitai in cortile, profanando quel rispettoso silenzio che accompagna sempre il levarsi del sole. Ma non mi importava. Urlavo e mi agitavo come un bambino. Portai  in alto le braccia tese, e mostrai, con la bocca spalancata in un sorriso di trionfo, i pugni al cielo.  

Thérèse ha ancora il viso imperlato di sudore, la notte è stata interminabile e il travaglio lungo e lacerante. In quelle ore di paura e dolore ha temuto per la vita del suo bambino. Ma ora sta bene, è serena. Allunga le braccia verso Marie, la levatrice, in una muta richiesta. Vuole suo figlio. Lo vuole stringere, vuole conoscerlo finalmente, incontrare i suoi occhi, sapere come sta.  L’anziana donna lo solleva, ancora sporco di sangue, e lo posa sul suo seno. Quel primo contatto, quel primo profumo di pelle e di latte, per lui sarà per sempre il ricordo più antico, nascosto nella segreta memoria della carne.

Lo stringe piano. La pelle, ancora raggrinzita, è calda, morbida, delicata. Profuma di vita. Lo bacia teneramente, e sente il cuore dilatarsi. Non ci crede ancora. Era niente, solo un pensiero, solo un desiderio, una scintilla d’amore, ed eccolo! Vivo, sano, bellissimo. Lo fissa intensamente, per un istante che sembra una vita, i suoi occhi in quelli di lui, ancora velati di pianto. E lo ama, ora e per sempre, con quel suo sguardo verde, colmo di luce. - “Piccolo mio, non ci sarà mai cosa più bella al mondo, per me”gli sussurra piano, con il viso vicinissimo al suo. Ogni cosa intorno sparisce, e il dolore è già dimenticato. Sulle guance scivolano lentamente due lacrime silenziose, per posarsi, infine, sulle labbra spalancate in un sorriso. Il giorno più bello ed emozionante della sua vita è appena nato.

Il papà si avvicina timido al suo letto, con il cuore in subbuglio, le passa una mano tra i capelli sudati e le infila una rosa – “Così sei più bella…” – le sussurra con gli occhi lucidi, poi le lascia un bacio lieve, un dono di gratitudine sulle labbra. Rimane un istante immobile, non sa bene cosa dire, cosa fare, ride e piange nel medesimo istante. Guarda suo figlio, con lo stupore negli occhi, mentre riposa sereno su di lei, con i pugni serrati. C’è silenzio ora, tutto intorno è pace e pienezza, si sente solo un alito leggero scorrere attraverso le sue narici. Il suo piccolo torace si solleva veloce, al ritmo del suo respiro, come a reclamare voracemente tutta l’aria intorno.

E’ piccolo e roseo, con la testa ricoperta da folti capelli neri, morbidi come il velluto. Sembrano proprio i suoi! Antoine sorride di quella prima somiglianza, ha il cuore gonfio d’orgoglio. Il primo segno di appartenenza. La vita che prosegue. Tutto il loro amore è lì, racchiuso in quella piccola creatura. Come un miracolo. Non può fare a meno di accarezzargli i capelli, delicatamente. “E’ bellissimo, amore…” – Riesce a dire, con la voce rotta dall’emozione. Poi gli infila un dito in una manina stretta in un pugno. Sembra così fragile, teme di fargli male.

Cosa vuol dire essere padre? Come lo si diventa? Io davvero non lo so. E’ così maestosa questa parola, riempie e dà forza… E io invece ho paura. Talmente tanta, che sento il cuore schizzarmi dal petto. Paura e felicità insieme… Ma so che farò del mio meglio. Te lo prometto… Ti insegnerò a pescare e ad ascoltare le stelle, come hanno fatto tanti uomini del mare prima di me, e i re d’Oriente, sulla strada per Betlemme. Ti insegnerò ad amare, ma forse sarai tu ad insegnarmelo… e seguirai i miei passi, come orme sulla sabbia, fino a quando non arriverà la tempesta, e le onde le cancelleranno, e allora tu dovrai proseguire da solo… ma stai tranquillo, troverai sempre riparo, all’ombra del mio sguardo di padre…

E’ l’alba adesso, il sole sbuca di soppiatto sull’orizzonte, si staglia nel cielo di seta e lo accende. Una striscia di luce dorata si allunga fino al bambino, e illumina il suo visetto, in una carezza tiepida. L’atmosfera è tenera, dolce, intima, arriva sin dentro il cuore e lo scalda. E ora, in quella quiete, rimangono abbracciati. E ancora incantati, increduli, innamorati, assaporano i pensieri e le emozioni di quei primi istanti insieme.

Marie commossa abbandona silenziosa la stanza, voltandosi  ad ammirare ancora un momento la famiglia Grandier. Il suo compito è finito, e quella felicità non le appartiene.

“Benvenuto tra noi…” - si interrompe Antoine -  “… dobbiamo trovargli un nome!”

“André, come tuo padre” – suggerisce lei.

“Benvenuto tra noi, piccolo, amatissimo André!” 

 

******

Sua figlia nacque una sera d’inverno, quando il cielo era sbarrato da banchi di nubi scure e spesse, che si spostavano veloci, sospinte dal vento. L’aria era fredda e umida, e si avvertiva un senso di oppressione a preannunciare un temporale. Poi, l’ultimo grido, come di rabbia e vergogna, e il primo vagito, come un presagio di abbandono e solitudine.

Marguerite si sentiva stanca, sfinita. Voleva solo chiudere immediatamente quella dolorosa giornata, desiderava che quel giorno interminabile si concludesse in fretta, lasciare scorrere via tutto, come sabbia tra le dita, e dimenticare. Dimenticare ogni cosa, dimenticare di essere nuovamente madre, e cancellare quella colpa che le pesava come un tormento sulle spalle e nell’anima. Se ne stava in silenzio, adagiata tra le lenzuola di seta, lo sguardo nel vuoto e le labbra serrate. Eppure questa volta ne era sicura, se lo sentiva, sarebbe stato un maschio. E invece ancora una volta non era stata capace di dare a suo marito un erede. Era un’incapace. E si sentiva una donna inutile e vuota. Come avrebbe reagito il generale? Un’altra femmina, l’ennesima delusione! Nanny, la governante, interruppe i suoi pensieri, posando tra le sue braccia la bambina, avvolta in una coperta. La strinse svogliatamente, la osservò qualche istante, senza espressione, poi la allontanò, con un gesto deciso, riconsegnandola in fretta alle cure di Nanny - “Avverti la balia, per favore, io devo tornare presto a Versailles” – disse con un filo di voce, prima di ingoiare le lacrime e abbandonarsi di nuovo sui cuscini, con un sospiro lungo e rassegnato.  

François Augustin de Jarjayes camminava con passo militare, su e giù per la stanza, le mani giunte dietro la schiena. Quell’attesa era per lui come una promessa. No, era certezza la sua. Sarebbe stato un maschio questa volta. Gli occhi scintillavano, pregustando già la gioia.

“E’ una bella bambina, signor generale” – Lo informò con un sorriso la governante.

Fu investito da una gelida ondata, di colpo sentì il sangue gelarsi, la rabbia crescere, e come un veleno scorrere rapidamente nelle vene, al ritmo impazzito del cuore. Era furioso, sembrava un gigante, un ciclope in preda all’ira. Agguantò un oggetto qualunque tra le sue grosse mani, e lo lanciò con forza, in un punto indefinito. Un vaso di ceramica si polverizzò contro la parete, facendo scivolare tutta l’acqua e disperdere i petali delicati delle rose bianche. Nanny sgranò gli occhi e portò una mano davanti alla bocca spalancata. Chi è il Vostro nemico, signor generale? Quale imperdonabile pena Vi ha inflitto? – avrebbe voluto domandargli. Ma rimase muta, attonita, con il respiro mozzato.

Non so che farmene di un’altra femmina!” – la voce di lui rimbombava nella stanza e tagliava l’aria come una lama. Poi, mentre pronunciava quelle parole, afferrò la bambina tra le mani e levò in alto le braccia, come a volerla scagliare sul pavimento. Non la voleva. Non gli serviva. La piccola urlava con forza, come se avesse compreso quel rifiuto e sentisse tutta quella rabbia su di sé. Il pianto si confuse con il ruggito del vento e il rombo di un tuono. Un boato squarciò il cielo plumbeo. E il buio si tramutò improvvisamente in gocce d’acqua, grosse e pesanti che bagnarono copiose la notte di Natale. La pioggia scendeva fitta, scrosciava con violenza contro i vetri, sembrava volesse frantumarli, mentre le campane di Notre Dame suonavano a festa.

Fu un attimo, e qualcosa lo scosse, come un lampo, un’idea, e nel suo sguardo si accese una luce e sulla sua bocca un ghigno malvagio -  “Ti chiamerò Oscar, e sarai mio figlio” –  La furia divampata nei suoi occhi si placò, e sul volto comparve un sorriso, come di vittoria. Poi spalancò la porta, e a lunghi passi scomparve nel buio.

Nanny, ancora incredula e frastornata, la guardava con lo stupore di chi vede per la prima volta  un cielo stellato. Rimase sola, in quella stanza buia e fredda, domandandosi come si potesse non amare quella bambina bellissima e  che futuro avrebbe avuto. Come potrai, un giorno, amarti e  lasciarti amare da un uomo,  se chi ti ha generato non ti vuole così come sei? Mentre faceva queste considerazioni, la strinse al petto, come per proteggerla da tutta quella follia, come solo una madre farebbe. E, come una madre, pianse.  

 

********** 

Quando c’era la bassa marea, e il mare era calmo, si poteva vedere il sole: sembrava un fiore color porpora dal cui calice sgorgava tutta la luce[1]; la spiaggia era una distesa infinita, e la risacca si ritraeva silenziosa, svelando segreti dimenticati e tesori marini nascosti. Legnetti, sassolini levigati dal tempo e dall’acqua, conchiglie colorate, erano doni del mare, venuti da chissà dove, e André li raccoglieva come fossero gemme preziose. Queste le regalo alla mamma – Pensava, mentre una brezza leggera gli scompigliava i capelli.

In quelle occasioni si riempiva le tasche di briciole e dava da mangiare ai suoi uccelli marini. Allungava piano una manina, lasciando che si raggruppassero intorno a lui, contendendosi il pasto. Poi, sazi, si libravano in volo, mentre lo sguardo e le risate di André salivano al cielo terso. Una volta trovò un gabbiano ferito, lo raccolse, lo accostò piano contro pancia e lo accarezzò teneramente

“Posso portarlo a casa, papà?” – domandò, con gli occhi lucidi e l’aria supplicante.

“André… non puoi tenere tutti gli animali abbandonati che incontri…”

“Ti prego, non posso lasciarlo morire”

“Solo finché non sarà guarito, però!” – rispose Antoine, arreso. Poi aggiunse, con voce calma, indicando uno stormo di gabbiani nel cielo - “Guarda, André, gli uccelli migratori stanno volando verso sud, volano liberi e felici nel cielo, ma poi in primavera torneranno nei luoghi da dove sono partiti. Nessuno può impedire questo.[2]”  

“Va bene, allora. Mi prenderò cura di lui e poi lo lascerò libero… promesso…”

Era impossibile per lui resistergli! Era impossibile non cedere alle richieste di André, al suo sguardo tenero, alla sua generosa sensibilità, alla luce abbagliante di quel cielo sconfinato, che si posava sul sorriso del suo bambino.

André si sentiva sereno, al sicuro, in quella vita semplice e tranquilla, ricca di calore e affetto. Come all’ombra di una quercia, protetto dalla sua enorme chioma e sostenuto dalle sue radici possenti.

A volte, però, gli mancava suo padre, e allora andava sulla spiaggia ad aspettarlo. E in quell’attesa diventava insofferente, si lasciava prendere da una strana inquietudine. Percepiva la tensione nel corpo, anche se non riusciva a capirne la ragione. Aveva cuore e pensieri da bambino, e le emozioni filtravano libere, senza censura, ma incomprensibili ai suoi pensieri fanciulli.

Il suo volto si incupiva, perdeva quel limpido stupore che lo caratterizzava, si volgeva continuamente a guardare verso il porto, a cercare suo padre con occhi impazienti. Rimaneva col fiato sospeso, a contare i minuti, fino a quando, finalmente, non lo vedeva arrivare.

Nemmeno la notte riusciva a dormire tranquillo, se prima non udiva i suoi inconfondibili passi sul pavimento. Rimaneva immobile, con gli occhi sbarrati a fissare le ombre sul muro. Ascoltava attento ogni minimo rumore. Riusciva persino a sentire la voce del mare talmente vicino da poterlo toccare. Il suo cuore seguiva il suo moto. Se sussurrava, André si lasciava cullare dolcemente dalla risacca, sentendo sciogliere lentamente la tensione. Quando, invece, il mare urlava la sua furia, il suo cuore accelerava e avvertiva ogni muscolo tendersi. In attesa.

Conosceva ogni abitudine di suo padre. Sapeva che avrebbe infilato piano la chiave nella toppa, in punta di piedi si sarebbe avvicinato al  suo letto, e con le sue mani ruvide, callose e scure, gli avrebbe lasciato una carezza tra i capelli, insieme all’odore di alghe e sudore. Gli piaceva il suo odore. Sapeva di buono, come il mare e la fatica, come la vita, dura e bellissima.

Ma era consapevole, in fondo, che sarebbe sempre tornato. Come un naufrago trova sempre la strada di casa. Anche se, a volte, non bastava questa certezza a farlo sentire tranquillo.

Quando finalmente gli sembrava di averlo avvistato giù al porto, strizzava gli occhi e si schermava il volto con una mano, per distinguere meglio la sua figura nel sole. Agitava le braccia in alto, e correva a piedi nudi sulla sabbia soffice, il cuore impazzito, le guance arrossate, e la gioia negli occhi. Correva veloce, e i gabbiani volavano via, disturbati dalle sue gambette magre. Correva ancora, senza più fiato, mentre il mare sembrava spostarsi e scomparire. Suo padre gli andava incontro, lo sollevava in alto, e lo faceva girare e volteggiare nell’aria. Poi si sedevano vicini, sul bordo di un vecchio peschereccio abbandonato. E Antoine iniziava a raccontare. Di pirati e viaggi avventurosi, di velieri e galeoni. Con un dito indicava verso l’orizzonte terre lontane, e disegnava nel cielo rotte immaginarie, che avevano il sapore della libertà. André lo seguiva incantato. Quante cose sapeva il suo papà! Conosceva i venti e le stelle e i pesci di ogni specie. Lo osservava con gli occhi che brillavano d’orgoglio, pieni di stupore e meraviglia. Fissava la linea blu delle vene in rilievo sulle sue braccia forti e robuste, abituate a sfidare il mare, il solco sul volto arso dal sole, le ciglia scure. Era il suo eroe, un eroe capace di afferrare il vento tra le mani e dominarlo. Da grande voglio essere come te – fantasticava.

Facevano ritorno a casa camminando lentamente sulla sabbia, mano nella mano, gustando ogni sensazione di quei momenti di vita , assaporandoli a piccoli sorsi. Si fermavano ancora un attimo a scrutare il mare, come se lo vedessero per la prima volta, mentre le speranze di Antoine diventavano parole. Come sogni liquidi, desideri antichi, appartenuti a suo padre e a suo nonno, infilati in una bottiglia e abbandonati nell’oceano. 

“Un giorno guadagnerò abbastanza e comprerò una barca nuova, con un grande albero e una grande vela… e scriverò il tuo nome sui suoi fianchi” – affermava con lo sguardo acceso, mentre con una mano gli scostava una ciocca di capelli dagli occhi.

“E mi porterai con te?”

“Certamente”

“E anche la mamma?”

“Qualche volta, se lo desidera…”

E i grandi occhi verdi di André si spalancavano sull’infinito, perdendosi oltre l’orizzonte, dove cedevano il posto ai sogni.  

Quando diventava buio e il villaggio rimaneva illuminato solo dalla luna, Thérèse si sedeva davanti al camino, prendeva tra le braccia il piccolo André e lo appoggiava sul suo seno morbido. Il bambino si addormentava sereno, cullato dal suo respiro e dall’odore buono del pane caldo che lei preparava ogni giorno  e che le rimaneva addosso, penetrando in ogni poro della pelle.                                                                                 Insieme facevano lunghe passeggiate nei boschi e in quei percorsi magici gli raccontava antiche leggende, di Mago Merlino, di Re Artù e dei suoi cavalieri.  E lui rimaneva incantato, con la bocca spalancata.

Le sue storie gli apparivano così reali, che quasi gli sembrava di vederlo Merlino, prigioniero di quei boschi. Thérèse era il suo primo, grande amore. Amava la sua dolcezza, la sua voce calda, quel sorriso rassicurante. La osservava muto, con gli occhi innamorati, contemplando quei suoi gesti consueti e straordinari: quando si pettinava lentamente, come una carezza, i lunghi capelli castani, e li raccoglieva dietro la nuca, piccola e delicata, quando coglieva i fiori lungo il sentiero, e sfiorava i petali con le sue dita sottili, e a volte sistemava una ginestra tra le ciocche disordinate. Quanto era bella! La mamma più bella del mondo.

“Quando diventerò grande ti sposerò” – dichiarava, mentre sua madre stendeva i panni al cielo, sul filo davanti casa.

“Non è possibile, André. Quando sarai grande, io sarò già vecchia per te”- rispondeva lei dolcemente, con un sorriso colmo di tenerezza.

“E tu aspettami!” – insisteva, mentre le passava una camicia.

“Non sarà necessario, vedrai… anche se adesso non lo credi possibile, un giorno ti innamorerai, e amerai la donna della tua vita più di ogni altra cosa.”

“Più di te?”- domandò, con gli occhi che gli brillavano

“Certo! Tu sei un bambino speciale. Generoso, paziente, capace di un amore smisurato… vieni qui, siediti” – Posò la camicia nella cesta, si sedette su uno sgabello, prese André sulle ginocchia e proseguì seria, guardandolo negli occhi, vicinissima a lui, come se quelle parole fossero un segreto importante, e lui dovesse mangiarle, metterle dentro e custodirle per sempre.

 – “Mio piccolo André, tutto l’amore che ricevi, conservalo qui” - gli sussurrò, mentre appoggiava piano una mano sul suo cuore.

“Che cosa significa, mamma?” – domandava, confuso.

“Ama sempre, André. Ama per primo, anche quando l’amore ti farà soffrire e ti piegherà e tu smetterai di credere e di sperare. Ama e sarai riamato… non dimenticarlo…” – rispose commossa, stringendolo forte dentro un abbraccio, mentre il vento giocava con le lenzuola bianche, sventolandole come bandiere e disperdendone il profumo nell’aria.

E, come una profezia, si compivano in lui quelle parole. Perché tutto quell’affetto André lo assorbiva come fa la terra arida baciata dalla pioggia, come oasi nel deserto.

E quell’amore gli sarebbe bastato per dissetarsi negli anni a venire, quelli più aridi. E ne avrebbe attinto e avuto in abbondanza anche per la donna che un giorno avrebbe amato.  

 

*******

Cammini a passi lenti, col visetto imbronciato e l’aria annoiata, senza una meta precisa, per le stanze e i corridoi desolati del palazzo.  Ti osservo in silenzio, di nascosto, come faccio da sempre, mentre mi affanno ad organizzare e impartire ordini alle domestiche, agitando il mestolo come fosse una spada. Tutti sono presi dalle loro cose: il generale è chiuso da ore nel suo studio, le sorelle Jarjayes se ne stanno sedute davanti al tè delle cinque. Chissà cos’hanno da dirsi di così importante da bisbigliare e ridacchiare tutto il tempo! Nessuno si cura di te, forse perché sei solo una bambina, o forse perché appari sempre così glaciale e superba. Non susciti tenerezza come gli altri fanciulli, sembri già adulta, così schiva e severa, come se non avessi mai bisogno di niente e nessuno, nemmeno del più piccolo gesto d’affetto. Scansi le carezze quasi fossero colpi da parare, e ti pulisci il viso con la manica della camicia, quando una dama ti lascia un bacio umido sulla guancia.

Ti guardi intorno, cercando qualcosa che possa rompere la monotonia di questa lunga domenica pomeriggio. Ma niente sembra illuminare i tuoi bellissimi occhi. Le stanze sono enormi, pulite, ordinate, impeccabili, come i tuoi abiti e la tua camicia bianca e candida. Intorno solo silenzio, e una calma irreale. Troppo silenzio per poter rilevare una presenza di vita nella tua casa, è un silenzio che urla, ingoierebbe qualsiasi bambino.  Anche il tempo sembra essersi fermato, ogni minuto tarda ad arrivare. Tutto appare inanimato e immobile e  tutte queste ore  da riempire, da dover consumare da sola, ti pesano dolorosamente addosso e ti immobilizzano.

Poi qualcosa attira la tua attenzione, si sentono dei rumori provenire dal cortile. Ti avvicini piano alla porta-finestra, e spii, nascosta tra le pieghe della tenda verde, senza fare rumore, senza muovere un muscolo, quasi senza respirare.  Alcuni bambini giocano nel parco, il sole splende luminoso e caldo tra gli alberi, schiamazzi e grida irrompono nella quiete della stanza.

Ti avvicini di più, incuriosita, schiacciando il nasino e i palmi delle mani contro il vetro. Li osservi attenta, per un lungo istante, mentre si muovono irrequieti, con la leggerezza e la voglia d’avventura proprie della tua età. E i loro giochi ti appaiono meravigliosi e ti incantano. Sei bellissima con quell’aria di bimba stupita, mi ricordi quando allo stesso modo, fissi a bocca aperta e il nasino in su, le bolle di sapone colorate, che volteggiano leggere nell’aria e brillano al sole.

I bambini corrono e si nascondono dietro gli abeti, la polvere della terra asciutta d’estate si solleva sotto i loro piedi. Ridono. Ridono così forte, con la pancia, la bocca spalancata, e gli occhi strizzati, e devono divertirsi così tanto, che puoi toccare la loro gioia, ed è talmente contagiosa! I tuoi occhi si illuminano come cristalli, e sul tuo volto compare un timido sorriso. Vorresti uscire, giocare, partecipare a tutta quella vita. Magari aprire la finestra e far entrare un po’ di felicità. Ma non puoi, non devi. L’orgoglio prevale sempre sui tuoi desideri, e li inchioda insieme alle gambe, al suolo, come pietre. Tu sei la figlia del generale, preferiresti essere picchiata piuttosto che mostrare un’emozione. Sospiri a fondo, per alleggerire il peso sul cuore.

I bambini nel parco si accorgono di te, i giochi si arrestano, e all’improvviso scende il silenzio, si voltano a guardarti e bisbigliano qualcosa tra i sorrisi. Le tue guance avvampano e il tuo cuore perde un battito, vorresti essere trasparente, ti conosco, e di sicuro ti starai detestando per aver mostrato un desiderio, una fragilità. Ti allontani in fretta, imbarazzata, umiliata, e corri via dai loro sguardi curiosi. Ti seguo preoccupata, con materna apprensione. Vorresti piangere, lo so, ma non piangi mai, è da femminucce piangere, e ti fa sentire debole e vulnerabile, e tu vuoi essere forte. Arresti la tua corsa davanti a una porta, e dopo qualche incertezza decidi di bussare, piano. Attendi un istante, poi abbassi lentamente la maniglia, ed entri timidamente. Io mi fermo nel corridoio, e anche il mio cuore si è fermato, è un presentimento, un’ansia, il timore di vederti ancora soffrire. Ti guardi intorno, la stanza è vuota e gelata.

“Madre… madre…” – chiami, sperando in un segno della sua presenza, sono giorni che non la vedi. La delusione si dipinge sul tuo volto e comprendi di essere sola. Stanca e arresa, ti butti pesantemente sul letto. Con un gesto brusco afferri un cuscino, te lo premi sul volto, respiri a fondo e annusi il profumo delicato di lei, una debole traccia della sua esistenza. Poi, qualcosa si scioglie dentro di te, senti le difese abbassarsi e i tuoi infiniti scudi sgretolarsi come fragili cristalli. Spalanchi la bocca e piangi, con tutta la forza che hai, e per tutte le volte che non hai pianto, soffocando i singhiozzi tra le piume soffici del guanciale.

E in quelle lacrime lasci scorrere quella sensazione dolorosa e pungente di solitudine e abbandono, la rabbia di sentirti sempre così diversa e mai veramente accettata e compresa. Ma tutto questo non lo puoi ancora sapere, troppe cose da capire e decifrare, ma non per questo sono meno vere e fanno meno male.

Ora vorrei piangere anch’io con te, e ti vorrei prendere e stringere forte, ma so che non ce la faresti ad accogliere un gesto d’amore, proveresti vergogna, e mi allontaneresti.

Sento il tuo respiro regolare, adesso. Il silenzio è sceso sui tuoi singhiozzi. Posso entrare, quasi in punta di piedi, per non svegliarti, e ti vedo così, abbandonata sul letto, addormentata tra le ombre del tramonto, i tuoi riccioli biondi brillano e si confondono nella luce dorata. Ti guardo con infinita tenerezza, sembri uno scricciolo, così fragile e indifesa, raggomitolata tra i cuscini!

Una bambina, ecco cosa sei! Solo una bambina… Dormi ora, e forse stai già sognando… Dove sei? Dentro quale abbraccio? In quello di madre, caldo, protettivo, accogliente, o in un girotondo di fanciulli, tra mani intrecciate e risate cristalline?

Ti accarezzo i capelli, piano ti asciugo una guancia bagnata di lacrime, e appoggio le labbra sulla tua fronte, un gesto d’affetto, nascosto, rubato, imposto. Tanto non puoi sentirmi, o forse sì? Poi, mentre apro la porta per uscire, nel silenzio della stanza, si leva una parola, come un sussurro, come un lamento, la più arcaica, la più tenera: “mamma…”. 

 

***** 

Quanto gli mancava la sua mamma! La sua morte era stata un terremoto nella sua fragile vita. Andandosene si era portata via ogni cosa bella: il profumo dei suoi fiori, la magia delle favole, la tenerezza…  E la voglia di vivere di suo padre.[3]

Una sera lo vide in piedi, sulla spiaggia, ad osservare il mare. Le onde si sollevavano altissime e gli spruzzi d’acqua si lanciavano come scintille d’argento nel cielo scuro senza stelle, e bagnavano i suoi abiti consumati. Ma lui se ne stava così, immobile, in silenzio, assorto. André si avvicinò piano e lo chiamò: “Papà… papà…” – Non reagì, era assente, lontanissimo nei suoi pensieri. Allora tirò un lembo della manica della sua camicia. Io ci sono, sono qui, non sei solo – avrebbe voluto dirgli, ma riuscì solo ad afferrare la sua mano e a stringerla tra le sue piccole dita. Solo allora si accorse di André, e ricambiò la stretta.

“Stai piangendo, papà?” – Gli chiese, fissandolo negli occhi.

“No piccolo, è solo l’acqua del mare che mi bagna il viso” – Rispose, strofinandosi il volto con il palmo della mano, vergognandosi di quel momento di debolezza.

“Posso venire con te?” – Gli domandò pieno di speranza. Non voleva più sentirsi solo, non voleva lasciarlo solo. Sentiva che suo padre aveva bisogno di lui.

“Un’altra volta, magari. Il mare è grosso. Vai ora. Aspettami a casa, tornerò presto”. C’era una stanchezza infinita nella sua voce.

André lo attese, in ginocchio su una sedia, davanti alla finestra, lo sguardo fisso verso il mare, tra poco arriva, tra poco arriva – ripeteva tra sé, come una nenia. Ma quella volta Antoine non ritornò. Se lo riprese il mare. Morì come avrebbe desiderato, nella sua barchetta di carta, a scivolare tra le onde.

Ora nel silenzio opprimente di quelle stanze, si sentiva profondamente, irrimediabilmente solo. Non era solamente l’angoscia dell’abbandono a lasciarlo senza respiro, ma anche la paura di svegliarsi un mattino e non ricordare più i volti delle persone amate e il suono delle loro voci. Allora cercava il loro profumo, la loro presenza, affondando il viso nelle sue piccole mani e respirando profondamente. Ma non sentiva nulla.

Se solo fosse riuscito a mutare tutto quel dolore in lacrime! Invece se ne stava nel buio della notte, seduto a gambe incrociate, sul pavimento freddo, a dondolare piano, a fissare con gli occhi vuoti l’oscurità, davanti al camino ormai spento. Fuori il vento urlava minaccioso, spalancò con fragore la finestra, scuotendo violentemente le tende, sollevandole fino al soffitto. André tremava, era gelato, anche nel cuore, non vedeva e non sentiva nulla. Avvertiva solo un fragore dentro di sé, come quando le onde del mare in tempesta si infrangono violente sulle rocce e le fanno tremare, mentre lui si sentiva trascinare giù, sempre più giù, dalla corrente.

Sua nonna lo trovò così, rannicchiato come un pulcino indifeso. Lo avvolse in una coperta e lo strinse a sé - “Presto verrai con me, piccolo” – gli disse piano, appoggiando il viso tra i suoi capelli e cullandolo dolcemente, con gli occhi velati di pianto.

André non ebbe il tempo di capire cosa stesse accadendo, che una sera d’inverno fu strappato dal suo piccolo mondo sereno, dai luoghi appartenuti alla sua infanzia, da quel periodo più azzurro della vita e sistemato in una carrozza.

Mentre si allontanava dalla sua amata terra, il mare accoglieva il sole in un abbraccio di colori. Le ali bianche di un gabbiano si aprivano ampie sullo sfondo scarlatto del cielo. Con il suo canto sgraziato rompeva il silenzio di quell’ultimo spettacolo, l’ultimo tramonto, e seguiva il suo viaggio, come un addio. Allungò una mano al cielo, come per un saluto, quello definitivo.

“Possiamo fermarci un momento? Solo un attimo… per favore!” – chiese implorante, con un nodo in gola. Vide in lontananza la vecchia barca abbandonata sulla battigia. Scese dalla carrozza, si avvicinò al relitto e si sedette, accucciato sulla sabbia fresca, con le mani abbracciò le ginocchia e le strinse al petto, la testa e le spalle appoggiate sul fianco del legno umido e scrostato. Chiuse gli occhi, e avvertì gli ultimi raggi del sole filtrare attraverso le palpebre sottili. Respirò a lungo, profondamente, vento e sale, e ascoltò la voce del mare ancora una volta. Voleva imprimerlo nella memoria, poterlo ricordare così, domani. Poi all’improvviso percepì qualcosa, ebbe la sensazione che una mano lo sfiorasse, leggera, come una carezza – “Mamma… sei qui?” -  sussurrò incerto. Un brivido lo percorse, e sentì il cuore accelerare e il dolore spingere violentemente dietro gli occhi. Si guardò intorno, non c’era nessuno, la spiaggia era una distesa deserta, avvolta in un silenzio primordiale. Solo un vecchio cane randagio e denutrito, vagava, ansimando affamato, nei dintorni. Protese una mano e gli offrì un pezzo di pane, lo accarezzò piano, con cautela, per non spaventarlo. Si fissarono negli occhi lucidi e stanchi, avevano lo stesso sguardo malinconico, smarrito, arreso.  – “Anche tu sei triste e solo come me, non è vero?... Ma almeno tu avrai ancora tutto questo” – gli sussurrò André, commosso, mentre con una mano aperta indicava il mare – “ io, invece, non so più quale sarà la mia casa, sono anch’io un randagio ora…”. – L’animale si allontanò piano, a testa bassa, e lui rimase a guardarlo fino a quando non diventò un puntino. Allora distolse lo sguardo, e notò delle impronte sulla rena, probabilmente di uomo. Le osservò e ne tracciò il contorno con un dito. Poi si tolse una scarpa e una calza, e affondò un piede in un’orma. Voleva credere, si voleva illudere che fosse quella di suo padre. Poter camminare ancora sui suoi passi, e sentirlo ancora una volta vicino, farlo rivivere in un’immagine, entrare dentro di lui ed esserne compreso. Poi, di colpo, con un gesto brusco, cancellò quelle tracce, dimenando rabbiosamente le gambe. – “NON È GIUSTO! NON È GIUSTO!” – Urlò, stringendo i pugni, fino a farsi male. La sabbia si sollevò in milioni di morbidi granelli, vi affondò le mani, la strinse forte e la lasciò scorrere tra le piccole dita. Cercò di calmarsi, pensando che forse avrebbe potuto portare con sé un pezzetto della sua spiaggia. Allora se ne riempì le tasche, infilandoci a forza anche una grossa conchiglia di madreperla. Faceva freddo ora, aveva le mani e i piedi ghiacciati. Il mare stava cambiando colore. Comprese che era tempo di andare. Sospirò profondamente, come per farsi coraggio, e risalì a malincuore, a passi lenti, sulla vettura in attesa, sulla strada solitaria e polverosa.

Mentre il giorno moriva, si alzò la nebbia, e il sole si sciolse nell’acqua. Un velo sottile, sfumato di grigio, coprì il paesaggio, avvolgendolo in un’atmosfera surreale. Gli alberi, sul ciglio del sentiero, sembravano galleggiare sul vapore liberato dalla terra umida, come sospesi nell’aria, mozzati, appesi a un filo invisibile nel cielo.

La carrozza correva, sfidava il vento, le scogliere deserte, velate d’argento, le scorrevano accanto, mentre il piccolo André andava incontro al suo destino e ad una nuova vita.

Mamma, papà, perché mi avete lasciato solo? Sono stato forse troppo cattivo? - Affacciato al finestrino, affidava i suoi pensieri al mare e  sentiva le lacrime pungergli gli occhi. Poi, quando non riuscì più a trattenerle, finalmente le lasciò andare in singhiozzi.  

 

******* 

Avevo i muscoli e i pensieri intorpiditi. La stanchezza rasentava la sofferenza fisica. Ero estenuato, per il lungo viaggio, per tutti gli eventi drammatici accaduti troppo rapidamente nella mia vita, per tutte le lacrime versate. Avevo pianto così tanto che sentivo le tempie pulsare e gli occhi bruciare. Mi sentivo smarrito, dove mi trovavo? In quale vita ero entrato? Avrei voluto fuggire da quel luogo così diverso dal mio mondo. Non c’era niente di famigliare, di accogliente, in quella casa così fredda e maestosa. Desideravo solo chiudermi in una stanza e sprofondare in un sonno lunghissimo e piangere ancora e ancora, e sognare. Forse era tutto un incubo e domani mi sarei svegliato nella mia casa, vicino al mare, tra le braccia di mia madre.

Il generale e mia nonna mi parlavano, ma le loro voci mi arrivavano lontane, ovattate. Guardavo le bocche che si aprivano e si muovevano, facendo uscire suoni deformati, e il mio sguardo vuoto le attraversava. Non riuscivo a rispondere, non ne avevo la forza. E non volevo incontrare nessuno. Nemmeno una sciocca bambina viziata.

Poi la vidi. Dalla cima della scalinata, sotto l’arco enorme del portone, spuntò Oscar. Sgranai improvvisamente gli occhi in un’espressione stupita, meravigliata, beata. Il mio cuore ebbe un sussulto, e l’imbarazzo mi colorò le guance, facendomi immediatamente abbassare lo sguardo. Le ginocchia mi si piegarono, ma non fu per la stanchezza. Avanzava verso di me con aria superba, ma quel suo atteggiamento altero e imperioso contrastava con il suo aspetto. Il passo era deciso ma lieve, sembrava senza peso, la testa alta e il viso angelico, la pelle candida e luminosa. Pensai che fosse soffice da accarezzare. E i suoi gesti eleganti e aggraziati, le conferivano una sensazione di leggerezza ma allo stesso tempo c’era come una forza in lei. Era come se le sue piccole dita delicate  potessero entrarmi dentro e sollevare il macigno che sentivo sul cuore. Ogni cosa in lei appariva discordante, persino il nome, e tuttavia esprimeva armonia. Era come un angelo guerriero, vestito di fuoco e di grazia.

Oscar si bloccò davanti a me, mi scrutava con piglio fiero, le mani appoggiate sui fianchi. Ma non ebbi paura.

“Ciao, tu devi essere André”- disse con voce squillante e decisa.

“Sì, sono io…”

“Ce l’hai una spada per combattere?”

“Cosa…?”

“Una spada come questa…” Asserì orgogliosa, mettendo sotto i miei occhi una spada lucidissima.

“No…”

“Posso regalartene una se vuoi…”

Non riuscii a rispondere, mi sentivo a disagio, poi sollevai lo sguardo, i nostri sguardi si incontrarono, e l’azzurro intenso, soave e trasparente dei suoi occhi mi si parò dentro, e occupò tutto il vuoto al centro del mio petto, come quando le radici nel profondo della terra si allargano, si dilatano, per prendere spazio e nutrimento. E così la ospitai in me, e la vidi con chiarezza, la incontrai intimamente, nel mistero della sua silenziosa solitudine. Solo io riuscii a vedere qualcosa in lei che altri non percepivano, e che a nessuno era stato mai rivelato. Solo a me avrebbe permesso di conoscerla profondamente, e profondamente amarla.

Mi sentivo vittima di un incantesimo, magicamente attratto da lei, come una falena per la luce, come il mare per la luna. E qualcosa in me si accese, una speranza, una forza nuova, inaspettata. Allora affondai una mano in tasca ed estrassi la conchiglia spolverata di sabbia, e gliela offrii – “Questa è per te. Dentro c’è un po’ del mio mare. E’ rimasto imprigionato qui per sempre. E’ magica: quando ti sentirai triste, potrai accostare l’orecchio, e il suono delle onde porterà via tutta la tristezza…”.

“Allora adesso serve a te, sembri così triste…”

“Già… ma con me ha funzionato, non ne ho più bisogno, sto meglio ora…”

Era tutto quello che possedevo, tutto ciò che rimaneva del mio passato, della mia storia, il ricordo e la sintesi di ciò che avevo amato. Ma non mi importava.

Nascosi  la mia pena, quella segreta nostalgia, dietro un debole sorriso, me lo strappai dal cuore, e glielo regalai, insieme ad una conchiglia venuta da molto lontano.

 

Avevo atteso il suo arrivo con impazienza, come un regalo. Fissavo il pendolo nel salone, ma le lancette sembravano immobili. Poi tornavo in cucina da Nanny  a sovrastarla di domande:

“Nonna, ma quando arriva?”- domandavo con il viso imbronciato. 

“Non essere impaziente piccola, il viaggio è lungo, ci vuole tempo…” – rispondeva lei, mentre trafficava con le pentole.

“Sì, ma sarebbe dovuto arrivare da ore!”

“Arriverà presto, vedrai”

“Com’è? E’ forte come me? Sa combattere?”

“Non credo, ma potrà sempre imparare, se tu glielo insegnerai…” Non fece in tempo a terminare la frase che ero volata giù dalle scale. – “Oscar, ma dove corri…?” - sentii urlare alle mie spalle.

La carrozza si fermò nel parco, vicino alla fontana. Eccolo! Era arrivato finalmente. Lo vidi scendere, lentamente, a testa bassa. Con le mani giunte si tormentava le dita.

Lo scrutai attentamente, aveva modi gentili, i capelli neri, raccolti da un nastro blu, era gracile, alto quanto me, e pensai che mi sarebbe stato facile sconfiggerlo.

Poi lui sollevò il volto e  vidi i suo grandi occhi verdi, gonfi e arrossati, bellissimi. Un tuffo al cuore.

Mi parve così piccolo, indifeso e solo. Percepii tutta la tristezza di quel bambino dall’aspetto tanto serio, e nello stesso tempo uno strano senso di serenità e di pace, un misto di malinconia e dolcezza. Mi sentii spogliata dal suo sguardo, ma senza esserne invasa. Ebbi la sensazione che mai nessuno prima mi avesse vista veramente.

Avvertii il bisogno di proteggerlo e lasciarmi contenere dal tepore che riusciva a trasmettere. Forse avrebbe riempito e riscaldato la mia casa e la mia vita, così fredda e vuota.

Avevo fantasticato per giorni su quell’incontro, avevo immaginato di invitarlo subito ad una sfida con la spada, ma cambiai idea, sono proprio una sciocca bambina viziata - pensai.

Poi lui allungò una mano, e a sorpresa mi donò una conchiglia. La sua voce era dolce, calma, tranquilla, sembrava un sussurro, mi accarezzava, come una brezza tiepida di primavera. Provai un brivido sotto la pelle, lo ringraziai, semplicemente, e gli tesi una mano. E in quel contatto timido e delicato iniziò un lungo dialogo, intimo, silenzioso e intenso. Lui distese le labbra in un sorriso, e io mi sentii solleticare il cuore. Com’era caldo, rassicurante, morbido, dolcissimo quel sorriso! Come la cioccolata di Nanny, considerai. E per la prima volta mi sentii intimamente accolta e avvolta da una tenerezza sconosciuta. Decisi in quell’istante, senza incertezze, senza paure, di potermi fidare di lui, di potergli aprire il mio cuore e affidare la mia vita. Ne avrebbe avuto cura.  

 

******* 

Erano solo due bambini, nati sotto cieli diversi, in due mondi lontani.

Non avevano niente in comune, nemmeno i sogni.

André aveva negli occhi il mare, i boschi e il volo dei gabbiani.

Oscar sognava epiche battaglie, eroi immortali e guerrieri impavidi.

Eppure non si erano nemmeno dovuti cercare.

 

Avrei voluto spiegare com'è nata questa ff, quale significato ha per me. Ma di fronte alle troppe parole che affiorano nella mia mente, in fondo lascio che sia solo il racconto a parlare al mio posto, che porti da sé il suo senso.

Desidero ringraziare Alessandra e Laura per avermi indicato la strada. A quest’ultima, soprattutto, va la mia gratitudine, per avermi permesso di pubblicare il testo sul suo sito, per tutte le mail spedite e ricevute, per il titolo (che da subito ho sentito anche un po’ mio), per aver riacceso in me la passione per "Lady Oscar", e per moltissime altre cose che le parole non riescono a spiegare.


 

[1] da Hans Christian Andersen, Fiabe – La Sirenetta.  Mi piaceva troppo… e l’ho voluta lasciare così!

[2] Lady Oscar, episodio 25

[3] da M. Sunderland: “Aiutare i bambini a superare lutti e perdite”, Edizioni Erickson 

 

Pubblicazione del sito Little corner novembre 2013

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Fine

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