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Un prince pour Diane

Warning!!!

 

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Detesto andare in caserma da Alain, lo detesto davvero. Non per lui, che mi manca tanto da quando non è più in casa con noi; anzi, è bello poterlo vedere, rendere la sua vita un po’ migliore: deve essere orribile stare in quella caserma puzzolente, passare le giornate in giro per Parigi qualsiasi tempo faccia, qualsiasi cosa accada. Fa questa vita schifosa per noi, per me e la mamma, per mantenerci. Gli sono grata per questo. Ma resta il fatto che odio andare in caserma a trovarlo. Alain è tanto caro, ma proprio non si sa contenere, non sa tenere le mani a posto, specie quando ci sono io nei paraggi. Non è colpa mia se sono carina, o se i suoi commilitoni mi vedono bella; io mi limito ad andare da lui a portare le cose che gli manda la mamma, mi limito a salutare gli altri soldati. Se attiro commenti non posso farci nulla, e se gli apprezzamenti sono volgari io posso soltanto ignorarli. E dovrebbe farlo anche lui. Invece no, lui si arrabbia, e mena cazzotti se anche solo mi salutano, se solo mi lanciano un’occhiata ammirata; ogni volta che arrivo io succede un casino, le sberle volano finché non arriva il comandante a rimetterli in riga. E quando chiede cosa diamine sia successo tutti si girano a guardare me e Alain, e io mi sento pregare di non portare scompiglio in caserma e se per favore posso andare via, e mi tocca lasciare il cestino e andarmene in fretta e furia, con Alain che pure mi rimprovera sottovoce, come se la colpa fosse mia e non sua. Ogni volta che vado da lui rimedio una figuraccia, mi viene voglia di piangere da quanto mi sento in imbarazzo. Non la sopporto più questa sua stupida gelosia, di questo passo non troverò mai un fidanzato. Non che lo cerchi tra i suoi commilitoni: sono tutti rozzi, volgari e brutti. Di questo Alain può stare tranquillo, non avrò mai nulla a che fare con loro, io per me voglio un principe.

 

È arrivato un nuovo soldato, lì alla Guardia; l’ho visto oggi per la prima volta, quando ho portato ad Alain le camicie pulite. Erano insieme nel cortile, dovevano essere in pausa, quindi ho dovuto salutarlo anche se Alain non vuole che io parli con gli altri soldati. Questa volta però non mi ha rimproverato, anzi, ci ha presentato: si chiama André. Evidentemente Alain lo considera innocuo. Che stupido che è mio fratello: è bello, André, ha i capelli lunghi, scuri, e gli occhi verdi, e il viso gentile. Non sembra uno dei soliti soldati beoni, ha un bel portamento, il profilo elegante: sembra un nobile, ecco, o meglio quello che io immagino sia un nobile, per quei pochi che ne ho visto. Forse qualsiasi uomo perbene sembrerebbe un principe in mezzo a quella soldataglia cafona, forse lui lo sembrerebbe a prescindere, non lo so. Fatto sta che è diverso da gli altri: parla poco, parla bene, non fa commenti fuori luogo; è rimasto per tutto il tempo in silenzio ad ascoltarci, sorridendo. Ha un bel sorriso, ha tutti i denti bianchi. È molto bello davvero, ma è troppo grande, e poi non vorrei che Alain lo picchiasse. Forse non lo farebbe comunque, sembrano amici, ma è meglio non approfondire.

 

Oggi, quando sono arrivata in caserma, Alain non c’era, era di ronda; stavo per tornarmene a casa quando ho sentito una voce che mi chiamava: era André. Si ricorda il mio nome. Ha detto che potevo lasciare a lui le cose di Alain, era un peccato che avessi fatto il viaggio per niente. Io l’ho semplicemente ringraziato, non sapevo che altro dire, mi sentivo avvampare; gli ho passato il cestino e lui mi ha sfiorato inavvertitamente una mano. Non credo che lui se ne sia accorto, io però mi sono sentita strana. Mi ha chiesto quanti anni avessi; diciassette, gli ho risposto. Si è messo a ridere, ha detto che aveva voglia di fare quattro chiacchiere in attesa del suo turno ma che non poteva trattenere fino a tardi una ragazzina. Una ragazzina, ha detto. Io non mi sento affatto una ragazzina; ma forse lo sono, perché altrimenti non avrei avuto le guance rosse, non mi sarebbe tremata la voce mentre lo salutavo. Forse sono solo sciocca, una ragazzina sciocca. Forse non dovrei più andare in caserma, comincio a sentirmi veramente a disagio.

 

Stasera Alain ha cenato a casa con noi, e la mamma ha cucinato un sacco di cose: diventa sprecona, la mamma, quando c’è Alain, e poi ci tocca mangiare avanzi per una settimana. Però sono stata contenta che sia venuto, ci ha raccontato tante cose, tanti aneddoti buffi delle cose che succedono in caserma. Tanto per cominciare ha detto che il suo nuovo comandante è una donna, una specie di contessa stramba, non ho ben capito. Io l’avevo intravista una sola volta, ma con l’uniforme l’avevo scambiata per un uomo, un uomo affascinante anche, certamente meglio del vecchio comandante, che era anziano e baffuto. Una donna vestita da uomo, una contessa che va a fare il comandante della Guardia Permanente. Bah, valli a capire questi nobili, io al posto suo farei la vita della gran dama, altro che star dietro a soldati indisciplinati come i commilitoni di Alain. Lui però dice che lei è davvero un comandante fantastico: buon per lui, a me non interessa affatto.

E poi ci ha parlato di André, che a quanto pare è diventato il suo nuovo migliore amico. Ha raccontato che è arrivato insieme al nuovo comandante, che prima era il suo attendente e che poi, quando lei è entrata nella Guardia Permanente, si è arruolato anche lui. E poi mi ha detto anche altre cose, che lui e questo comandante, questa Oscar, sono cresciuti insieme, che sono molto legati, che lui per lei ha addirittura perso un occhio ed è per questo che porta quel lungo ciuffo sulla fronte, che per difendere l’onore di lei si è quasi fatto ammazzare di botte. È innamorato del comandante, André, ha detto Alain, e secondo lui questa storia non promette niente di buono, perché lei è glaciale e distante, e lo farà soltanto soffrire. A me sembra tutto molto romantico, e molto crudele: lei deve essere proprio cattiva se ha permesso che ad André accadessero cose così. Non la conosco ma già non mi piace, gliel’ho detto ad Alain, e lui mi ha risposto che sono troppo piccola per capire e che comunque la mia opinione non è richiesta. Sarà, ma io André non lo farei mai soffrire così.

 

Oggi è il compleanno di Alain, e la mamma mi ha mandato in caserma per portargli i nostri auguri, nonché un bel po’ di brioches che abbiamo preparato apposta per l’occasione. Quando sono arrivata Alain si è concentrato unicamente sul cestino, neppure ha ascoltato ciò che gli dicevo: pensa sempre e solo a mangiare questo bietolone di mio fratello. Difatti ha addentato una brioche e se n’è scappato senza nemmeno salutarmi perché aveva il turno; secondo me Alain dice un sacco di fesserie, fa finta di essere sempre impegnato per non fare la figura del lazzarone. Mi ha lasciato nel cortile, paniere alle mani, con André, che era lì insieme a lui; gli ho offerto una brioche, che lui ha insistito per dividere con me. Ce la siamo mangiata così, seduti sui gradini della caserma, e un mio dolce non mi è mai sembrato così buono; forse perché il cielo era azzurro e limpido, forse perché il sole era caldo e dolce, forse perché c’era André, che parlava e rideva con me. Non l’avevo mai visto ridere davvero, ha sempre l’aria un po’ malinconica, però con me si vedeva che si divertiva, evidentemente mi trova simpatica, spero non mi trovi ridicola, non lo sopporterei.

Mi ha chiesto tante cose di me, della mia vita quando ancora era vivo papà, di come ce la caviamo adesso io e la mamma; mi ha detto che mi capisce, perché anche lui ha perso i genitori quando era piccolo. Poi ha voluto sapere che cosa avrei voluto fare da grande: la sarta, gli ho risposto, perché mi piacciono i bei vestiti, anche se io non ne posso avere perché non sono ricca. André ha detto che sono bella lo stesso, anche se i miei abiti sono semplici, e io sono arrossita, e gli ho detto che non si fanno i complimenti alle ragazze così, alla leggera. Ma tu non sei una ragazza, mi ha risposto, tu sei la sorellina di Alain, e quindi un po’ anche la mia. La sorellina. Di Alain. Di Alain, che picchia tutti i mie potenziali pretendenti. La sorellina piccola di Alain, una bimba a cui si può dire qualunque cosa perché tanto non ci da peso. Come ti sbagli, André, io non sono come mi vedete; e tu non sei così più vecchio di me. In ogni caso non dovresti prendermi in giro.

Mi hai chiesto se ho un fidanzato; no, ti ho detto, non ce l’ho. Ti sei domandato perché, visto che sono così carina; forse proprio perché sono così bella, ho ribattuto. Hai riso, e hai detto che era vero. Mi hai scostato una ciocca di capelli, e io ho spostato il viso: lasciami stare, André, forse sono davvero piccola come dite. Però non te ne andare, dimmi ancora che sono bella, dimmelo con la tua voce gentile, dimmelo e guardami con il tuo unico occhio così intenso. Dimmi che mio fratello racconta stupidaggini, che tu il tuo strano comandante non lo ami, dimmi che non sono piccola come mi sento adesso.

“Ho una cosa per te, Diane, l’ho raccolto proprio stamattina, immaginavo che saresti venuta.”

Un bocciolo di rosa bianca.

“È un po’ come te non trovi?”

Lo adagi tra le mie dita. Non lo so se è come me, non so cosa sono io adesso, so solo che siamo tu ed io, e che ho paura, e che vorrei restassi qui, su questi scalini, con me, per sempre.

“André, ti sei arruolato per prendere il fresco con le ragazzine? Cammina! In caserma!”

È lei, quella orribile donna, che ti richiama all’ordine, che ti porta via; e tu corri, obbediente, sottomesso, le chiedi pure scusa. A lei, non a me. A me che resto qui, con il mio vestito buono, con le lacrime negli occhi, con le mie guance rosse e il mio stupido cestino, non dici niente. Tu te ne vai, ma lei si trattiene, e mi fissa, e il suo sguardo è carico di astio. Anche il mio lo è. Finalmente rientra, è un sollievo non vederla più. Guardo il posto dove eri tu un attimo fa, c’è soltanto un ultimo pezzo di brioche: l’hai lasciata qui mentre fuggivi da lei. Mi hai lasciato qui, mentre fuggivi da lei. Valgo quanto un pezzo di brioche. Stupida Diane, sciocca ragazzina.

 

Sono tornata a casa tardi, la cena era già in tavola; mi sono seduta, non ho toccato niente, ho chiesto alla mamma di potermene andare in camera. Lei non mi ha chiesto niente, ha solo commentato “Beate le pene d’amore, che vengono e vanno…” No mamma, ti sbagli: io non sono innamorata di lui. Anche se piango, non sono innamorata di lui. Anche se mi sento umiliata e ferita, io non sono innamorata di lui. Anche se sarei voluta restare in quel cortile per sempre, io non sono innamorata di André Grandier.

 

Non sono più andata in caserma a trovare Alain. Ho detto alla mamma che non voglio andarci perché i soldati fanno apprezzamenti pesanti su di me, ma la verità è che non voglio incontrare lui. Non voglio più sentirmi piccola davanti a lui, non voglio più vederlo scappar via come un cane bastonato. Preferisco non vederlo affatto. Mi passerà prima o poi.

Ma oggi sono dovuta andare io, perché la mamma ha la febbre, e Alain a quanto pare ha finito le camicie pulite. Ho camminato piano, controvoglia, sperando in un imprevisto, ma non è successo niente, e sono arrivata alla caserma. Non so se c’era lei, non so chi ci fosse, non so nemmeno se sono volate sberle, ho dato le camicie ad Alain e me ne sono andata. Ero già nel cortile quando l’ho visto scappare fuori, mi ha chiamato, non ho risposto; l’ho sentito correre verso di me e allora ho corso anche io, e sono stata più veloce di lui: mi sono infilata in un vicolo, non mi ha visto. Ho fatto il giro lungo per tornare a casa, non ho voluto rischiare d’incontrarlo.

 

Alain l’ha invitato a cena, stasera: è un idiota, mio fratello, il più grosso idiota che abbia mai conosciuto. Non ha capito nulla, non ha visto nulla: certo, perché André è il suo migliore amico, e non farebbe mai del male alla sua sorellina. Come sei cieco, Alain, sospettoso, geloso e paurosamente cieco.

Ho aiutato la mamma a preparare la cena, quando sono arrivati ho salutato André senza guardarlo, senza spostare gli occhi dalla tavola che stavo apparecchiando. Lui non ha insistito, e gliene sono stata grata.

Lo hanno fatto sedere di fronte a me, sembra una congiura, più voglio stargli lontana più me lo trovo davanti. Ma io sono più forte, non lo guardo, non gli parlo, tengo lo sguardo fisso sul mio piatto, che non mi è mai parso così interessante. Ma sento i suoi occhi su di me, che mi bruciano, che mi scrutano, e io non vorrei essere qui, seduta alla mia tavola, con Alain che ride e versa vino, e questa zuppa che è diventata fredda e non ha più sapore. Io non ho sapore per te, e non capisco cosa ci faccia tu qui, a casa mia. E anche se non vorrei mi ritrovo a perdermi nei tuoi occhi, a ricambiare il tuo sguardo, il tuo sorriso; Alain se ne accorge, perché lui queste cose le nota sempre, e anche se sei il suo migliore amico mi manda via, a prendere le vostre giacche, ed è un sollievo per me, perché non so che fare, non so cosa pensare.

Nel buio una mano avvolge il mio polso, sento un respiro ansioso.

“Diane…”

“Lasciami…” Mi stai spaventando. Ma tu non mi lasci, mi attiri a te, e ora le tue labbra sono sulle mie. Sono calde, le tue labbra, roventi, premono sulla mia bocca, la costringono a schiudersi, ad assecondare la tua. È il mio primo bacio. Ho paura. È il mio primo bacio e io ho paura: è così che deve essere?

Rumori che si avvicinano. Mia madre? No, Alain, riconosco i passi. Ti allontano.

“André, cosa vuoi da me?”

“Io ho bisogno di te, Diane, ho bisogno di parlarti. Vieni domani in caserma, alle quattro.”

“Io non…” Non voglio? Non ti amo? Non so. I passi si avvicinano, ora li senti anche tu.

“Ti prego”, mi implori in un soffio.

“Va bene”, bisbiglio. Ti porgo la giacca, facciamo finta di niente, Alain ci guarda perplesso ma non chiede, e io so che tu non gli dirai nulla.

 

Sono venuta in caserma, l’ho fatto perché sono innamorata di te: sì, nonostante tutto ciò che mi sono detta mi sono innamorata di te, di quell’uomo che eri quando ti ho visto la prima volta, quando mi sei sembrato un principe. Mi chiedo se quell’uomo tu lo sia davvero: sono qui per scoprirlo. Tu sei già fuori, quando arrivo mi prendi per mano, mi dai un bacio sulla fronte. Mi sorridi, il tuo sguardo è sereno, forse anche tu mi ami: non oso sperarlo.

Andiamo verso i giardini, camminiamo piano, in silenzio, tu non mi dai spiegazioni, io non te ne chiedo. Raggiungiamo un boschetto, finalmente decidi di parlare.

“Diane, io ho sbagliato, so di non avere scuse di fronte a te: ti ho trascinata, tu, così giovane e innocente, in una situazione più grande di te, ti ho usata per fare ingelosire un’altra donna… ma vedi, Diane, a volte l’amore, la vita, sono difficili, complicati…”

“André, io non voglio sentire le tue giustificazioni, non voglio sapere nulla di te e lei; preferisco dimenticare tutto, davvero…”

“Ma io non voglio dimenticare, Diane, non voglio dimenticarti: tu hai portato una ventata di aria nuova nella mia vita, un assaggio di felicità. E io voglio essere felice, Diane, voglio lasciarmi dietro tutto il dolore. E sento che con te lo posso fare: tu mi ami, Diane, io lo so, e so anche che sei buona, e dolce. Rendimi felice, Diane.”

Mi baci di nuovo, con più ardore, più passione; mi blocchi contro un albero, mi stringi, e io rispondo al tuo abbraccio e al tuo bacio, perché io davvero vorrei darti la felicità, vorrei farti dimenticare lei, farei tutto ciò che tu mi chiedessi. Perché ti amo, André, e tu non sai quanto, forse non lo so nemmeno io; e ho paura, perché questo sentimento è più grande di me, perché il tuo amore per lei è più grande di me, e io non so se posso affrontarlo. Ti stacchi, forse hai percepito il mio timore, mi guardi: devo chiedertelo.

“E lei, André?”

“Lei non ci sarà più, è una promessa, non la voglio più nella mia vita. Dammi solo tempo.”

Ti credo, André, ti voglio credere, ma anche tu devi darmi tempo. Invece tu hai fretta, hai fame, la tua bocca è di nuovo sulla mia, le tue mani frugano il mio corpo; cerco di scostarle, ma tu allontani il mio gesto con fare noncurante. Ti togli gli abiti, fai scivolare via il mio vestito; mi copro con le braccia, ma tu mi fermi i polsi: mi vuoi guardare. Mi afferri e mi tiri giù, sali su di me, e in un attimo mi sei dentro, rapido e brusco. E io non sento niente, anzi no, non è vero, sento dolore, e umiliazione: perché mi accorgo che non mi stai guardando, i tuoi occhi sono lontani, vedono lei. È con lei che stai facendo l’amore, con me stai solo scopando, in me stai solo affogando il tuo dolore e la tua rabbia per lei.

È tutto finito. Hai raggiunto il tuo traguardo e scivoli via, ti allontani da me; e finalmente mi guardi, e capisci cosa hai fatto.

“Diane…”

Ti allunghi verso di me, ma io mi sono già rivestita, sono già in piedi.

“Devo tornare a casa. Non seguirmi.”

Sono a casa mia, nella mia stanza, rannicchiata nel mio letto. Nel mio lettino di bimba, che per anni ha cullato i miei sogni e che oggi mi accoglie donna, troppo cresciuta per la mia età. Mi sento indegna, sporca, e so che è colpa tua. E so che è colpa mia. Nonostante ciò, non lo rimpiango. Però adesso dimenticami, e fammi dimenticare.

 

Bussano alla porta, mi muovo per aprire, ma la mamma è più rapida; sulla soglia la sagoma imponente di Alain, accanto a lui la figura slanciata di André. Vorrei sparire, nascondermi, e non posso, inchiodata dal sorriso ironico di mio fratello.

“Donne, grandi notizie! Indovinate un po’ che si è messo in testa il mio compare qui?! Vuole sposare Diane, stamattina è venuto a chiedermi la sua mano! Che bravo soldatino rispettoso, vero mamma? E tu, sorellina, che ne dici? È di tuo gradimento questo bel tomo?”

Alain ti spinge davanti a me, e tu mi sorridi imbarazzato ma felice: forse c’è ancora una speranza per noi.

“Non sei obbligato a fare nulla.”

Te lo dico in un sussurro, sperando che la mamma non mi senta.

“Nessun obbligo, voglio solo fare la cosa giusta.”

 

E così sono fidanzata, con André Grandier, principe della Guardia permanente, migliore amico di mio fratello; un uomo più grande di me, che ha sprecato metà della sua vita amando una donna che non lo ricambiava, e che ora vuole ripartire da me, da noi. Mi chiedo se mi ami davvero.

Tra una settimana mi sposo.

 

Sono nervosa stamattina, ho dormito male, ho brutti presentimenti; la mamma dice che è normale, che capita a tutte le spose. Spero che sia così, che sia soltanto ansia.

La chiesa è attraversata da lame di luce e pulviscolo, i volti degli invitati sono tutti su di me. Riesco a distinguere tutto mentre Alain mi accompagna, sotto braccio, lungo la navata; ti vedo mentre ti sforzi di scorgere il mio viso attraverso il velo che lo copre. Arriviamo all’altare, Alain ti bisbiglia qualcosa all’orecchio, tu sorridi. La cerimonia inizia.

 

Mi sento meglio, più tranquilla, questo peso sul petto si sta dissolvendo. Ascolto le parole del prete, intense e commoventi, stringo la tua mano, sbircio la gioia di mia madre e di mio fratello. Mi sento bene, andrà tutto bene. La celebrazione è quasi finita, manca solo lo scambio delle fedi.

“No!”

Tutti si girano, solo io resto ferma, perché io non ho bisogno di vedere chi sia: è lei, sicuramente lei, può essere solo lei, venuta a ristabilire i suoi diritti su di te. Sii forte, André, resta qui, non la seguire.

Preghiera inutile, le tue dita si sciolgono dalle mie.

“Perdonami”, solo questo riesci a dire mentre fuggi via, rapido e a testa bassa, per nasconderti agli sguardi accusatori dei presenti, per nasconderti agli occhi di Alain, che ti osserva basito, troppo stupito per reagire, per punirti della tua colpa: non riesce a credere che tu abbia fatto una cosa del genere alla sua sorellina, che tu l’abbia fatta a lui. Eri il suo migliore amico. Sciocco, ingenuo, cieco Alain, che hai passato la vita a difendermi da pericoli inesistenti e non hai saputo vedere quale minaccia costituiva André. Perché sei troppo buono, troppo sincero nei tuoi affetti; e perché io non te l’ho voluto far capire. Non è colpa tua.

La mamma accorre al mio fianco, spaventata dalla mia immobilità, teme che io possa venire meno. No, mamma, io non sverrò, io non chiuderò gli occhi: voglio guardarlo mentre se ne va, mentre mi abbandona qui, voglio guardare in faccia la fine dei miei sogni, affrontare a testa alta la mia disfatta e la mia vergogna.

La raggiungi e sparisci con lei nel sole, mentre io resto in questa chiesa diventata improvvisamente troppo grande, e troppo fredda.

 

Sono di nuovo nella mia stanza, ho chiuso la porta a chiave, non voglio vedere nessuno; il mio velo è finito sul pavimento, in pezzi. Povero velo: comprato dalla mamma e da Alain con tanti sacrifici, sei stato il mio ultimo baluardo, l’ultima protezione per il mio dolore agli occhi del mondo, e io ho sfogato la mia umiliazione su di te. Non te lo meritavi. Non me lo meritavo.

Mi vergogno di me stessa. Mi disprezzo, per essere stata così ingenua da credere a un sogno; per essere stata così debole da aver donato a un uomo la mia verginità e il mio onore in cambio di vaghe rassicurazioni; per essere stata così folle da credere alle tue promesse.

Io mi vergogno, André, e tu? Ti vergogni della tua superficialità, della tua disonestà? No, non abbastanza, altrimenti non avresti fatto ciò che hai fatto, non mi avresti abbandonato per fuggire con lei.

Ma non sarai mai felice con lei, questa è una promessa: il mio ricordo, e il rimorso per ciò che hai fatto ti perseguiteranno, e ogni tuo boccone avrà il sapore amaro delle mie lacrime, e ogni volta che poserai il tuo sguardo su di lei vedrai me e la mia disperazione. Non ci sarà buio abbastanza oscuro, non ci sarà luogo abbastanza remoto perché io non possa trovarti: ti trascinerò con me all’Inferno, e mentre ardo guarderò la tua anima bruciare. Non ci sarà redenzione per i tuoi peccati, non ce ne sarà per i miei; ma a me non importa, io voglio solo vendetta.

 

La corda è pronta. Io sono pronta. Prega per la tua anima.

 

Postfazione

Questa fanfic è nata rileggendo il manga e soffermandomi su un personaggio poco approfondito sia nel manga che nell’anime che nelle varie fanfic che ho letto: il personaggio di Diane, appunto. Mi è sempre parsa una figura più che altro funzionale, costruita ad hoc per creare il contesto adatto al rafforzamento del legame tra Oscar, André e Alain.

Dopo la rilettura mi sono appunto interrogata su di lei, su cosa avesse potuto provare quando compiva la scelta di morire, su che faccia potesse avere, su come potesse essere, l’uomo che l’aveva abbandonata. E mi è venuto in mente André. Non c’è una motivazione specifica, è stato un lampo; il resto della storia è venuta fuori da sé, in maniera abbastanza immediata, forse per alcuni aspetti banale.

Ma il mio obbiettivo non era tanto inventare una storia originale, ma dei personaggi originali: volevo figure prive di lati positivi, meschine e tristi; volevo un clima ansiogeno, soffocante, che avvinghiasse i personaggi come una tela di ragno.

Inizialmente la morte di Diane doveva essere più sofferta, più dolorosa, ma non volevo ricreare una Diane debole, troppo fragile nella morte: in qualche modo volevo vendicarla, e ho trasformato la sua morte da un atto di sofferenza a un atto di rivincita. Gli altri personaggi invece sono nati già così: Alain, geloso ma incapace di vedere cosa accade tra André e Diane, e quindi incapace di difendere la sorella; André, che non riesce a lasciarsi Oscar alle spalle, che non riesce ad affrontare la sua sofferenza, che cerca scorciatoie al suo dolore; e Oscar, che incombe su tutti come una presenza inquietante e crudele.

Anche il titolo è ironico: André non si rivelerà un principe per Diane, sarà anzi il suo carnefice, colui che la condurrà alla morte. Non è una storia d’amore: è una storia dura, senza luce, senza speranza. Volevo che fosse così, spero di aver raggiunto il mio scopo. E spero vi sia piaciuta.

 

pubblicazione sul sito Little Corner apile 2012

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

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Mail to Costanza costanzamariacristiani@yahoo.it

 

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