Oblivion's Garden
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L’aria sapeva di ghiaccio, fumo e resina: il Natale si stava avvicinando. L’odore di pino e sempreverdi aleggiava anche nella villa, emanato dalle ghirlande con cui Oscar aveva a poco a poco decorato ogni angolo della casa.
Era iniziato tutto per caso: aveva sempre considerato gli addobbi natalizi inutile paccottiglia. Sua madre invece teneva tanto a che tutto il palazzo fosse bardato a dovere, e Nanny passava settimane a sistemare sapientemente decorazioni, candelabri e festoni. Per anni le aveva compatite, e ora si ritrovava anche lei a preoccuparsi di quale potesse essere la migliore disposizione di quelle povere ghirlande di pino e agrifoglio. La prima volta che le aveva acquistate il Natale era l’ultimo dei suoi pensieri. Se ne stavano disposte in bell’ordine su un banchetto vicino la chiesa, dietro il quale erano seduti tre bambini, tutti intenti a intrecciare altre ghirlande. Oscar la merce non l’aveva neppure notata: aveva visto solo i bambini con le schiene curve e le mani arrossate dai graffi, che rabbrividivano in silenzio nelle loro giacchette pur di guadagnare qualche soldo. Si era fatta dare un po’ di monete da Victor e le aveva posate sul banchetto, senza dire una parola. Era già dall’altro lato della piazza quando si era sentita tirare il mantello. “Signora, avete dimenticato le vostre ghirlande!” Il bambino più piccolo le stava davanti, le gambine magre infilate in calzoni troppo corti, e tendeva verso di lei la manina che stringeva tre grosse ghirlande; i suoi grandi occhi scuri la fissavano con una dignità impensabile in un bimbo che non doveva avere neppure quattro anni. Oscar aveva preso i festoni balbettando un grazie, ed era rimasta ferma sul ciglio della piazza, con il braccio abbandonato lungo il fianco e gli occhi lucidi e fissi sul bambino che tornava sgambettando dai suoi compagni.
Che razza di persona era? Di cosa si era riempita la bocca? Aveva parlato di uguaglianza, di diritti, e si era comportata come quei nobili che tanto aveva disprezzato: quei ragazzini erano poveri e lei, ricca, poteva permettersi il lusso di fargli l’elemosina, di commiserare il loro umile lavoro. Forse aveva ragione il popolo a voler eliminare tutti i nobili, forse era vero che non importava quanto fossero buoni e aperti, sarebbero sempre stati diversi, avrebbero sempre guardato il mondo dall’alto in basso, avrebbero sempre compatito chi non era come loro.
Victor aveva visto tutto ed era accorso prontamente. Non aveva detto una parola, non aveva tentato di consolarla, si era limitato a toglierle le ghirlande di mano e a metterle nella sporta insieme alle provviste. Oscar gliene era stata grata: qualsiasi rassicurazione l’avrebbe fatta sentire ancora sciocca, avrebbe rimarcato il suo errore, ma Victor ancora una volta aveva indovinato i suoi pensieri e aveva fatto la cosa giusta. Faceva sempre la cosa giusta.
Da quel giorno ogni volta che andavano al villaggio Oscar comprava qualche ghirlanda. All’inizio le aveva abbandonate dove capitava, ma poi aveva deciso che, visto che c’erano, tanto valeva utilizzarle, e alla fine ci aveva preso gusto: creavano un’atmosfera accogliente, molto più dei fastosi addobbi di sua madre, e poi a Victor sembravano piacere: “È come essere a casa”, aveva commentato una volta osservandoli; come se quel vecchio palazzo non fosse più semplicemente un posto in cui abitavano, ma il loro posto.
La notte di Natale a Palazzo Jarjayes non aveva mai avuto nulla di poetico. Ogni anno, con la scusa di celebrare degnamente e la festività religiosa e il compleanno della figlia[1], il generale organizzava una festa grandiosa, che raccoglieva la crema della nobiltà francese ed era considerata da questa alla stregua dei balli che si tenevano a Versailles: tutti si ingegnavano, sgomitavano, brigavano per essere invitati, e in effetti ne valeva la pena. I domestici passavano settimane intere in fibrillazione, a cucinare, pulire, lucidare, ma quando il palazzo apriva le sue porte, agli ospiti poteva davvero sembrare di essere finiti in un sogno. I marmi dei pavimenti parevano specchi, le dorature scintillavano, la luce dei candelabri e dei lampadari veniva catturata e riflessa in un abbagliante tripudio di colori che faceva quasi male agli occhi. Nell’aria il profumo delle essenze costosissime che il generale importava appositamente si mescolava all’odore delle elaborate pietanze che venivano servite senza sosta a quei palati delicati che in una sola notte ingurgitavano una quantità di cibo sufficiente a sfamare un battaglione per un mese. E poi musica, note a non finire, e fruscii di stoffe, tintinnii di brindisi, risa, brusio; un caleidoscopio opulento che solo la ricchezza poteva creare.
Oscar quella festa la detestava cordialmente. Detestava quella confusione che evocava più il Carnevale che il Natale, tollerava a stento gli invitati, imbecilli beoni e pettegoli, e soprattutto odiava suo padre. Sapeva perfettamente quali erano le spinte che lo muovevano, non c’entravano niente la religione o l’affetto: al generale piaceva ostentare. Le sue ricchezze, il suo potere, le sue belle figlie opportunamente maritate, la sua figlia soldato, riuscitissimo esempio del suo potere e della sua volontà, tutto doveva suscitare nei suoi pari ammirazione e invidia, e per ottenere ciò tutto doveva essere messo in luce, svenduto a quegli occhi famelici e annoiati.
Come se tutto questo non bastasse, doveva anche sopportare il momento dei regali, perché in fin dei conti era il suo compleanno e il generale non avrebbe mai permesso a nessuno di dimenticarsene o di presentarsi con un dono che non fosse all’altezza; così doveva scartare una pletora di oggetti inutili e ringraziare persone che avevano semplicemente pagato il proprio invito e a cui non importava nulla delle sue parole. Era imbarazzante, frustrante, e vagamente offensivo.
C’erano solo due note positive. La prima erano i dolci che Nanny preparava con cura amorevole e perizia sopraffina, e di cui lei si abbuffava indecorosamente, e la possibilità di sgattaiolare negli alloggi della servitù o di introdurre André nei saloni, perché tanto, in quella confusione, nessuno si accorgeva se qualcuno mancava o era di troppo. André portava con sé il divertimento e l’allegria, oltre a qualche bottiglia di vino trafugata con nonchalance dalla cantina con cui innaffiare il loro giovanile buonumore. Da lì era un crescendo di battutacce, risate, confidenze alcoliche, fino a quando André, con una goffaggine che lui attribuiva al troppo bere, tirava fuori il suo regalo per lei: erano oggetti di poco valore rimediati chissà dove, ma che rievocavano sempre il loro legame, un’avventura vissuta insieme, una frase che lei aveva pronunciato, un pensiero espresso a mezza bocca e sapientemente afferrato. Lei lo accettava ridendo e sgridandolo, perché queste cose non le piacevano, erano sciocche e sentimentali e inopportune, però conservava ogni singolo dono in una scatola nascosta nel fondo dell’armadio, dove neppure Nanny avrebbe potuto trovarla. Una scatola che non apriva mai, piena di cianfrusaglie, ma da cui mai si sarebbe separata.
Alla fine però l’aveva persa, come aveva perso lui: quello era il primo vero Natale senza André. Quel pensiero l’aveva subdolamente pungolata per tutto il giorno, come un’ombra ai margini della coscienza, ma quando si era ritrovata a tavola era esploso come un pugno nello stomaco, facendole perdere la poca fame che aveva. Di fronte a lei Victor mangiava tranquillo, gli occhi fissi sul piatto, il silenzio rotto solo dal tintinnare delle sue posate. Oscar si chiese come avesse trascorso il Natale precedente, mentre lei viveva ancora nel suo mondo di fantasmi; decise che non voleva saperlo, l’ultima cosa che le serviva era altra amarezza. Voleva André, la sua allegria, la sua spensieratezza, e invece aveva Victor, con i suoi modi perennemente compiti e il suo impeccabile garbo, Victor che aveva troppo riguardo per i suoi sentimenti per imporle un buonumore fittizio. Lo odiava, odiava quella sua opprimente delicatezza, quel suo intollerabile rispetto, quel suo non capire ciò di cui lei aveva bisogno; e la rabbia si mescolava alla tristezza attanagliandole la gola. Le veniva da vomitare, non sapeva neppure lei perché continuasse a rimanere seduta.
Finalmente quell’orribile, inutile cena di Natale era finita, Victor aveva deglutito l’ultimo boccone e si era alzato scomparendo nelle cucine. Probabilmente sarebbe ritornato commentando acidamente il successo della cena e la totale mancanza di entusiasmo e collaborazione di Oscar, e il loro Natale si sarebbe concluso con una lite furiosa, il che almeno le avrebbe fornito un pretesto per liberarsi di un po’ del livore accumulato. Contro tutte le sue aspettative, Victor ricomparve portando semplicemente un involto di carta. “È per te” disse a mezza voce. “Buon compleanno, Oscar.”
Oscar scartò delicatamente il dono, che si rivelò essere una piccola torta alla crema, di aspetto casalingo, da cui saliva un lieve odore di zucchero e limone. “So che i dolci ti piacciono, ricordo che a Natale ne mangiavi tantissimi…” continuò Victor. “Certo non è paragonabile a quelli che preparava la tua governante, ma…”
“No Victor, è… perfetta. Direi che il caso di assaggiarla, ti pare?”
Ne tagliò un pezzo per Victor e uno minuscolo per sé, che mangiò a fatica; se possibile, lo stomaco le si era chiuso ancora di più, le sembrava che non sarebbe riuscita a mandar giù neppure un sorso d’acqua. Victor era stato capace di notare una sua puerile e insulsa abitudine, di ricordarla a distanza di anni; aveva studiato quel regalo per farla sentire a casa, al sicuro, amata. E lei per lui non aveva avuto neppure un pensiero, tutta presa dal suo passato e dalla malinconia. Il fatto che fosse sempre stata abituata a ricevere regali per Natale e non a farne non era una giustificazione. Si sentiva confusa e mortificata, e il sorriso affettuoso di Victor non faceva che aumentare il suo disagio.
Fece un bel respiro profondo. “Victor… anch’io ho qualcosa per te. Vieni” disse alzandosi da tavola. Victor la seguì incuriosito fino a una delle stanze abbandonate del palazzo, in cui campeggiava un pianoforte coperto di polvere. Oscar lo aveva scovato in uno dei suoi tanti vagabondaggi; qualche volta lo aveva anche suonato, quando Victor non era in casa: era un po’ scordato ma ancora funzionante. Si sedette allo sgabello. “Vorrei suonarti qualcosa… se ti fa piacere[2].”
“Certo, Oscar.”
“Preferenze?”
“No, fai tu.”
Scelse un brano di Mozart, uno degli ultimi ad essere arrivato in Francia prima della Rivoluzione[3]. Le era piaciuto al primo ascolto, non aveva il carattere allegro e giocoso delle altre composizioni, era più lento, più raccolto, pervaso da una malinconia sottile che il suono polveroso dello strumento rendeva ancora più struggente. L’accompagnamento perfetto per quel momento.
Victor non vedeva che Oscar. Le fissava le mani, le dita lunghe e sottili, quasi diafane, che si muovevano leggere e sicure al ritmo della musica, un tutt’uno con lo strumento per colore e armonia. Avrebbe voluto fermarle, stringerle e posarle su di sé, sentire quello stesso tocco sulla propria pelle. In quel momento Oscar sbagliò un accordo, arrossendo violentemente. Non può sentire i miei pensieri, ragionò Victor; e poi si chiese se anche durante l’amore le guance di Oscar si accendessero in quel modo. Un altro accordo stonato.
L’eco delle ultime note risuonò tremulo nella stanza vuota. Oscar si sentiva terribilmente accaldata e anche parecchio scocciata: le sue mani non la tradivano quasi mai al piano, e quand’anche capitava non le era mai successo di andare così nel panico. D’altra parte non aveva mai suonato sentendo tutta quell’attenzione su di sé. “Scusami Victor… devo essere parecchio arrugginita” disse con un mezzo sorriso.
“Non capisco di cosa tu ti stia scusando. Sei stata bravissima.”
“Si vede che non sai suonare.”
“Ti sbagli Oscar, c’è uno strumento che so suonare perfettamente.”
“E sarebbe?”
“Il campanello per chiamare i domestici.”
Il silenzio già greve che aleggiava nella stanza si fece denso come miele. Oscar lo fissava a occhi spalancati, interdetta. Stupido idiota che sono, perché ho dovuto dire una cosa così cretina?
Era una freddura che per un breve periodo era stata di gran moda a Corte, ripetuta fino allo sfinimento da tutti gli spiritosi o presunti tali. Victor non si era mai ritenuto un uomo simpatico: per far ridere bisogna innanzitutto essere capaci di ridere, si diceva, e anche se molti lo consideravano divertente il suo carattere ombroso e controllato era sempre stato decisamente poco sensibile a questo tipo di umorismo grossolano. Non capiva quindi come gli fosse venuto in mente di fare dello spirito, e perché, fra tutte le battute che conosceva, gli fosse venuta in mente la più stupida nonché, visti i trascorsi di Oscar, la meno appropriata.
Stava già preparandosi a ricevere una sonora e meritatissima sberla quando Oscar iniziò a ridere. Dapprima una specie di soffio con il naso, poi un mezzo singhiozzo e poi finalmente una risata di gola, così forte da farla piegare in due sul pianoforte con una mano sulla pancia e le lacrime che le si raccoglievano agli angoli degli occhi. Oscar rideva, rideva, e più rideva più le veniva da ridere, e il riso si portava via i ricordi del passato, le incertezze del presente, le lacrime fin troppo trattenute. Smise solo quando udì un bizzarro suono sibilante: era Victor che rideva con una sorta di sghignazzo trattenuto, insolito come tutto ciò che lo riguardava. Il riso gli disegnava due piccole fossette ai lati delle labbra, pareva riempirgli gli zigomi affilati, e Oscar lo vide come doveva apparire da bambino, quando in quelle stesse sale giocava spensierato con la madre. Il viso di Victor diventava bellissimo, persino troppo bello, quando perdeva il solito contegno e si abbandonava all’emozione; e per certi versi era un bene che capitasse così raramente.
Percependo il silenzio intorno a sé Victor ritornò serio. Dal pianoforte Oscar lo fissava con una dolcezza a cui non era abituato. “Che c’è?”
“Niente. È che… sei… diverso, quando ridi.”
“È un complimento?” chiese ironico.
“Sì.”
Victor non rispose, non c’era parola adeguata al suo stato d’animo. Rimasero semplicemente a guardarsi per un tempo che pareva infinito, in attesa di un gesto che li inchiodasse ai loro sentimenti e che, lo sapevano entrambi, nessuno dei due avrebbe compiuto. Alla fine fu Oscar che, alzandosi dallo sgabello, ruppe la tensione. “Beh Victor, credo che ormai sia parecchio tardi… e io mi sento un po’ stanca. Ancora auguri, e grazie di tutto, per la cena, la torta… è stato tutto… perfetto…”
“Grazie a te, Oscar. È stato il più bel regalo che abbia mai ricevuto.”
La mano di Victor si posò su quella di Oscar, abbandonata sul pianoforte: nonostante il pallore era calda, sorprendentemente piacevole e rassicurante contro la pelle gelata di lei. La stretta in cui la chiuse non era più il tocco appena accennato a cui l’aveva abituata ma una pressione decisa, inequivocabile. Oscar fu certa che l’avrebbe baciata: le si era fatto vicinissimo, poteva vedersi riflessa nei suoi occhi chiari, sentiva il suo petto sfiorarle il seno; alto com’era la sovrastava completamente, impedendole una fuga di cui comunque non aveva la forza. Che lo facesse allora, che desse finalmente sfogo ai suoi sentimenti; gli avrebbe mollato un ceffone e quell’inutile, snervante pantomima sarebbe finita. Ma era proprio sicura di riuscire a dargli uno schiaffo e allontanarlo, quando non era nemmeno capace di sottrarsi al suo sguardo? A quel punto avrebbe subito, si sarebbe lasciata baciare, le era già capitato[4] e non era poi così terribile. Il problema non era quello. Il problema era il calore che le si irradiava dal ventre, una sensazione che aveva provato solo con André e che ora cercava inutilmente di reprimere; il problema era la possibilità che le piacesse, che ricambiasse quel bacio.
Chiuse gli occhi, e le labbra di Victor si posarono lievi contro la sua tempia. “Buon Natale, Oscar, e buon compleanno.” Si allontanò rapido come si era avvicinato, scomparendo nel buio del corridoio. Oscar riprese a respirare, sollevata e delusa, il cuore che batteva all’impazzata. Non poteva dire che le dispiacesse questa sua rinuncia, ma non ne era nemmeno contenta; soprattutto non la capiva: perché desistere a un passo dalla meta, quando lei si era mostrata così arrendevole ai suoi desideri? Sapeva che in fondo non era questo che lei voleva? Era davvero così rispettoso, così controllato? O forse semplicemente si era stancato di lei e di quella lotta contro un rivale ineguagliabile?
L’occhio le cadde sul pianoforte, su cui si stagliava l’impronta delle loro mani intrecciate. Soffiò via la polvere intorno, fino a cancellarne qualsiasi traccia, poi prese la candela e si diresse verso la sua stanza, evitando accuratamente di guardare la porta chiusa di Victor.
Oscar era divorata dal dispetto, non era una damina leziosa con cui fare giochetti, le sue avances da cicisbeo Victor poteva andare a farle a qualcun’altra, non certo a lei; e ancora di più si infuriava al ricordo del turbamento che aveva provato e a come Victor avrebbe potuto interpretarlo: era stata una reazione sciocca, frutto soltanto della malinconia e della solitudine, non aveva niente a che vedere con lui, e glielo avrebbe dimostrato chiaramente, se solo ci avesse riprovato.
Alla fine però si convinse di essere stata lei, nella commozione del momento, a travisare gesti e intenzioni: Victor continuava a comportarsi come sempre, quell’episodio non significava nulla. Forse era diventato un po’ più affettuoso, la cercava di più; se gli capitava di sfiorarla per qualche motivo banale, porgerle un oggetto o aiutarla a superare un tratto di strada particolarmente difficile, il suo tocco durava forse appena un po’ di più, era un po’ più intenso del dovuto, ma probabilmente si trattava solo di suggestione. E anche se quei contatti fortuiti accendevano in lei un’improvvisa quanto indesiderata scintilla, certo non poteva accusarlo di essere troppo gentile o mettersi a cavillare sulla durata lecita di un contatto tra due persone. Avrebbe ignorato quegli stupidi palpiti, e com’erano venuti se ne sarebbero andati.
L’inverno pareva non voler finire, continuava a imperversare sulla Francia acuendo la fame e la miseria dei novelli cittadini. Il maltempo fondeva le settimane in un presente unico, grigio e monotono, in cui la luce del giorno era sostituito da un lucore malsano non troppo dissimile dal buio. Le loro uscite si erano ridotte al minimo, Victor sosteneva che era meglio per ora essere prudenti; troppa rabbia e troppo bisogno, diceva. Le ore erano diventate così uno stillicidio infinito che divorava ogni energia in una logorante inerzia e appiattiva i pensieri.
Ripresero a leggere insieme, fu Oscar a chiederglielo, per spezzare il tedio di quelle eterne giornate crepuscolari. I pomeriggi e le serate le trascorrevano così, sul sofà davanti al camino, Victor che leggeva ad alta voce e lei accoccolata sotto il suo braccio, che un po’ seguiva la pagina un po’ lo ascoltava. Victor aveva una voce bassa e profonda, ricchissima di toni e sfumature, e sapeva usarla sapientemente: enfasi, pause, accenti, tutto era modulato e intrecciato alla perfezione, ed era quasi impossibile per Oscar non abbandonarsi alle immagini e alle emozioni che lui evocava. Spesso finiva davvero per addormentarsi, ma a volte a chiuderle gli occhi era una sorta di molle languore che le faceva reclinare il capo sul petto di lui, godendo del suo profumato calore. Ma non era sonno vero, sentiva tutto, le pagine che Victor continuava a sfogliare in silenzio, i sospiri che gli sollevavano il petto, la carezza leggera della sua mano lungo la spalla, le sue labbra che talvolta le sfioravano i capelli. Era sbagliato comportarsi così, era un tradimento e una tortura. Ma era anche un bisogno a cui non riusciva a sottrarsi, nonostante i sensi di colpa che le procurava. Ma finché Victor non le avesse chiesto spiegazioni, finché André non fosse tornato a tormentarla, avrebbe potuto continuare a dirsi che lo faceva solo per stanchezza, solo per amicizia, e relegare la verità in quell’angolo buio della sua mente dove nascondeva tutto ciò che riguardava Victor.
pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2014
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