Oblivion's Garden

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Il giorno giunse uggioso, oppresso da una cappa grigia e afosa che smorzava la luce in un’irreale opacità. Distesa sul letto, perfettamente sveglia, gli occhi fissamente aperti, Oscar ascoltava i rumori pesanti e i sordi strascichii provenienti dal piano inferiore, segno di un’inusuale attività mattutina che non lasciava presagire nulla di buono. Esasperata dall’inerzia e dall’attesa, Oscar si alzò di scatto e scese al piano di sotto, dove gli occhi le confermarono ciò che le orecchie le avevano suggerito: la sala era quasi completamente sgombra, la maggior parte dei bauli era già stata portata via, e Victor stava dando disposizioni riguardo agli ultimi bagagli a un uomo dal viso stanco e segnato, presumibilmente un facchino. Stava giusto soppesando una sacca da viaggio quando notò Oscar alla base delle scale. “Buongiorno, Oscar. Sono lieto che tu sia già sveglia, prima partiamo e meglio è. Va’ a vestirti.”

Senza rispondere, Oscar cercò con lo sguardo la mano sinistra di lui, sulla cui fasciatura si notavano grosse chiazze irregolari di sangue rappreso. “Non hai cambiato la medicazione.” La constatazione dell’ovvio. “Fammi vedere.”

Si allungò verso la mano di Victor, che la ritrasse bruscamente. “Oscar, sto benissimo” disse secco, gettando un’occhiata nervosa verso la porta, da dove il facchino stava uscendo portando sulle spalle un grosso baule: chiaramente non voleva dare spettacolo o aggiungere ulteriori motivi di pettegolezzo a una situazione già bizzarra di per sé.

“Questo lo dico io” ribatté Oscar imperiosa “ora dammi questa mano.”

Riluttante, ed evitando accuratamente di guardarla, Victor protese il braccio verso Oscar, che disfece rapida le bende e valutò con occhio critico il palmo di Victor:  non aveva un aspetto dei migliori, solcato com’era da profonde cicatrici rossastre, ma almeno non c’erano segni di infezione. “Meglio di quanto sperassi” commentò pragmatica rifacendo la fasciatura.

“Perfetto, ora va’ a vestirti.”

Victor fece per sfilare la mano dalla presa di Oscar, ma lei la trattenne. “Victor… per favore… non portarmi a Parigi.”

Lui la guardò freddo. “Perché?”

“Signore, scusate, quali…” Il facchino fece capolino dalla porta.

“Silenzio! Aspetta fuori.” Il pover’uomo svanì così come era apparso. Victor non aveva alzato la voce, non aveva mosso un muscolo: i suoi occhi rimanevano fissi in quelli di Oscar.

“Rispondimi, Oscar: perché non dovrei farlo?”

Domanda lecita, a cui Oscar doveva una risposta. Non che ne mancassero: la prima, banalmente, era che Parigi le avrebbe riportato alla memoria tutti i dolorosi avvenimenti di cui era stata teatro; ma questo Victor lo sapeva già, ed evidentemente non lo riteneva sufficiente. E in effetti non lo era, perché non c’era solo il passato a opprimerla. Provava un divorante senso di colpa per quella promessa di morte che aveva fatto ad André, che non aveva mantenuto e a cui non voleva più adempiere, nonostante si fosse ripetuta fino allo sfinimento, nel segreto delle sue notti buie, che non c’era nulla per cui valesse la pena vivere. Lì, in quella casa così estranea alla sua vita, poteva sopportarlo, a Parigi no; a Parigi, ne era certa, in ogni angolo, a ogni incrocio avrebbe visto André, una gamba poggiata contro il muro, le braccia conserte, l’unico occhio brillante di dolore e di tacita accusa. E sarebbe davvero impazzita.

Ma questo a Victor non poteva dirlo, erano pensieri troppo allucinati, troppo sconnessi per dar loro voce, lo avrebbero soltanto rafforzato nel suo proposito; e poi era evidente che Victor non avrebbe voluto sentir parlare di André neppure in negativo, e lei stessa provava una sottile ritrosia a nominarlo di fronte a lui.

“Perché io… non posso.” Era la verità ed era tutto ciò che poteva dirgli.

Sollevò il viso verso Victor e incontrò il suo sguardo imperscrutabile di sfinge, il suo volto immobile che si sarebbe animato solo per pronunciare la sua incurante sentenza. Se solo fosse riuscita a capire cosa stava pensando in quel momento. Se solo avesse trovato le parole per spiegarsi. Se solo lui fosse stato in grado di leggere nel suo silenzio. Se solo… ma non si poteva, perché a volte la vicinanza scava baratri per i quali non ci sono ponti.

Oscar rimaneva così, le dita chiuse sulla mano di Victor, implorante, senza più orgoglio, postulante muta pateticamente in attesa. Doveva apparire ben ridicola. Gli occhi iniziarono a pungerle di lacrime che trattenne senza poterle ricacciare indietro, fragili, piccole gocce brillanti tra le ciglia.

Victor manteneva un volto impassibile mentre la sua volontà andava in pezzi e le sue risoluzioni si sgretolavano come castelli di sabbia; quelle parole supplici, quel pianto umiliato vibravano colpi sommessi e insostenibili: erano opera sua, di lui che la amava così tanto, di lui che sapeva solo farle male. Perché doveva essere tutto così dannatamente sbagliato?

Le dita contratte di Victor si rilassarono, la sacca cadde a terrà; sospirò: “Va bene, Oscar, resteremo qui. Ce ne andremo quando tu lo vorrai.”

Il volto di Oscar si aprì in un sorriso pallido, e allora Victor capì. Capì che per lei avrebbe dato tutto, anche ora che non aveva più niente da offrirle; capì che sì, forse lui non era il tipo di eroe che combatte draghi o varca oceani a nuoto, ma se per renderla felice avesse dovuto rimangiarsi le proprie parole, fare la figura del buffone, attribuirsi colpe che non aveva, ebbene lo avrebbe fatto senza pensarci due volte[1]. Anche solo per vederla sorridere.

“Grazie Victor, io…” Non sapeva come proseguire. Gli strinse la mano ferita, appena un po’ più forte di quanto richiedesse la gratitudine, ma quella compostezza le sembrava falsa, forzata. Forse avrebbe dovuto abbracciarlo. Forse avrebbe voluto abbracciarlo. Ma Victor rimaneva così freddo… Lo lasciò andare. “Ora vado di sopra, sono… stanca. Stanotte ho dormito male.”

E mentre la guardava risalire le scale con passo malfermo, pronto ad afferrarla appena lei avesse vacillato[2], Victor rifletté che, qualsiasi cosa fosse accaduto tra loro, non sarebbe mai stato in grado di lasciarla: le apparteneva, come un cane. Ma un cane non avrebbe mai potuto amarla altrettanto[3].

 

Oscar e Victor continuarono a vivere insieme, se si può chiamare vita il cauto muoversi sul filo di un equilibrio sempre pronto a spezzarsi, preoccupati di mantenere la giusta distanza per non farsi troppo male. Oscar lo trovava estenuante e paradossale, aveva abbattuto il proprio muro solo per ritrovarsi davanti quello di Victor, ben più infido e ambiguo perché volutamente impenetrabile. Victor non sembrava minimamente angustiato dalla distanza che si era creata tra loro: distaccato e tranquillo, limitava le loro conversazioni a educate banalità che il più delle volte troncava con il vago pretesto di doversi dedicare a impellenti quanto nebulosi impegni. Era profondamente irritante; decisamente Oscar lo preferiva quando dava in escandescenze a quando affettava quella assurda cortesia: almeno le urla erano una forma di comunicazione.

La cosa positiva era che Victor, preso com’era da questi suoi presunti affari, trascorreva la maggior parte del tempo fuori di casa, per cui queste ridicole pantomime non erano poi troppo frequenti. Oscar dal canto suo, ormai libera di andare ovunque volesse, se ne stava per lo più nel parco, a divorare libri all’ombra di un vecchio salice malinconico che si specchiava nel laghetto: la lunga reclusione le aveva suscitato un bisogno pressante di aria, luce, colori, profumi, che solo lì trovava un po’ di soddisfazione. Il vasto giardino mostrava ancora alcune tracce di come era stato un tempo: la ghiaia dei vialetti che lo attraversavano, i vaghi contorni delle aiuole, i filari di siepi; ma gli anni e l’abbandono avevano fatto sì che la natura divorasse l’artificioso ordine umano trasformandolo in un fantasmagorico caos di vita vegetale, dove i fiori occhieggiavano tra le piante infestanti e gli arbusti si univano in inestricabili grovigli intorno a statue ricoperte da morbido muschio. Per chiunque altro quel parco inselvatichito sarebbe stato l’ennesima, deprimente rappresentazione di un’era che moriva mestamente, ma a Oscar piaceva, molto più di quanto le fossero mai piaciuti gli eleganti, studiati giardini di Versailles; ne aveva avuto abbastanza di costrizioni e vincoli. Tutta la sua esistenza era stata una pletora di obblighi da espletare e regole da seguire, e alla fine la vita vi aveva ugualmente innestato ciò che aveva voluto, sconvolgendo tutti i disegni, trascinando ogni cosa nel suo indifferente fluire; e lei ora le imposizioni non le sopportava più, neppure se riguardavano semplicemente povere piante inconsapevoli.

E poi quel giardino era un tripudio di colori di tale sfolgorante splendore che neppure il più fine architetto sarebbe mai stato capace di eguagliare. In quella dolce fine di settembre, ancora tiepida e profumata, tenacemente abbarbicata all’estate che fuggiva verso l’altra metà del mondo, la natura dispiegava tutta la sua gamma di verdi, da quelli cupi e profondi degli agrifogli e degli acanti fino a quelli pallidi e delicati dei carpini, che scolorivano nei gialli carichi delle querce e degli aceri. Era uno spettacolo di grandiosa, commovente bellezza, di quelli che potresti guardare in eterno senza smettere di scoprire ogni volta qualcosa di nuovo, di inatteso. Oscar aveva provato a catturare quelle sfavillanti sfumature cimentandosi con un vecchio set da disegno scovato nei suoi vagabondaggi, ma vi aveva presto rinunciato; il disegno non faceva proprio per lei, richiedeva troppa cura, troppa precisione, troppa delicatezza, e lei era un tipo da azioni rapide e decise, che voleva vedere subito i risultati delle sue fatiche[4]. Al decimo foglio malamente accartocciato aveva stabilito che non era il caso di aggiungere snervo a snervo: aveva bisogno di pace, la pace che emanava dalle piante palpitanti e languide, la loro inconsapevole consapevolezza che la vita non è sempre una lotta frenetica, che c’è il tempo del riposo, del cordoglio, e poi c’è il tempo della rinascita, perché a tutte le tempeste, in qualche modo, si sopravvive[5]. Oddio, forse non a tutte, forse era lei che voleva crederlo; ma in ogni caso era un pensiero confortante.

Victor invece sembrava mettere la massima cura nel trascorrere in giardino il minor tempo possibile; la sua presenza nel parco si riduceva ai rapidi passaggi necessari a uscire dalla proprietà la mattina e rientrarvi il tardo pomeriggio, e le poche ore che restavano le trascorreva sempre in casa. Si comportava come se avesse voluto evitarla, ma Oscar aveva presto capito che non era esattamente così. Il vialetto che portava dal portone al cancello era breve e diretto, piuttosto lontano dallo stagno; eppure Victor, per i suoi spostamenti, sceglieva un sentiero lungo e tortuoso che lo portava a passare davanti al salice. L’idea che allungasse il percorso per godersi l’aria fresca era assolutamente inverosimile, ma anche l’ipotesi che lo facesse per poterla vedere era un po’ debole, considerando la fretta che ostentava e il fatto che guardasse sempre davanti a sé; o meglio, quasi sempre, perché ogni tanto si girava, quando era convinto che lei fosse particolarmente presa dalla lettura e non facesse caso a lui. Ma Oscar, nascosta dalle pagine e dalle foglie ondeggianti, poteva seguire con la coda dell’occhio tutti i suoi movimenti, e si era presto accorta delle occhiate che lui le lanciava. Non che le facessero piacere: ogni volta che la guardava, Victor aveva un’espressione triste e scontenta che le dava un profondo senso di disagio, come se lui volesse fare qualcosa, come se lei dovesse fare qualcosa. Se dovevano giocare a questa guerra di nervi forse era meglio se Victor pensava agli affari suoi. Cosa che per altro sembrava fare, ma cosa facesse esattamente restava poco chiaro. Di certo non lavorava, o quantomeno non si dedicava a lavori pesanti, visto che era sempre pulito e in ordine, senza neppure una macchia o una sgualcitura sui vestiti; del resto non aveva nemmeno bisogno di un impiego: i Girodel erano ricchissimi, e a quanto Oscar aveva capito Victor era stato abbastanza furbo da portare con sé tutti i suoi soldi prima di trasferirsi lì con lei, per cui qualunque cosa facesse nei dintorni doveva farla più che altro come passatempo.

C’era una sola cosa a cui Victor si dedicava con certezza: le lettere. Oscar non lo aveva mai visto scrivere, però aveva spesso trovato nel camino frammenti di carta bruciacchiati e quasi illeggibili, e una volta lo aveva colto di sorpresa mentre leggeva un misterioso biglietto. Alla domanda di Oscar su quale fosse il contenuto aveva ambiguamente risposto “cose che non ti farebbe piacere sapere”, e poi aveva prontamente bruciato la missiva. Oscar aveva fatto spallucce ed era salita in camera sua indispettita: la sua era stata solo curiosità e Victor le si era rivolto con la solita, indisponente, altezzosa sufficienza. Come se ci fosse qualcosa delle sue faccende che possa interessarmi, come se dopo André possa esserci ancora… E lì aveva capito che probabilmente la lettera di Victor un nesso con André ce l’aveva: notizie da Parigi; cattive notizie presumibilmente, che avrebbero riaperto vecchie ferite.

La stava proteggendo, quindi, evitava di darle nuovi motivi di dolore. Ma perché bruciare le lettere? Gli sarebbe bastato nasconderle nella sua stanza, dove lei non entrava mai, dove anche se le avesse viste per rispetto non le avrebbe lette. Evidentemente quella corrispondenza non doveva essere scoperta da nessuno, in nessun caso, perché se fosse stata trovata avrebbe messo in pericolo entrambe le parti. Una delle parti era Victor, e l’altra? Qualcuno rimasto a Parigi e che lui conosceva: Rosalie, Bernard, forse addirittura Alain, qualcuno implicato nella Rivoluzione in atto. Oscar era certa che il contenuto di quelle lettere fosse innocuo: notizie sulla situazione in città, rassicurazioni sulla sua salute… Victor non aveva proprio l’aria del cospiratore. Ma allora perché tante precauzioni? A chi potevano interessare dei biglietti tanto banali? Possibile che si fosse arrivati al punto di intercettare qualsiasi messaggio pur di trovare dei capi espiatori su cui riversare la vendetta del popolo? Se queste erano le nuove regole che erano state istituite, era contenta di essersene tirata fuori.

Nei lunghi pomeriggi passati in solitudine Oscar aveva riflettuto molto su queste sue ipotesi, e alla fine era giunta alla conclusione che erano soltanto speculazioni oziose, buone a tenere per un po’ la mente impegnata: dalla morte di André tutta quella storia, la Rivoluzione, la libertà, l’uguaglianza, aveva perso il suo fascino, era diventata una mera situazione contingente, un evento che toccava un altro mondo, altre persone. Lei aveva preso parte alla Rivoluzione per lui, per loro; perché per lui era importante, perché poteva dare loro un futuro alla luce del sole, senza sotterfugi, senza paura, senza vergogna. Ma ora che André non c’era più che cosa restava? Ora che anche la rabbia, il bisogno di vendetta erano svaporati, che senso avrebbe avuto continuare a combattere, o anche solo interessarsi alla causa? Sì, era un’egoista, aveva fatto tutto per sé e non per i grandi ideali, ma non valeva forse per tutti? Non cercavano tutti di migliorare in primis la propria, di condizione, e poi quella degli altri? Che senso aveva lottare se non per una speranza? E in che cosa poteva sperare lei, Oscar, adesso, se non nella pace del proprio spirito? La Rivoluzione non la riguardava più: che si estinguesse nel sangue, che distruggesse la Francia, che capovolgesse il mondo… non aveva più importanza.

Chissà Victor cosa ne pensava, lui che nel vecchio mondo ci stava bene, lui che in quello stato di cose aveva costruito la sua vita, una vita che non gli andava stretta, una vita che lo soddisfaceva. Non si era mai espresso al riguardo, ma era impossibile che non ne soffrisse: la Rivoluzione gli aveva tolto tutto, lasciandogli soltanto una vecchia casa e il suo ingegno per costruirsi una nuova esistenza[6]. Un’esistenza borghese, a giudicare dagli abiti con cui aveva sostituito i suoi eleganti completi. Ogni tanto Oscar, guardandolo passare, si chiedeva come riuscisse a farsi passare per tale: con quella carnagione pallida, quelle mani lisce, quei capelli assurdamente lunghi, decisamente non aveva l’aria dell’uomo del popolo; forse se fosse stato un po’ più abbronzato, con i capelli più corti… ma poi non sarebbe stato più lui. Non sarebbe più stato l’uomo fine ed elegante che Oscar aveva conosciuto, non sarebbe più stato l’uomo tenace che l’aveva salvata da se stessa, non sarebbe più stato l’uomo enigmatico che si nascondeva dietro una maschera di fredda cortesia e che la riempiva di inquietudine. E Oscar non era sicura di volerlo diverso. 

 

“Posso?” Era la prima volta che si fermava a parlarle in giardino: la prese alla sprovvista.

“Certo, se vuoi…” Ma che sei, scema? Se te lo sta chiedendo è ovvio che lo vuole.

Victor parve non notare la banalità della sua frase; si sedette sull’erba accanto a lei. Rimasero a lungo in silenzio, entrambi impacciati da quella vicinanza che aveva caratterizzato tanta parte della loro vita e che ora non sapevano più gestire. Victor fissava il sole che tramontava dietro le basse colline alle spalle dello stagno, Oscar un po’ le pagine del libro che aveva in mano un po’ la punta dei propri piedi.

Finalmente Victor capì che non era il massimo dell’educazione imporre la propria presenza per poi starsene muto e fermo come una statua. “Ti piace questo posto, eh?”

Ma cos’è, una gara a chi è più brillante? Oscar decise che era meglio ingoiare quel rigurgito di acidità. “Sì, molto. C’è una grande serenità qui.”

“Immagino sia vero.”

E questo tono di sufficienza che vuole significare?

“Una volta la proprietà era più grande” proseguì Victor senza nessun nesso logico “arrivava fin laggiù.” Indicò una distesa di campi coltivati, messi a riposo in prospettiva dell’inverno imminente, malinconicamente bruni rispetto allo sfolgorio di gialli e arancioni del giardino: un’immagine decisamente poco allegra. Del resto anche la voce di Victor non era delle più entusiaste.

“E poi?” chiese Oscar incuriosita

“Alla morte di mia madre, mio padre decise di vendere tutto. I lotti di terreno sono stati acquistati subito, ma la casa… troppo grande e costosa per un povero borghese. E ai nobili non interessava: come puoi vedere qui non siamo proprio al centro della vita mondana; per cui è rimasta invenduta, e poi l’ho ereditata io.”

Pensierosa, il mento posato sulla mano, Oscar lasciava correre lo sguardo intorno. “Questo posto è così bello… non capisco proprio perché uno possa volersene sbarazzare…”

“Apparteneva a mia madre. Mio padre non ha mai amato questa casa; quando lei morta ne ha subito approfittato per liberarsene. Del resto non ha mai amato molto nemmeno lei.” Tacque di colpo: sulla scia dei ricordi di infanzia aveva parlato senza riflettere, riesumando cose che era bene rimanessero dove erano. Cose che non amava menzionare; cose che aveva sempre nascosto con cura; cose che avrebbe preferito dimenticare.

Oscar, ancora assorta, non colse la brusca interruzione. “Tu hai mai vissuto qui?”

Ormai il danno era fatto; l’unica via di uscita era cercare di rendere il discorso meno interessante possibile, nella speranza che morisse da sé. “Qualche estate. Da piccolo.”

“Ti ci vedo a scorrazzare qui intorno!” A quella frase Victor sorrise di un sorriso dolce e strano, storto, che gli sollevava solo l’angolo sinistro della bocca. In quella luce, con quell’espressione, per la prima volta Oscar lo trovò bello; e subito dopo si chiese a cosa diavolo stesse pensando. Andò in confusione, sentì le guance in fiamme, e tentò di recuperare dicendo la prima cosa che le venne in mente. “Il piccolo Victor che gioca al soldato!”

L’espressione di Victor si incupì di colpo, i suoi occhi si fecero scuri; si fissò le mani. “Non giocavo al soldato.”

“Ah no? E a cosa giocavi allora?”

“Certo non al soldato!”

Si era alzato di colpo, voltandole le spalle. Oscar si sentì incredibilmente sciocca: il mutamento di espressione di Victor era stato eloquente, evidentemente la sua infanzia era un argomento che non voleva toccare, eppure lei aveva insistito a parlarne, lo aveva provocato a bella posta solo dissimulare il proprio imbarazzo.

Victor continuava a darle le spalle, le dita che si contraevano e distendevano nervosamente; poi improvvisamente rilassò le spalle e tornò a guardarla, il viso composto nell’espressione tranquilla e distaccata che aveva di solito. “Perdonami Oscar: un atteggiamento davvero scortese da parte mia.”

“Victor, io non…”

“Per oggi abbiamo parlato abbastanza. Rientriamo, comincia a fare freddo.” Le sistemò il mantello sulle spalle stando bene attento, notò Oscar, a toccare solo la stoffa e i lacci, mantenendosi scrupolosamente distante dalla sua pelle. “E poi è una così bella serata… non è proprio il caso di guastarla con tristi ricordi, non credi?” Di nuovo quel sorriso sbilenco, da cui però era svanita qualsiasi traccia di dolcezza, lasciando solo una smorfia ironica; senza attendere risposta si incamminò lungo il vialetto, verso casa.

Oscar lo seguì in silenzio, confusa. Gli scatti d’ira di Victor erano inquietanti, ma la sua capacità di recuperare così repentinamente la calma, l’arte con cui sapeva simulare un atteggiamento noncurante erano ancora più destabilizzanti. Non riusciva a capirlo, e questa sua natura enigmatica da un lato la spaventava, dall’altro la attraeva. Per anni lo aveva reputato un uomo banale, fatuo e superficiale, concentrato sulla sua carriera e sulla vita di Corte, e ora si rendeva conto che lo aveva creduto perché lui aveva voluto che fosse così. Oscar non riusciva a immaginare cosa nascondesse la maschera di Victor, né tantomeno dove fosse il confine tra ciò che lui mostrava di sé e quel lato oscuro che cercava in tutti i modi di soffocare. Chi era il vero Victor, quello che aveva conosciuto o quello che stava scoprendo adesso? Entrambi? Nessuno dei due?

Si fermò ad osservarlo, lui non se ne accorse. Mentre si confondeva con le ombre della sera, con il suo passo elegante, la schiena dritta, i lunghi capelli che la luce del tramonto trasformava in calde onde ramate, sarebbe potuto essere un cavaliere solitario delle vecchie leggende, uno di quegli eroi cupi che arrivavano a risolvere i problemi per poi tornare in silenzio nell’oscurità da cui erano usciti. Un altro pensiero stupido.

 


[1] Ispirato a Ritratto di signora in raso rosa di Roberto Vecchioni

[2] Catch my fall, Billy Idol

[3] Ispirato a un brano del musical Notre-Dame de Paris di Riccardo Cocciante

[4] Piccola nota autobiografica che spiega anche perché le mie ff siano così drammaticamente carenti di illustrazioni ^_^

[5] Quest’ultima frase mi è stata ispirata da un verso, And there are storms we cannot weather, della canzone I dreamed a dream, tratta da Les Miserables

[6] Queste riflessioni di Oscar nascono da uno spunto datomi da Laura in una mail del 10/04/2013


 

pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2013

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

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